Visualizzazione post con etichetta CATTIVE NOTIZIE DALL'ECOSISTEMA. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta CATTIVE NOTIZIE DALL'ECOSISTEMA. Mostra tutti i post

domenica 18 luglio 2021

Clima, nuvole e termometri infedeli

VIVIAMO IN UN MONDO DI MISTIFICATORI: DALLE PANDEMIE AL CLIMA. FALSIFICARE LA REALTA' FRUTTA MILIARDI AL POTERE FINANZIARIO....




Non tutto il male viene per nuocere e lo sforzo fatto in questo anno e mezzo per addentrarmi nelle “cucine” della pandemia e della formazione dei dati, ha ampliato anche il mio orizzonte in altri campi inducendomi a dare meno per scontati i “numeri” cha abbiamo o che magari manipoliamo senza nemmeno accorgercene lasciandoci prendere la mano da credenze di vario tipo che inconsapevolmente si trasformano in conoscenze. Di certo si rimane straniti di fronte alla improvvisa svolta ecologica della finanzia e del potere oltre che impauriti di fronte ai dati della Word meteorological Organization ( una sorta di analogo dell’Oms, quindi capite bene di cosa stiamo parlando) che prevede un aumento record di caldo tanto che ci sarebbe probabilità del 90% che almeno un anno del periodo tra il 2021 e il 2025 diventi il più caldo mai registrato, scalzando così il 2016 dal primo posto di anno più caldo mai registrato. Inoltre c’è circa il 40% di probabilità che, in almeno uno dei prossimi cinque anni, la temperatura media annua del pianeta superi transitoriamente la soglia critica di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Tutto questo è molto interessante se non sapessimo che in realtà dietro questi annunci che compaiono nell’informazione ci sono dispute di cui siamo ignari e che ci fanno prendere per certezze delle mere ipotesi: per esempio i modelli climatici che son all’origine della teoria del riscaldamento globale risentono di una formidabile discussione sulla copertura nuvolosa media, sulla pioggia e sulla sua durata, sulla temperatura stessa delle nuvole perché questo è un dato decisivo per calcolare l’effettivo apporto di energia solare. Oltre ovviamente a quello dei cicli solari. Anche in questo campo nulla della discussione arriva alla gente e viene solo fornita dai media come verità assoluta l’ipotesi prevalente che tra l’altro diventa tale proprio a causa della stessa visibilità cui è sottoposta.

Come scrive Ulrich Kutschera – il più noto climatologo tedesco, uno di quelli che anni fa aveva consigliato la Merkel di rafforzare l’organizzazione per fare fronte a situazioni climatiche fuor dall’ordinario, sta studiando a Stanford l’effetto dell’anidride carbonica sulla crescita di piante primarie e lo scambio di Co2 nella vegetazione utilizzando analizzatori di gas a infrarossi – gli scienziati del clima sanno che la correlazione “livello di anidride carbonica nell’aria / temperatura media della terra” non è strettamente verificabile e ancor meno lo è l’apporto antropico a tale riscaldamento. Certo misure di protezione ambientale sono necessarie, ma per ragioni del tutto divergenti da quelle che vengono fornite al pubblico: di fatto possiamo e dobbiamo mettere a punto una strategia di lungo periodo, ma non esiste alcuna emergenza climatica e nessuno automatismo: basti pensare che che tra il 1955 e il 1970 circa la Co2 è aumentata, ma la temperatura è diventata sempre più fredda. Poi a partire dal 2002 l’anidride carbonica è aumentata in modo massiccio ma la temperatura della terra è rimasta costante per un decennio. E si potrebbero fare altri mille esempi di mancanza di correlazione per cui sarà necessario indagare su altre cause, magari inaspettate.

Tuttavia c’è qualcosa di ancora più basico e quando parliamo di temperature sappiamo in che modo vengono prese e registrate, cioè quanto siano credibili? Da meteorologo dilettante so che la questione della misurazione della temperature non è per nulla banale e che i criteri con cui è trattata questa misurazione sono cambiati nel tempo e non sempre sono seguiti con rigore, tuttavia non mi ero mai chiesto quale fosse il livello di esattezza delle temperature ufficiali prese a terra. E qui cominciano i guai perché tutto ciò che ci appare scontato deve essere rimesso in gioco. Innanzitutto va detto che la stragrande maggioranza dei dati sulla temperatura a lungo termine di alta qualità proviene dagli Stati Uniti, e in effetti gran parte del pianeta ha pochi o nessun dato sulla temperatura a lungo termine: sul piano storico anche l’Europa attraversata da due guerre mondiali nel secolo scorso non ha dati sufficientemente curati tanto che ancora nel 1900 nessuna stazione nel continente aveva serie di minime e massime mentre ancor oggi moltissime aree del globo sono fortemente carenti ed è dubbio che gli andamenti della temperatura globale abbiano una consistente validità . Gli Stati Uniti sono uno dei pochissimi posti con dati affidabili sulla temperatura e hanno un peso sulla determinazione delle medie assai superiore a quello derivante dal loro territorio o dalla gestione di stazioni meteo in molta parte del mondo.

Inoltre c’è da dire che a partire dalla metà degli anni ’70 è aumentata in maniera esponenziale – dal 5 al 49 per cento – la percentuale di stazioni che per vari motivi non forniscono sempre i dati. Ma le misurazioni mancanti non vengono semplicemente omesse bensì vengono “stimate” e questo anche per il passato., una pratica che ha finito col dilagare. E’ una premessa essenziale per comprendere il grafico qui sotto fornito dal Noaa, National Oceanic and Atmospheric Administration:






La linea blu rappresenta solo le temperature massime effettivamente rilevate dal 1895 al 2018 sul territorio americano, mentre quella rossa integra le temperature reali con quelle stimate e si vede benissimo che la linea rossa rappresenta un aumento di temperatura molto più netto rispetto alla linea blu: 3 gradi Fahrenheit contro 1 il che cambia completamente l’interpretazione del clima. Ora i climatologi più legati all’ipotesi del riscaldamento globale dicono che questo effetto è dovuto al cambiamento della composizione delle stazioni che essi chiamano con termini esoterici (ma cosa mai sarebbe una disciplina senza un suo linguaggio iniziatico?) Time of Observation Bias, ma questo non corrisponde alla realtà: ogni mese, quasi la metà delle stazioni non fornisce dati e questi vengono sostituiti con stime, ovvero con “falsi” contrassegnati con una E (stimata in inglese ). La metà dei dati è così inevitabilmente “filtrata” da convinzioni che dovrebbero essere costruite sui dati, ma che in effetti contribuiscono a creare i dati stessi. E questo poi si riflette su scala planetaria, visto che le medesime operazioni vengono fatte quantomeno in tutta l’area occidentale. E si tratta di una bella alterazione, Nel grafico qui sotto la linea rossa rappresenta la differenza tra dati effettivamente rilevati e i dati stimati a partire dal 1976: si vede come questa differenza sia aumentata in modo sempre più deciso, ma mano che la percentuale delle stime andava aumentando.




Insomma siamo di fronte a un ennesimo esempio di scienza gestita, magari inizialmente per sacrosanti scopi, per esempio quello di contraddire la teoria della crescita infinita, ovvero la favola del neo liberismo, ma che poi viene fatalmente sfruttata dal potere per i suoi scopi, come ad esempio per imporre una transizione ecologica che riguarda esclusivamente la Co2 e lo sfruttamento mediatico di ipotesi in forma di mitologia.

lunedì 24 maggio 2021

SIERRA LEONE: IL PROGETTO CINESE CHE DISTRUGGERA' LA FORESTA PLUVIALE

LA SIERRA LEONE HA CONCLUSO UN PATTO DIABOLICO SVENDENDO UN PATRIMONIO NATURALISTICO ALLA SPECULAZIONE CINESE. GLI INTERESSI POLITICI SONO NEMICI DELL'UOMO E DELL'ECOSISTEMA....


Salviamo la spiaggia di Black Johnson!


Il progetto «distruggerà la foresta pluviale vergine, saccheggerà gli stock di pesci, inquinerà l’ambiente marino e 5 singoli ecosistemi che sono terreno fertile per i pesci e sostengono le specie in via di estinzione di uccelli e fauna selvatica». 

La Sierra Leone ha accettato di vendere 250 acri di spiaggia incontaminata e foresta pluviale di Black Johnson alla Cina, un accordo che vale 55 milioni di dollari e che prevede la costruzione di un porto per la pesca. Una decisione che ha suscitato l’indignazione degli ambientalisti, dei gruppi di difesa dei diritti e dei proprietari terrieri locali, secondo i quali il progetto «distruggerà la foresta pluviale vergine, saccheggerà gli stock di pesci, inquinerà l’ambiente marino e 5 singoli ecosistemi che sono terreno fertile per i pesci e sostengono le specie in via di estinzione di uccelli e fauna selvatica».

I dettagli dell’accordo, riportati per la prima volta il 17 maggio da The Guardian, restano e organizzazioni come l’Institute for legal research an advocacy for justice (ILRAJ) e Namati Sierra Leone hanno scritto al governo per chiedere informazioni sui «piani per la creazione di un porto da pesca. E sulla gestione dei rifiuti a Black Johnson, nella penisola della Western Area, un progetto finanziato dal governo cinese». Le ONG sierraleonesi chiedono copie delle valutazioni dell’impatto ambientale e sociale obbligatorie per legge, nonché dell’accordo di sovvenzione tra la Cina e il governo della Sierra Leone.

Le acque di Black Johnson sono ricche di pesce e i pescatori locali forniscono una quota sostanziale del mercato ittico interno della Sierra Leone. Nel National Park Western Area vivono molte specie in via di estinzione.

Start Performing Community Organisation (SPCO) ha lanciato la petizione “Save Black Johnson Beach from Toxic Industrial Fish Factory”, indirizzata al presidente della Repubblica Julius Maada Bio, nella quale denuncia: «Il governo della Sierra Leone ha venduto 250 acri di foresta pluviale protetta e terreni balneari a costruttori cinesi. L’impiego proposto è per la “produzione di farina di pesce”. Ciò significa che grandi quantità di pesce vengono macinate per produrre pellet di farina di pesce per l’esportazione. La produzione industriale di farina di pesce è estremamente dannosa per l’ambiente. Le fabbriche di farina di pesce scaricano sostanze chimiche tossiche. Distruggono i terreni di riproduzione dei pesci. Decimano gli stock ittici per i pescatori locali. Inquinano sia la terra che l’oceano, uccidendo pesci, animali e piante. Eliminano la principale fonte di cibo locale. Questo non può andare avanti. Provocherebbe un disastro umano internazionale ecologico e nazionale».

SPCO è molto preoccupata per l’impatto ambientale: «Questo progetto distruggerebbe la foresta pluviale incontaminata, saccheggerebbe gli stock ittici, inquinerebbe l’ambiente marino e 5 singoli ecosistemi che sono zone di riproduzione dei pesci e sostengono specie di uccelli e animali selvatici in via di estinzione. Parte del territorio assegnato è una laguna nella stagione secca che si apre come un fiume nella stagione delle piogge. La laguna è un importante terreno fertile per molte specie di pesci. La laguna è la nursery. I giovani pesci quindi si spostano nell’oceano quando si apre in un fiume quando arrivano le piogge. Scorre nella Whale Bay. E’ un posto molto speciale con 5 singoli ecosistemi in una piccola area. Inquinare Whale Bay decimerebbe migliaia di specie terrestri e marine tra cui pesci, tartarughe, delfini, molte specie di uccelli e, come suggerisce il nome, balene. È un’area in cui i pangolini, una specie in via di estinzione, si riproducono ed esistono ancora».

Ma, secondo l’ONG ambientalista, il progetto cinese «metterà a repentaglio la sicurezza alimentare dell’intera nazione, dove l’80% delle proteine ​​del paese proviene dal pesce e la pesca artigianale è il cardine della maggior parte delle famiglie costiere. I residenti sarebbero stati costretti a lasciare le loro case. Pescatori e commercianti non sarebbero in grado di guadagnarsi da vivere. Le attività turistiche sarebbero costrette a chiudere dall’oggi al domani, causando disoccupazione e gravi difficoltà. La sicurezza alimentare nel Paese verrebbe distrutta e la gente non avrebbe abbastanza da mangiare»

SPCO denuncia che «Secondo le informazioni di prima mano, il denaro è già stato pagato. E’ stato concluso un accordo segreto (confermato il 6 maggio 2021).Abbiamo inviato lettere aperte al Presidente e alla First Lady chiedendo loro di usare il loro potere per revocare questa decisione con effetto immediato. Chiediamo anche una revisione giudiziaria e un’indagine indipendente su questo accordo con i cinesi.Trasformare il pesce in farina di pesce da esportare per nutrire i maiali non è nell’interesse pubblico. L’accordo è corrotto e deve essere condannato dalla comunità internazionale. Questo deve essere fermato. E’ lo sfruttamento del tipo più brutale. L’ambiente sarà irrimediabilmente danneggiato e le persone ne soffriranno».

Gli ambientalisti sierraleonesi ricordano che «Non è una questione locale, è un problema internazionale, lo sfruttamento degli stock ittici in Africa occidentale colpisce l’intero pianeta distruggendo risorse vitali e zone di riproduzione. Siamo tutti i consumatori finali di questo commercio tossico e spietato. Ovunque tu sia nel mondo, ora è il momento di agire».

La ministro della pesca e delle risorse marine, Emma Kowa-Jalloh ha cercato di respingere le critiche con un comunicato che invece ha acuito le preoccupazioni: «Il Ministero della pesca e delle risorse marine ha letto i rapporti sui social media su un fabbrica di farina di pesce che sarà situata presso la comunità di Black Johnson. I rapporti infondati presumono persino l’accaparramento da parte del governo di terreni di veri proprietari di terreni per realizzare tale struttura. L’MFMR desidera che il grande pubblico sappia che la struttura da costruire è un Fish Harbour e non un Fish Mill, come interpretato da chi scrive sui social media. L’obiettivo del Fish Harbour è centralizzare tutte le attività di pesca. Il governo della Sierra Leone desiderava un porto ittico sin dai primi anni ’70, ma non è riuscito a realizzarlo a causa dell’enorme quantità di denaro richiesta. Con il nuovo cambiamento nella politica del governo per lo sviluppo del settore della pesca, il governo cinese ha concesso una sovvenzione di 55 milioni di dollari per costruire questa piattaforma. Il porto pescherecchio fornirà la struttura per l’ancoraggio di tonniere e altri pescherecci più grandi. Aumenterà anche lo stock di pesce nel Paese aumentando contemporaneamente la nostra capacità di esportazione verso i mercati internazionali. L’impianto comprenderà una componente per la gestione dei rifiuti che comporterà il riciclaggio dei rifiuti marini e di altro tipo in prodotti utili. La rilevanza strategica del Fish Harbour non include solo la generazione di entrate e la creazione di posti di lavoro, ma rafforzerà anche la capacità dei cittadini della Sierra Leone nella riparazione e manutenzione delle navi. Per ragioni tecniche, Black Johnson era il luogo più adatto per la costruzione della struttura in termini di batimetria, salvaguardie sociali (costo minimo di reinsediamento) e questioni ambientali. Dopo che il ministero delle terre aveva assicurato lo spazio di 252 acri per Fish Harbour, il ministero delle Finanze aveva messo da parte un pacchetto di risarcimenti di 13,76 miliardi di leoni sierraleonesi per i proprietari terrieri colpiti. Il risarcimento ai proprietari terrieri, tuttavia, dovrebbe essere rigorosamente concesso mediante la produzione di documenti autentici per la proprietà del terreno all’interno dello spazio acquisito. Questo governo è orientato alle persone e non farà nulla di ostile agli interessi delle persone. Il ministero della pesca è stato proattivo per soddisfare la domanda di pesce del mercato. Dal 2018, il governo ha aumentato gli sbarchi di pesce locale al 40% dal precedente 30%. Questo ha lo scopo di garantire l’approvvigionamento regolare di pesce, che è la principale fonte di proteine, al mercato locale. Diverse altre misure sono state istituite per risanare l’industria e migliorare le condizioni di vita della nostra gente».

Greenpeace Africa ha risposto alla Kowa-Jalloh condannando l’accordo con i cinesi e sottolineando che «Le comunità di pescatori dell’Africa occidentale stanno già subendo gli effetti del degrado ambientale e della crisi climatica. Consentire più attività estrattive in questa regione non farà che peggiorare la situazione».

Katharine Adeney dell’Asian Research Institute dell’università di Nottingham ha fatto notare alcune apparenti somiglianze tra quel che si conosce dell’accordo Cina – Sierra Leone e il corridoio economico Cina-Pakistan: «La maggior parte dei progetti CPEC in Pakistan sono stati finanziati da prestiti. Tuttavia, lo sviluppo del porto di Gwadar, dell’aeroporto internazionale di Gwadar e di molti progetti “cuore e anima” nella regione dovrebbero essere finanziati da sovvenzioni cinesi. Questo riflette l’importanza del successo del progetto per l’interesse strategico della Cina (l’unico altro progetto finanziato da una sovvenzione è stato lo sviluppo del cavo in fibra ottica dalla Cina al Pakistan, essenziale per lo sviluppo del sistema satellitare Beidou)». Lo stesso meccanismo potrebbe b valere per la Sierra Leone, «Sebbene la Sierra Leone non si trovi nella “cintura” marittima della China Belt and Road Initiative (BRI), la strategia di sviluppo delle infrastrutture globali adottata da Pechino nel 2013».

Anche il progetto di Gwadar in Pakistan ha dovuto fare i conti con la dura opposizione dei pescatori locali sfollati dal governo e le promesse di lavoro per i locali sono state vanificate dall’afflusso di lavoratori provenienti da altre parti in Pakistan o all’estero».

La Adeney ricorda che «Lo sviluppo di Gwadar include sulla carta molti “progetti del cuore e della mente” (ad esempio lo sviluppo di un centro di formazione, l’ampliamento di un ospedale), ma pochissimi di essi sono giunti a buon fine. L’intera area è stata fortemente blindata».

In Sierra Leone, gli attivisti locali denunciano la mancanza di trasparenza da parte del governo e Robert Besseling, di Pangea-Risk, ha detto alla CNBC che «L’opacità dell’accordo potrebbe finire per farlo deragliare, o almeno provocare ulteriore resistenza. Prima di tutto, c’è una mancanza di trasparenza sul capitale fondiario del governo della Sierra Leone e sulla convenzione di sovvenzione in contanti cinese, il che solleva preoccupazioni sulla potenziale corruzione e potrebbe farla sottoporre a un’inchiesta parlamentare. Secondo, qualsiasi spostamento forzato di residenti nei dintorni del sito del progetto potrebbe essere ritenuto incostituzionale sulla base delle attuali disposizioni sui diritti di proprietà».

l’8 aprile 2019 dei pescatori cinesi sono stati visti nel porto di Murray Town, un sobborgo della capitale Freetown, protetti da una motovedetta di alto mare del Joint Maritime Committee (JMC) donata dalla Banca Mondiale. Besseling ha fatto notare che l’accordo sulla pesca rappresenta un cambiamento di rotta rispetto alla precedente riluttanza del governo della Sierra Leone a trattare con i cinesi. Poco dopo il suo insediamento nell’aprile 2018, il presidente Julius Maada Bio aveva annullato diversi grossi contratti con la Cina, compreso un prestito da 400 milioni di dollari per costruire un aeroporto perché non c’erano motivi economici per realizzare uno scalo aereo fuori dalla capitale Freetown, invece, promise di rinnovare l’aeroporto esistente della capitale. Secondo Besseling, «La mancanza di opportunità di finanziamento durante la pandemia potrebbe indicare che la Sierra Leone sta tornando sempre più nella sfera di influenza cinese e che ora sta cercando più prestiti cinesi per progetti di sviluppo e infrastrutture».

Sama Banya, fondatore e presidente della Conservation Society of Sierra Leone (CSSL), ha scritto sul Sierra Leone Telegraph: «Devo ricordare a tutti coloro che appoggiano una simile proposta il disastroso impatto ambientale sul nostro Paese? Soprattutto il turismo e la stessa industria ittica che dovrebbe sostenere. Perché non è stato fatto alcun commento sugli studi di fattibilità, in particolare sul suo impatto sul nostro ambiente?» E, dopo aver invitato (invano) il ministro dell’ambiente a prendere posizione, Banya conclude: «Le nostre spiagge sono tra le più attraenti della costa occidentale dell’Africa. Le foreste circostanti sono una delizia attraente per gli appassionati di ecoturismo». E tutto questo verrebbe cancellato dal porto cinese.




giovedì 8 ottobre 2020

In mare ci sono più mascherine che meduse. L’allarme dell’ISPRA


Dove finiranno le mascherine e i guanti una volta usati?


ALLA FINANZA "GREEN" CHE COSA IMPORTA? IN FONDO A BLACKROCK E ALTRI COLOSSI INTERESSA SOLO IL BUSINESS DELLE MASCHERINE NON DOVE FINISCONO....

L’IPSRA lancia un tragico allarme: in mare ci sono più mascherine che meduse e la situazione è destinata a peggiorare, soprattutto a causa della scuola.

I fondali marini hanno un nuovo inquilino e purtroppo non è una buona notizia. L’ISPRA, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, lancia l’allarme spiegando che a breve i nostri mari potrebbero avere più mascherine che meduse.
I dispositivi anti Covid-19 usa e getta porteranno maggiore problemi ora che la scuola ha riaperto le sue porte, dal momento che agli studenti sarà fornita ogni giorno una nuova mascherina monouso. Il Governo ha difatti annunciato la fornitura di 11 milioni di presidi monouso ogni giorno.

In questo modo l’Italia aumenterà notevolmente la produzione di immondizia, aggiungendo molti quintali di rifiuti difficili da smaltire e soprattutto non riciclabili. Da mesi ormai mascherine di ogni tipologia si trovano gettate in strada, nei parchi, nelle aree verdi della città e a breve le troveremo molto spesso in mare.
L’ISPRA non è il solo istituto a lanciare l’allarme, dal momento che anche l’associazione francese Opération Mer Propre ha descritto lo stesso fenomeno affermando che il mare si sta riempiendo di mascherine, che diventano più numerose delle meduse.

Gli studi dell’ISPRA: le mascherine popoleranno i nostri mari

Sin da inizio pandemia mascherine monouso e guanti di plastica hanno destato preoccupazioni tra gli ambientalisti, dato l’enorme utilizzo. Purtroppo i timori si sono ben presto trasformati in una reale situazione fuori controllo, che porta i mari e la natura ad essere sempre più inquinati.
L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha reso note le sue stime a inizio maggio e non sono per nulla incoraggianti: per il 2020 la produzione complessiva di rifiuti, tra guanti e mascherine, sarà tra i 160mila e le 440mila tonnellate.

Il dato medio ci dice che saranno prodotte 300mila tonnellate di spazzatura solo con questi dispositivi di protezione dal Covid. Ma se fino all’inizio delle scuole si poteva pensare ad una gestione idonea di questi rifiuti con la ripresa delle lezioni in sede si avrà un incremento della produzione. Si aggiungono infatti 11 milioni di dispositivi ogni giorno e diventa così molto complessa anche la gestione dello smaltimento.
Le mascherine, dopo esser state usate, devono infatti essere gettate nella raccolta indifferenziata, dal momento che in questo modo saranno poi smaltite mediante inceneritore. Un modo in sostanza per eliminare ogni tipo di possibile virus, batterio e rischio di contagio attraverso il fuoco.

In Italia però gli inceneritori, soprattutto al Sud, non riusciranno a smaltire l’enorme mole di rifiuti e il rischio è che mascherine e guanti rimarranno in discarica o, peggio ancora, dispersi nell’ambiente e soprattutto nel mare. La paura è che a breve in mare troveremo più mascherine che meduse, rifiuti che finiranno in acqua a causa di una cattiva gestione dello smaltimento e a causa dell’inciviltà dei cittadini.
Del resto dobbiamo pensare che, se anche solo l’1% delle mascherine usate finisse smaltita in modo errato, avremmo ogni mese 10 milioni di mascherine sparse nella natura e nelle nostre acque. Un vero e proprio disastro ambientale a cui ad oggi nessuno sembra essere particolarmente interessato.

Disastro ambientale in Kamchatka, moria di animali e surfisti con febbre: cosa sta accadendo

IL PIANETA VUOLE LIBERARSI DEI SUOI INQUINATORI?....

In Russia è stato registrato un nuovo disastro ambientale: in Kamchatka diversi surfisti hanno riportato diversi problemi di salute e sulle spiagge sono stati rinvenuti molti animali marini morti. Ecco cosa sta accadendo.



Un nuovo disastro ambientale colpisce la Russia, dopo quello dello scorso maggio, che colpì la Siberia. Adesso è la volta della penisola di Kamchatka, ed in modo particolare le coste della spiaggia Khalaktyrskij. Da diversi giorni i surfisti della zona hanno lanciato l'allarme riportando una massiccia moria di animali marini, oltre che dei danni alla propria salute.

Attualmente non si conoscono ancora con certezza le cause che hanno portato a questo disastro e sono al vaglio diverse ipotesi. Si presume tuttavia che siano state riversate in acqua delle sostanze tossiche o dei veleni che hanno causato la moria di animali marini e hanno causato diversi problemi di salute ai bagnanti.

Disastro ambientale in Kamchatka: cosa sta accadendo

Negli scorsi giorni diversi surfisti hanno lanciato l'allarme, dopo che, da circa un mese hanno iniziato a sperimentare diversi problemi di salute, tra cui ustioni oculari, tosse secca, febbre e nausea. Nel mentre sui social network sono cominciate a diventare virali diverse immagini e video che immortalavano una moria di animali marini, come pesci, polipi e molluschi, portati a riva dalle maree.

Dopo la diffusione di queste informazioni Greenpeace Russia si è immediatamente recata sul luogo e ha gridato alla catastrofe naturale. Il governatore della regione Vladimir Solodov ha avviato subito le indagini incaricando il Centro idrometeorologico e il ministero per l'Ambiente di condurre una serie di esami sui campioni di acqua.

Dalle analisi è emerso che nel mare era presente una concentrazione di petrolio superiore alla norma, così come quella di fenoli, per questo motivo il ministro dell'Ambiente ha presupposto che la causa dell'inquinamento potesse essere lo sversamento di questi liquidi da parte di alcune navi di passaggio. Questa teoria non ha però convinto Dmitry Lisitsin, il capo della guardia ecologica di Sachalin che nel corso di un'intervista per Il Fatto Quotidiano ha affermato:

“Non c'è nulla che punti all'inquinamento da petrolio come causa di questi eventi. Il petrolio è più leggero dell'acqua e forma una pellicola sulla sua superficie, ha un odore caratteristico e causa la morte soprattutto di uccelli e non dei pesci o organismi del fondale, come in questo caso”, precisando che potrebbe trattarsi di “un veleno molto forte che uccide organismi viventi”.

L'intervento di Mosca

La vicenda ha nuovamente scatenato l'ira di Mosca, proprio come accaduto nel caso della Siberia, per la cattiva gestione delle autorità locali. Per questo motivo la vice presidente della Duma Irina Yarovaya ha deciso di occuparsi di persona della vicenda, facendo analizzare quasi 150 chili di materiale dai laboratori della Capitale.

Dalle analisi del governo è emerso che con molta probabilità il materiale finito in mare non ha origine industriale, ma si presume che sia di origine naturale, come le alghe, ha precisato il ministro. Nel mentre anche Greenpeace ha continuato le sue indagini esaminato le acqua inquinate lo scorso 4 ottobre, trovando delle “macchie di origine ignota”.

mercoledì 19 agosto 2020

POCHI IMPIANTI E SPESE ELEVATE: QUANTO CI COSTANO I RIFIUTI SANITARI



Dai farmaci scaduti ai drenaggi, dai contenitori sterili ai materiali taglienti monouso come aghi, siringhe e bisturi, dai gessi alle piccole parti anatomiche. È lungo l’elenco delle tipologie di rifiuto che ricadono sotto il grande ombrello della categoria 18, quella degli scarti prodotti dal settore sanitario e veterinario o da attività di ricerca collegate. E sebbene l’intera categoria rappresenti poco più del 2% dei rifiuti speciali complessivamente generati dalle attività produttive dello Stivale, la sua gestione ha ricadute importanti sull’intera collettività. Sul piano economico, visto che la spesa per il trattamento ricade in buona parte sui costi del sistema sanitario nazionale, ma anche su quello ambientale. Due fronti delicatissimi, sui quali però non mancano ritardi e criticità.

Stando all’ultimo rapporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, sono 178.643 le tonnellate prodotte nel 2016 in Italia. Del totale dei rifiuti prodotti, circa il 90% (pari nel 2016 a 159.721 tonnellate) è classificato come pericoloso e dev’essere quindi gestito in sicurezza, senza arrecare danno alla salute umana o agli ecosistemi.

La gestione è tuttora disciplinata dal DPR 254 del 15 luglio 2003, che ripartisce i rifiuti sanitari in non pericolosi e pericolosi, distinguendo poi questi ultimi a seconda della presenza o meno di rischio infettivo. È stato calcolato che pur costituendo in realtà tra il 15 e il 25% di tutti gli scarti prodotti da un’azienda ospedaliera, quelli a rischio infettivo rappresentino l’80% circa del costo complessivo di gestione. Questo soprattutto perché i rifiuti contaminati non possono essere smaltiti ovunque, ma possono solo essere inceneriti in pochi impianti ad hoc sul territorio nazionale.

Lo stesso DPR però prevede che gli scarti a rischio infettivo possano essere sottoposti a “sterilizzazione”, ovvero un trattamento che, tramite triturazione ed essiccamento, consenta un abbattimento della carica microbica dei rifiuti oltre alla riduzione di peso e volume. Il che significa ridurre le quantità da movimentare e, soprattutto, disporre di più siti per lo smaltimento visto che i residui della sterilizzazione possono essere conferiti sia in impianti di incenerimento e discariche per rifiuti urbani, sia in impianti per la produzione di combustibile CSS.

Insomma, un notevole vantaggio logistico per le aziende ospedaliere, che potrebbero giovare anche dei risparmi determinati dalla riduzione dei costi di trasporto. “Mentre classicamente i rifiuti sanitari pericolosi vengono raccolti come tali ogni giorno o al massimo ogni 5 giorni e avviati prevalentemente a incenerimento, con la sterilizzazione on-site è possibile stoccare il materiale inertizzato fino a 3 mesi, riducendo trasporti, costi e impatti ambientali e migliorando pesature e conteggi”, spiega l’On. Alberto Zolezzi, membro della commissione ambiente della Camera e primo firmatario di una proposta di legge, presentata nell’ottobre 2017, per favorire una gestione più sostenibile dei rifiuti ospedalieri promuovendo, tra l’altro, proprio l’installazione di impianti di sterilizzazione all’interno delle singole strutture sanitarie.

“In Puglia – spiega Zolezzi – è stato calcolato che l’introduzione della sterilizzazione on-site dei rifiuti sanitari pericolosi a rischio infettivo permette una sensibile riduzione dei costi di smaltimento dagli attuali 5 milioni 700mila euro all’anno a circa 1 milione 360mila, con un risparmio medio di circa il 75%. La prospettiva nazionale – aggiunge – potrebbe portare a un risparmio di circa 200 milioni di euro”. Il che significherebbe tagliare di quasi due terzi la spesa complessiva sostenuta ogni anno per gestire tutti i rifiuti prodotti, calcolata in circa 300 milioni. Un risparmio niente male, soprattutto per le già dissanguate casse della sanità pubblica.

Senza dimenticare che sotto l’ombrello dei rifiuti sanitari finiscono ogni giorno anche imballaggi, contenitori, scarti alimentari, rifiuti metallici e numerose altre tipologie di scarti né pericolosi né infettivi, che se raccolti in maniera separata possono essere avviate a riciclo. Con un vantaggio che è ambientale ma anche e soprattutto economico, dal momento che differenziarli significa evitare che possano finire tra i rifiuti pericolosi, il cui costo di smaltimento è decisamente più elevato: in media anche più di 1,30 euro al kg, rispetto agli 0,30 per i rifiuti urbani.

Ad ogni modo, in assenza di un impianto di sterilizzazione “di prossimità”, i rifiuti sanitari vanno raccolti presso l’azienda ospedaliera che li ha prodotti e conferiti altrove, presso centri di trattamento o di smaltimento. Gli impianti però sono pochi (vale sia per quelli di sterilizzazione che per quelli di incenerimento autorizzati a smaltire rifiuti sanitari), cosa che costringe gli scarti ospedalieri a compiere viaggi lunghi anche centinaia di chilometri, costosi e inquinanti. Stando ad un dossier realizzato sulla base dei dati raccolti presso le Camere di Commercio proprio dall’On. Zolezzi, la Campania produrrebbe ad esempio oltre 12mila tonnellate di rifiuti sanitari, esportandone quasi 9mila. Nelle Regioni dotate di impianti invece il flusso si inverte. L’Emilia Romagna, ad esempio, importerebbe più del doppio degli scarti sanitari prodotti sul suo territorio, 33mila tonnellate contro poco più di 15mila, mentre la Calabria, che ne genera 3.400 tonnellate, ne importa invece oltre 11mila. E i costi del trasporto gravano sul Servizio sanitario nazionale, quindi sulle tasche dei contribuenti.

E non è finita qui, perché i problemi non si limitano al “dove” trasportare gli scarti infettivi, ma si estendono anche al “come” e, nello specifico, investono il tipo di imballaggio da utilizzare. Tema sul quale negli ultimi anni si è scatenato un acceso dibattito. Fino ai primi anni 2000, infatti, per trasportare i rifiuti sanitari pericolosi dalle aziende ospedaliere verso gli impianti di smaltimento, le ditte appaltatrici del servizio di raccolta utilizzavano quasi esclusivamente contenitori monouso in cartone o polipropilene alveolare, che una volta giunti a destinazione venivano inceneriti insieme con il loro contenuto. Uno scenario rimasto invariato fino al 2003, quando l’entrata in vigore del DPR ha introdotto per la prima volta la possibilità di utilizzare un imballaggio rigido in polipropilene o polietilene “eventualmente riutilizzabile previa idonea disinfezione ad ogni ciclo d’uso”.

Una “eventualità” che con il passare degli anni ha però finito per somigliare sempre di più ad una autentica prassi. “Ad oggi – scrive la principale azienda di settore in una nota – possiamo orgogliosamente affermare che i nostri contenitori sono utilizzati con piena soddisfazione in gran parte delle strutture ospedaliere italiane. In particolare in tutte le strutture sanitarie pubbliche delle regioni Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Abruzzo ed in gran parte di quelle di altre 13 regioni italiane. Ogni anno produciamo oltre 2 milioni di contenitori e ne trattiamo oltre 10 milioni”.

Ma non manca chi nutre forti dubbi su quanto questa soluzione sia realmente sostenibile. “In Italia negli ultimi 10/15 anni – spiega un operatore di settore, che preferisce restare anonimo – numerose stazioni appaltanti hanno imposto vincoli o parametri molto premianti a favore dei contenitori rigidi riutilizzabili, basandosi però su una serie di forzature. Su tutte la convinzione che il contenitore multiuso sia più sostenibile perchè recuperandolo si smaltiscono meno rifiuti. In realtà – chiarisce l’operatore – si tende ad ignorare il problema delle distanze che devono percorrere gli automezzi per raggiungere gli impianti dotati di sistemi di lavaggio e disinfezione e non si tiene conto dell’impatto ambientale dovuto alla sanificazione dei contenitori in tema di consumo di acqua, costi di depurazione delle acque usate, costi per la produzione ed il recupero della plastica”.

Un successo, quello dei contenitori riutilizzabili, che i produttori di contenitori rigidi riutilizzabili fanno risalire alla maggiore resistenza dei loro imballaggi a urti e agenti atmosferici, ma anche alla loro sostenibilità: riutilizzare significa produrre meno rifiuti, e anche quando alla fine l’imballaggio deteriorato diventa un rifiuto, può entrare nel circuito del riciclo. “La vita massima di ciascun contenitore è fissata in 12 cicli d’uso – prosegue l’azienda – ma raramente un contenitore è così longevo. I contenitori danneggiati sono scartati, avviati ai mulini di triturazione; la plastica recuperata è utilizzata per la produzione di un contenitore nuovo, secondo la filosofia del cradle to cradle per la quale un prodotto non esaurisce la propria vita utile nel momento in cui viene tolto dal ciclo di produzione, ma la materia viene recuperata per la stampa di un nuovo prodotto”.

Insomma, se ricorrere ai contenitori riutilizzabili è un modo per produrre meno rifiuti, non è detto però che sia anche un modo per contenere l’impatto ambientale della gestione degli scarti infettivi. Anche perché al momento su tutto il territorio nazionale gli impianti di trattamento attrezzati con sistemi di lavaggio e disinfezione dei contenitori multiuso sono solo 19 e solo in 11 Regioni (Piemonte e Lazio, ad esempio, ne sono totalmente sprovviste). Ciò significa che se l’azienda sanitaria decide di puntare sui contenitori multiuso, la ditta gestrice del servizio di raccolta e trasporto sarà costretta a portare i suoi rifiuti esclusivamente ad un impianto di trattamento dotato di sistema di sanificazione degli imballaggi, indipendentemente dai chilometri che dovrà coprire per effettuare il conferimento. E dal costo economico e ambientale del viaggio, che in alcuni casi rischia di essere tutt’altro che sostenibile.

giovedì 23 luglio 2020

La Diga delle Tre Gole in Cina è così massiccia che ha rallentato il movimento di rotazione terrestre

la diga delle tre gole

La Diga delle Tre Gole è una gigantesca diga sul Fiume Azzurro, in Cina, deputata alla produzione di un’enorme quantità di energia elettrica (si tratta dell’impianto idroelettrico con maggiore capacità di sempre).
La costruzione della diga è finita nel 2006 ed è costatata moltissimo, sia in termini di impatto ambientale che di qualità della vita umana: molte persone, infatti, sono state costrette ad abbandonare i propri villaggi per far spazio all’enorme bacino.

Ma l’impatto della diga sul mondo non è soltanto locale. La NASA ha infatti calcolato che la diga e il bacino sono così massicci da rallentare e tutti gli effetti la rotazione terrestre.
L’acqua al suo interno pesa 39mila miliardi di kg. Si tratta di uno spostamento di massa così considerevole da influire sul momento di inerzia: l’inerzia di un corpo rotante rispetto alla sua rotazione. In generale, più aumenta la distanza di una massa rispetto al proprio asse di rotazione, più diminuisce la velocità di rotazione.
Secondo lo stesso principio, se siete su una sedia girevole e ruotate su voi stessi, andrete più veloci se tenete le braccia attaccate al corpo.

Secondo la Nasa, la Diga Delle Tre Gole ha allungato le nostre giornate di 0,06 microsecondi. Niente di troppo considerevole, ma rimane un fatto sorprendente.

mercoledì 1 luglio 2020

CRISTOFORETTI: VIRUS È AVVERTIMENTO, CAMBIAMENTO CLIMA PORTA DEVASTAZIONI


La pandemia di Sars-Cov-2, del “coronavirus, è stato un colpo di avvertimento, un colpo sparato in aria, rispetto alle devastazioni che porterà il cambiamento climatico”. A scandirlo è stata l’astronauta italiana dell’Esa Samantha Cristoforetti intervenendo alla maratona “Green deal per l’Italia”, realizzata dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile e Rai e in corso fino a questa sera su RaiPlay. “

Ormai, ha detto Cristoforetti, “è sempre più impossibile sottrarsi alle proprie responsabilità. Il problema è che come esseri umani abbiamo la tendenza a sottovalutare i pericoli. E’ accaduto anche con la pandemia di minimizzare, poi abbiamo reagito quando c’è stata contezza del pericolo”. Ma, ha sottolineato l’astronauta italiana, “il coronavirus è stato un colpo di avvertimento, come dire, un colpo sparato in aria, rispetto alle devastazioni che porterà il cambiamento climatico”.

Samantha Cristoforetti si è per questo detta “felice che la consapevolezza” della crisi climatica “sia sempre più diffusa”. “E’ un grande problema globale, c’è grande consapevolezza nei giovani ma anche dal recente World Economic Forum sono stati stilati 5-6 rischi globali legati al cambiamento climatico” e tra questi il rischio della “crisi del’acqua” ha aggiunto l’astronauta, pilota di aerei e ingegnere che, nella sua missione 2014-2015 ha conquistato il record europeo e il record femminile di permanenza nello spazio in un singolo volo, con 199 giorni sulla Stazione Spaziale Internazionale.


Magari un giorno qualcuno mi spiegherà, dati alla mano, che correlazione ci possa essere tra il coronavirus e i cambiementi climatici.
L’unica connessione che riesco a ravvisare, è quella dei soggetti che si agitano dietro le quinte per diffondere ansia e timori nella popolazione; uno su tutti il World Economic Forum, citato dalla stessa Cristoforetti.

“Il 18 ottobre, la Gates Foundation insieme al World Economic Forum e in collaborazione con la Johns Hopkins School of Public Health organizzano una simulazione di una pandemia da coronavirus, intitolata Event 201.
Quella simulazione ha visto la partecipazione di persone provenienti principalmente da istituzioni finanziarie private, dirigenti aziendali, fondazioni, Big Pharma, CIA; c’era anche un rappresentante del CDC, ma non c’erano funzionari sanitari per conto dei governi nazionali o l’OMS.
Le organizzazioni coinvolte nella simulazione (che era una simulazione dettagliata che prevedeva cosa sarebbe successo ai mercati finanziari, cosa sarebbe successo ai media, ai media indipendenti e così via) sono state anche coinvolte nella gestione effettiva della pandemia, una volta che è stata messa in atto.
Quindi le persone che stavano simulando [teoricamente] in realtà sono andate in diretta [praticamente] il 30 gennaio 2020, il giorno in cui è stata lanciata [l’emergenza sanitaria globale] [Ufficialmente la pandemia è stata lanciata l’11 marzo].
Il Comitato di emergenza dell’OMS è un comitato composto da specialisti. Quando si sono incontrati il 30, l’incontro ha avuto luogo poco dopo il Forum Economico Mondiale di Davos, che si è tenuto dal 21 al 24 gennaio. E a quell’incontro ci furono importanti discussioni tra i diversi partner tra cui il World Economic Forum, la Bill and Melinda Gates Foundation e varie entità collegate a Big Pharma.
Tali consultazioni al World Economic Forum sono state fondamentali per la decisione presa il 30. È successo circa una settimana dopo.
Si sospetta che le decisioni siano state prese in quei giorni, perché quando si sono incontrati il 30 gennaio a Ginevra non si è praticamente discusso. Il direttore generale dell’OMS, che era stato a Davos pochi giorni prima, ha stabilito che il cosiddetto focolaio costituiva un’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale e che la decisione era stata presa sulla base di 150 casi confermati fuori dalla Cina.
Non sto suggerendo alcun tipo di relazione cospiratoria, ma sto solo dicendo che c’è stata una simulazione e un paio di mesi dopo l’intera cosa va in diretta con gli stessi attori coinvolti nella simulazione che ora sono coinvolti nel salvare il mondo dal coronavirus.
Questa simulazione non è stata svolta da un organo indipendente di scienziati, ricercatori ed economisti. No, non lo era.
È stata condotta da Big Money e Big Pharma.”


L’aspetto che più mi inquieta in tutta la vicenda, è che esiste la concreta possibilità che il virus sia fuoriuscito (più o meno intenzionalmente) da un laboratorio militare.
Gli indizi che portano in questa direzione sono numerosi, e sicuramente sono più rilevanti di quelli che possano legare l’epidemia in corso ai cambiamenti climatici.
La cosa sconcertante è che nonostante queste evidenze, nessuna voce autorevole si è levata per mettere al bando gli studi sul guadagno di funzione degli agenti patogeni. Piuttosto si preferisce cianciare di fantomatiche correlazioni con i cambiamenti climatici.
E’ un teatro dell’assurdo continuo.

Coronavirus, primo focolaio fu negli Usa? Gli intrecci fra Wuhan e Fort Detrick e le indagini delle Iene su una possibile “andata e ritorno” del Covid.

Il Coronavirus è nato in Cina e più precisamente a Wuhan oppure sarebbe stato portato nella metropoli cinese da militari americani: la domanda sull’origine della pandemia di Coronavirus che da mesi imperversa ormai in tutto il mondo resta di grande interesse e anche Le Iene non si sono sottratte a un tema di questo genere. Secondo la nota trasmissione Mediaset, che ha dedicato un servizio di oltre un quarto d’ora alle origini del Coronavirus, le due ipotesi potrebbero essere collegate.

Che sia nato in modo del tutto naturale o che ci sia lo zampino dell’ormai famigerato laboratorio di Wuhan, ufficialmente il Coronavirus è nato in Cina, ma per il portavoce del ministero degli Esteri cinese la colpa potrebbe essere dell’esercito americano, a causa del gran numero di soldati Usa presenti a Wuhan nell’ottobre del 2019 per i Giochi mondiali militari.

Il laboratorio di Wuhan è classificato al massimo livello (4) di sicurezza biologica, come quello di Fort Detrick nel Maryland che ospita il Niaid, l’agenzia federale per le ricerche sulle malattie infettive diretta da Anthony Fauci, e Usamriid, il principale centro militare americano per la ricerca sulle contromisure da adottare in caso di “guerra biologica”. Nel febbraio del 2018 la rivista di virologia del laboratorio di Wuhan pubblica uno studio sul Coronavirus dei pipistrelli nella città cinese di Jinning, dove avrebbero scoperto un nuovo Sars Coronavirus che infetta direttamente l’essere umano senza bisogno di passare attraverso un ospite intermedio.

ORIGINI CORONAVIRUS, LE RICERCHE DEI LABORATORI AMERICANI E DI WUHAN


Il professor Matteo Bassetti, virologo dell’ospedale San Martino di Genova, ha spiegato alle Iene: “I ricercatori cinesi sono andati a valutare 220 persone che vivevano nella zona di Jinning e hanno fatto uno studio sierologico. Hanno trovato sei persone che avevano gli anticorpi per il Sars Coronavirus dei pipistrelli”, che potrebbe essere un progenitore del Sars-Cov-2.

Tra i finanziatori della ricerca vi era pure il Niaid, con più di 3 milioni di dollari erogati tra il 2014 e il 2018. Inoltre fra i membri del comitato scientifico della rivista di Virologia del laboratorio di Wuhan troviamo il professor Sina Bavari, lo scienziato militare a capo del laboratorio di Usamriid. Gli americani logicamente lavorano sulla prevenzione di minacce come “la creazione, il trasferimento o l’uso di agenti patogeni dal potenziale pandemico potenziato”, quindi potrebbero aver studiato gli stessi virus che hanno studiato prima di loro i cinesi.

Bassetti aggiunge: “Il laboratorio per vedere se un antivirale funziona deve avere il virus o devi avere una coltura del virus e testare i nuovi farmaci”. In questo modo ad esempio si è scoperto che il Remdesivir, sviluppato per Ebola, è efficace pure contro il Coronavirus. I virus del pipistrello scoperti a Wuhan con il finanziamento di Niaid potrebbero essere stati tra quelli studiati e potenziati a Fort Detrick da Sina Bavari per testare il Remdesivir.

CORONAVIRUS, LA MALATTIA A FORT BELVOIR E I GIOCHI MILITARI A WUHAN

A luglio 2019 il laboratorio di Usamriid è stato chiuso per un incidente di biocontenimento per “motivi di sicurezza nazionale”, come riferì il New York Times. Proprio a luglio nella zona si segnalarono casi (compresi alcuni morti) di una malattia respiratoria con sintomi “che vanno da una brutta tosse alla polmonite senza indizi chiave su come sia scoppiata la malattia improvvisa”, anche in due case di riposo. Le Iene si chiedono se ci sia correlazione tra la fuga di biocontenimento di Fort Detrick e le epidemie anomale. Vicino alle due case di riposo c’è Fort Belvoir, un ospedale per i militari che assiste anche quelli di Fort Detrick.

Se il contagio fosse passato anche a Fort Belvoir, ecco che è possibile che poi alcuni dei militari di questa struttura, che hanno partecipato ai Giochi militari, potrebbero avere portato il contagio guarda caso proprio a Wuhan, dove durante la manifestazione fu segnalata la diffusione di un “virus influenzale” riportato anche dagli atleti italiani, come l’olimpionico di scherma Matteo Tagliariol, che ricorda la scarsità di farmaci disponibili proprio perché moltissimi ne ebbero bisogno. Magari anche questo ha contibuito a far diffondere ovunque il Sars-Coronavirus del pipistrello di Jinning, remota zona rurale della Cina…


Di seguito il servizio delle Iene.


Di seguito l’incredibile affermazione (successivamente ritrattata) del collega italiano della Cristoforetti in merito al coronavirus

Luca Parmitano: «Nello spazio sapevo del Coronavirus già da novembre». Informato dall’Intelligence americana? Il sospetto


FONTE Giorgio Bianchi pagina fb


giovedì 9 aprile 2020

Lo scioglimento dei ghiacci potrebbe rilasciare virus di 15 mila anni fa

SCIENZIATI CINESI E AMERICANI A CACCIA DI VIRUS SCONOSCIUTI IN ANTARTIDE....


Un team di ricerca composto da scienziati cinesi e statunitensi ha esaminato due campioni di ghiaccio di 15.000 anni fa prelevati dall'Altopiano tibetano, rilevando 33 virus, molti dei quali sono risultati sconosciuti



Scioglimento ghiacci 

Lo scioglimento dei ghiacciai potrebbe rilasciare virus molto vecchi e potenzialmente pericolosi. Un team di ricerca composto da scienziati cinesi e statunitensi ha esaminato due campioni di ghiaccio di 15.000 anni fa prelevati dall'Altopiano tibetano, rilevando 33 virus, molti dei quali sono risultati sconosciuti. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista bioRxiv. Dopo aver scavato per 50 metri nell'Altopiano del Tibet, per indagare su eventuali agenti patogeni giacenti all'interno del ghiacciaio, i ricercatori hanno scoperto 28 nuovi virus dall'azione sconosciuta.

Nello scenario peggiore, secondo la ricerca, i virus potrebbero essere rilasciati nell'atmosfera a seguito del riscaldamento globale e dello scioglimento del ghiaccio. Il progetto, durato 5 anni, ha avuto inizio con la rimozione dello strato superiore del ghiaccio (circa mezzo centimetro), successivamente decontaminato con un lavaggio in etanolo e acqua. Il team ha quindi applicato tecniche genetiche e microbiologiche per registrare il Dna all'interno dei due campioni di ghiaccio.
"Questa è una nuova eccitante area di ricerca per noi", afferma Lonnie Thompson, coautore dell'articolo. "Il ghiaccio ospita diversi microbi, ma i virus associati e il loro impatto sui microbiomi del ghiaccio sono ancora inesplorati", aggiunge. Non essendo stata ancora sottoposta a revisione paritaria, la ricerca non è stata ancora commentata dagli autori, che però evidenziano il grande interesse nello studio di virus estinti sepolti nei ghiacciai, che rappresentano uno dei motivi di preoccupazione per gli scienziati a causa dell'aumentare continuo del tasso di scioglimento.

"Come minimo, tutto questo potrebbe portare alla perdita di archivi microbici e virali, ma nel peggiore dei casi, lo scioglimento del ghiaccio potrebbe rilasciare agenti patogeni nell'ambiente", scrivono i ricercatori.

Scott Rogers, un professore della Bowling Green State University e autore del libro "Scongelare antichi microbi: genomi emergenti in un mondo più caldo", scrive che "questa situazione potrebbe scatenare una piaga incurabile che potrebbe compromettere l'esistenza della vita sul pianeta. I pericoli racchiusi nel ghiaccio sono reali e, con gli aumenti dello scioglimento del ghiaccio in tutto il mondo, aumentano anche i rischi derivanti dal rilascio di microbi patogeni nell'ambiente".

Stando a quanto riportato dall'autore, un microbo a lungo inattivo è stato già rilasciato dal ghiaccio, visto il focolaio di antrace in Serbia del 2016, attribuito al disgelo del permafrost, durante il quale 8 persone sono risultate positive all'antrace, una malattia potenzialmente fatale per gli esseri umani.

Tornano alla luce reperti, funghi e batteri

Gli effetti più evidenti si stanno osservando in Groenlandia, nell’Artico e in Antartide, ma anche sulle Alpi e Italia la situazione è preoccupante, con il ghiacciaio più grande delle Dolomiti, quello della Marmolada, destinato a sparire completamente in meno di una generazione (circa 25 anni, dati CNR).

Gli antichi ghiacci hanno registrato e conservato per secoli ogni più piccola variazione climatica, come sappiamo dalle analisi delle loro “carote” estratte dai ricercatori. Ma in essi sono anche rimasti intrappolati reperti e residui di ogni genere che ora, con il loro rapido scioglimento, stanno tornando alla luce e, in alcuni casi, anche alla vita.

Ecco dunque emergere resti di corpi animali ed umani antichi anche di migliaia di anni (come il famoso Ötzi o mummia di Similaun, del 3300 a.C.), reperti archeologici, piante, funghi, virus e “batteri zombie” (ovvero microrganismi che potrebbero riattivarsi, alcuni potenzialmente dannosi), nonché tanto carbonio.

Resuscitato in Siberia un virus preistorico gigante: quanti altri ce ne sono nel permafrost che si scioglie per il riscaldamento globale? Che cos'altro dobbiamo temere dai cambiamenti climatici?

Nel permafrost della Siberia è stato trovato un virus gigante. 

Se ne stava addormentato da 30.000 anni nel permafrost della Siberia, quando un gruppo di ricercatori francesi l’ha riportato in “vita” e si è ripreso come se nulla fosse. È il Mollivirus sibericum, il secondo virus preistorico trovato dal gruppo di ricercatori (qui la pubblicazione su Pnas). Prima della completa riattivazione gli scienziati hanno verificato con accuratezza che non potesse costituire alcun pericolo per uomini e animali del nostro tempo. Il ritorno in vita è stato possibile iniettandolo in un’ameba unicellulare, operazione condotta in un laboratorio scientifico controllato.

Il Mollivirus sibericum al microscopio elettronico. | PNAS

GIGANTESCO. Una particolarità di questo virus è il fatto che è di notevoli dimensioni, mezzo micron, ossia mezzo millesimo di millimetro. Stando ai ricercatori, il virus resuscitato - che non preoccupa - è comunque un monito da tenere in seria considerazione.

Perché le zone artiche, che si stanno riscaldando a una media che è circa due volte superiore a quella del resto del pianeta, porteranno allo scioglimento di molte aree di permafrost, il terreno permanentemente ghiacciato attorno al Polo Nord. «Non è da escludere che alcuni virus mortali per gli esseri viventi dei nostri giorni potrebbero, nel caso vi fossero ospiti vulnerabili, infettare vari ecosistemi con conseguenze tutte da immaginare», ha commentato Jean-Michel Claverie, responsabile della ricerca.

Giganti dal passato: i pithovirus

Ma c’è di più. Le aree in cui potrebbero esserci altri virus ibernati sono oggetto di ricerche minerarie e petrolifere, che potrebbero anch’esse portare alla luce i microorganismi e diffonderli. «Se non si procede con cautela, le conseguenze potrebbero essere drammatiche», ha sottolineato Cleverie.


giovedì 20 febbraio 2020

Oltre lo smog, quei disastri ambientali dimenticati

Oltre lo smog, quei disastri ambientali dimenticati


LO SMANTELLAMENTO DELLE CENTRALI NUCLEARI IN ITALIA E' ANCORA IN ATTO ALMENO FINO AL 2025-26, MA IL DANNO BIOLOGICO DELLE MALFORMAZIONI DEGLI ANIMALI E DELLE MALATTIE E' UN FATTO ORMAI IRRIMEDIABILE....

Erano le sette di sera in un giorno di metà ottobre di quattro anni fa, quando ricevetti una telefonata da Clara. Subito dopo aver alzato la cornetta mi resi conto che quella sarebbe stata una chiamata che difficilmente avrei dimenticato. “Sono andata al supermercato ed ho comprato dei loti”- mi disse. “E allora?- risposi. “Li ho buttati subito”- replicò veloce. 

Di primo acchito non riuscii a capire cosa volesse dire con quella frase, ma tutto mi fu più chiaro quando esclamò: “Vengono da Sessa Aurunca”. Sessa Aurunca è una città della provincia di Caserta dove sorse (e sorge) ancora una centrale nucleare (ormai dismessa). A quel tempo stavo già lavorando ad un’inchiesta che avrebbe indagato poi sulla percezione del rischio nucleare degli abitanti del comune casertano. Fu in quel periodo che feci vedere a Clara foto di animali nati malformati a causa del malfunzionamento del reattore. Avevo condiviso con lei documenti ed opinioni. Fu per questo che si impressionò della provenienza di quei loti, che in realtà non avevano nessun tipo di problema (se non quello di essere un frutto che a me nemmeno piace). Si impressionò Clara perché sapeva che si era consumato in quel territorio un disastro ambientale. Un disastro da molti e per molto tempo taciuto o dimenticato.

In un’intervista di qualche anno fa ad un ex dipendente di un’altra centrale nucleare, quella di Borgo Sabotino (LT), questo mi raccontò che durante i trent’anni di lavoro nell’impianto, dal 1975 al 2005, ricevette dai reparti direzionali, ordini illegali e pericolosi per la salute: “Mi si chiedeva di lavare i coffins a mano (contenitori di uranio, n.d.a.) poiché smaltire i residui come da regolamento -cioè facendo lavorare i residui per un riuso degli stessi- sarebbe costato all’azienda tempo e denaro. Mi sono rifiutato sempre, ma altri miei colleghi –forse per farsi belli con i capi- l’hanno fatto”. Aggiunse poi: “Soprattutto quando facevo il turno di notte e rimanevo isolato, qualcuno veniva a bussarti alle spalle e ti chiedeva di andare a smaltire materiale nelle fogne”. “Fu dimostrato anche dall‟ARPA: i residui pericolosi venivano buttati là dentro e finivano in mare”.

Ma fu proprio sul finire dell‟intervista che l’ex dipendente di Borgo Sabotino mi rivelò un altro particolare molto interessante: “Per un po’ -disse- durante i miei ultimi anni di lavoro ho prestato servizio anche a Sessa Aurunca, alla centrale del Garigliano. Mi occupavo di risorse umane. Ebbene, durante la mia permanenza in quella centrale, lì a Sessa, cambiò uno dei responsabili di settore, il quale -non so per quale motivo, forse era impazzito (?)- mi commissionò la distruzione dei dati relativi agli ex dipendenti della centrale. Ogni operaio aveva infatti una cartella, una scheda insomma dove erano inseriti che so, documenti, certificati medici, eventuali note su assimilazione di radiazioni superiori alla norma. Ebbene, è andato tutto distrutto. Le ho distrutte io le schede, col tagliacarte”.


A Sessa Aurunca, il cantiere dei lavori fu inaugurato nel 1959 con l’obiettivo di ultimarli entro il 2 dicembre 1962. Termine questo che non fu rispettato perché le frequenti piene del fiume Garigliano costrinsero gli operai a lavorare fino al 1964, anno in cui la centrale entrò in funzione, pur non avendo alcuna licenza di esercizio. Fu solo nel 1967 che ottenne il permesso, perciò durante i suoi primi tre anni di attività la centrale era stata abusiva.

Durante la breve vita del reattore, si registrarono diversi incidenti. Una descrizione dettagliata è stata fatta dall’ormai scomparso avvocato Carlo Marcantonio Tibaldi, voce e leader indiscusso della contestazione antinuclearista di Sessa Aurunca. Nel dicembre 1976 l’acqua del Garigliano, in fase di piena, penetrò nel locale sotterraneo della centrale, dove erano “stoccate” le scorie radioattive e, ritirandosi, si trascinò dietro nel letto del fiume, nella campagna e fino al mare, più di un milione di litri di acqua contaminata dai radionuclidi presenti nel reattore. Incidente analogo avvenne nel novembre 1979 con il Garigliano in piena che invase letteralmente l’impianto. In quell’occasione i dipendenti della centrale per mettersi in salvo furono tratti all’esterno dai mezzi anfibi dei Vigili del Fuoco di Latina, giacché il gommone inviato loro dai Vigili di Caserta, appena messo in acqua colò misteriosamente a picco.

Secondo quanto riportato dal rapporto CNEN del 22/11/1980, l’acqua del Garigliano aveva invaso la centrale portando con sè “essenzialmente Cesio 137”. Ma oltre alle inondazioni, si verificarono incidenti tecnici nell’arco degli anni che vanno dal ’64 all’80. Incidenti che furono negati dal comune di Sessa Aurunca.

Difficile quantificare i danni, vista la mancanza del registro tumori che le istituzioni promettono da anni, ma che –a campagna elettorale finita- non hanno mai realizzato. Da quanto riferito da Tibaldi però, l’incidenza dei tumori sulle persone decedute nell’area della centrale tra il 1972 ed il 1978, sarebbe stata del 44%. 

Inoltre tra il 1971 ed il 1980 risulta che nell’ospedale “Dono Svizzero” di Formia (LT), ospedale che serviva una vasta area compresa tra i comuni di Formia, Minturno, Sessa Aurunca, Roccamonfina, Castelforte e SS.Cosma e Damiano, siano nati 15.771 bambini, tra i quali sono stati registrati 90 casi di malformazione genetiche. Malformazioni che hanno colpito anche gli animali: pulcini a tre zampe, agnelli senza muso e maiali con le zanne. L‘impianto del Garigliano è gestito dalla Sogin, un’azienda che si occupa di smaltire la centrale entro il 2025. Le associazioni ambientaliste si battono per ottenere chiarezza perché la gente continua ad ammalarsi. Continua a morire.

Di casi simili in Italia ce ne sono stati diversi e l’emergenza smog di queste settimane non è altro che la punta di un iceberg molto più profondo, molto più nascosto, fatto di errori umani, negligenze e profitto ottenuto sulla pelle dei cittadini. Si pensi alla Valle del Sacco. Basta risalire un centinaio di chilometri da Sessa Aurunca per ritrovarsi in provincia di Frosinone. Da lì si estende fino a Roma un un territorio che vide popolarsi di industrie di ogni tipo, da quelle belliche (in un primo tempo) a quelle per la produzione di cemento e prodotti chimici (negli anni più recenti). In mancanza di una regolamentazione legislativa le acque del fiume che scorre nella Valle, il Sacco per l’appunto, ha per anni fagocitato sostanze tossiche e rifiuti pericolosi. Solo negli ultimi tempi ci si sta rendendo conto della catastrofe generata, e malgrado tremila ettari di terreno siano stati posti ad osservazione e a riqualificazione, il processo di smaltimento durerà ancora per decenni.


Ricordo l’intervista ad una signora del posto. Si chiamava Vincenza, viveva a Ceccano (FR). Andai a trovarla perché sapevo che aveva perso quasi tutti i suoi parenti a causa dell’inquinamento. Vincenza lo vedeva scorrere a 500 metri dal portone di casa sua il Sacco e per anni ne ha respirato l’essenza sotto forma di nebbia che la mattina -mi raccontava- “si alza fittissima”.

Vincenza mi parlò di una storia lunga 30 anni. Era il 1980 quando per un tumore alla lingua perdeva il marito. Due anni più tardi sempre per un tumore, alla tiroide stavolta, perdeva la suocera, e nello stesso anno la cognata per un tumore al cervello. “Ricordo che una mattina mio marito mi fece vedere una bolla sotto la lingua, che dal centro si faceva largo a forma di ragnatela. Niente ha potuto salvarlo”. Negli anni ’80 la roba coltivata con l’acqua del fiume veniva mangiata. Si pescavano i pesci e si cucinavano. A volte ci si beveva pure dal fiume Sacco. Nessuno sapeva quanto fosse pericoloso. Nessuno aveva motivo di sospettare niente. 

Come nessuno sospettò niente a Seveso (MI) nel 1976, quando nello stabilimento dell’ICMESA, un’avaria causò la dispersione di una massiccia formazione di diossina. La popolazione dei comuni colpiti venne però informata della gravità dell’evento solamente otto giorni dopo la fuoriuscita della nube.

Si avvertì -questo raccontano i testimoni- un odore acre e infiammazioni agli occhi. Per fortuna non vi furono morti, ma circa 240 persone vennero colpite da cloracne, una dermatosi provocata dall’esposizione al cloro e ai suoi derivati, che crea lesioni e problemi alla pelle. Quanto agli effetti sulla salute generale, essi sono ancora oggi oggetto di studi. I vegetali investiti dalla nube morirono a causa dell’alto potere diserbante della diossina, mentre migliaia di animali contaminati dovettero essere abbattuti. Nonostante l’aborto fosse proibito, fu comunque reso legale ai fini terapeutici per le donne del posto che ne fecero richiesta.


L’incidente di Seveso viene ricordato anche per la scandalosa negligenza delle autorità. È chiaro che se si fossero prese misure precauzionali preventive o quantomeno provvedimenti celeri e trasparenti post incidente, molti danni alle persone sarebbero stati evitati.

La storia dei disastri ambientali in Italia è lunga, ed è frutto dell’inesperienza da un lato e di una commistione tra denaro, politica e mafie locali dall’altro. Si pensi alle navi cariche di rifiuti tossici fatte affondare a largo della Somalia o -per rimanere in territorio italiano- a largo delle coste calabresi per mano delle organizzazioni criminali. Oppure si pensi alle rivelazioni fatte da Carmine Schiavone, il pentito dei Casalesi (deceduto quest’anno), che denunciò l’interramento dei rifiuti nel casertano e nel basso Lazio che “nel giro di venti anni ucciderà tutti”.

Uccisi, come i morti del Monferrato dall’amianto, la cui produzione iniziò nel 1906 e continuò per 80 anni. Le vittime furono circa 2000.

Uccisi come a Porto Marghera, dove per decenni le industrie chimiche della zona hanno riversato idrocarburi clorurati e metalli pesanti nella laguna, causando aumenti esponenziali di tumori nella popolazione.

Uccisi dopo lunghe malattie e intossicazioni a Cogoleto, dove la Stoppani, avrebbe riversato 92.000 m3 di fanghi tossici stoccati nella discarica di Pian di Masino, con rilascio di metalli pesanti in quantità elevatissime e concentrazioni di cromo esavalente nelle acque di falda 64.000 volte superiore al limite.

Spesso i colpevoli di questi incidenti non hanno pagato, nemmeno con un giorno di carcere. E fino a quando nemmeno la giustizia della legge (che è poca cosa a confronto con le morti causate) riuscirà a fare il suo dovere, noi continueremo ad assistere al ripetersi della storia e ad ammalarci, o per precauzioni iperboliche, ma giustificabili, proseguiremo a buttare loti dalla dubbia provenienza appena comprati.

mercoledì 19 febbraio 2020

Una lucertola con due teste ed altri mostri presso la centrale nucleare del Garigliano

Una lucertola con due teste. L'hanno immortalata gli abitanti del piccolo borgo del casertano di Tora e Piccilli, nel cuore del Parco Regionale del vulcano di Roccamonfina, mentre attraversava la piazza principale. Il ritrovamento ha destato molta preoccupazione ed è tornato ad accendere i riflettori sui danni derivanti dall'inquinamento prodotto, nei decenni passati, dalla centrale elettronucleare di Garigliano, a Sessa Auruca, che dista in linea d'aria solo pochi chilometri.



Nel corso degli anni, infatti, nella zona sarebbero nati una serie di animali, soprattutto vitelli e agnelli, con due teste o con altre gravi malformazioni, dall'ermafroditismo all'anchilosi, come aveva incessantemente denunciato negli anni '80 dall'avvocato Marcantonio Tibaldi, che ne aveva raccolto decine di foto. "Ciò cui abbiamo assistito in questi anni è spaventoso – spiegava l'avvocato in un articolo apparso sul n. 6 di Modus Vivendi mensile della Federazione Nazionale dei Verdi. - La mortalità per leucemia e per cancro è aumentata in modo esponenziale in tutte e tre le regioni esposte alle radiazioni della centrale del Garigliano: in provincia di Latina, nel basso Lazio e in Abruzzo".

Sul caso della lucertola a due teste è intervenuta, come riporta il blog Montesantacroce di Giulia Casella, presidente del circolo di Legambiente di Sessa Aurunca: "in questi anni i vari governi e le istituzioni regionali si sono sempre rifiutati, diversamente da quanto è avvenuto in Germania, di stabilire un nesso causale tra le emissioni radioattive della centrale nucleare del Garigliano, l'incremento dell'incidenza tumorale e le malformazioni genetiche negli animali".

Ma non è detto che la doppia testa della lucertola sia per forza collegato a tutto questo. Potrebbe trattarsi anche di un "errore della natura". La policefalia, anche se rara, è ampiamente documentata nell'uomo e in molti animali, specialmente nei rettili, causata dalla non corretta separazione degli embrioni durante un parto gemellare. Ma ricordando, a tal proposito, proprio gli studi scientifici fatti negli anni '80 dall'avvocato Tibaldi e da Alfredo Petteruti, la Casella conclude perentoria: "per quanto mi riguarda, sono da sempre convinta, è una mia opinione non certo un'asserzione scientifica, che questo legame esiste".

Allarmismo anche tra i comitati antinucleare del Litorale, come Reazione Garigliano. "Si tratta di un episodio - sottolinea Valerio Mozzillo di Cellole - che suscita preoccupazione: era da venti anni, infatti, che non si avevano notizie del genere". A rileggere le parole di Cristaldi, in effetti, il dubbio che ci sia lo zampino dell'uomo e del suo inquinamento nella deformazione del rettile a due teste sorge spontaneo: "Se anche non volessimo usare i toni della catastrofe, gli effetti nefasti registrati nell'area sono innegabili e sufficientemente documentati", con il grave sospetto, anzi, "di un'attenzione sui controlli che negli ultimi anni sembrerebbe essere scemata. Mentre la gran parte dei rilevamenti, di pertinenza dell'ente gestore, l'Enel, non appaiono in grado di fornire gli elementi necessari per sapere con certezza quale sia l'attuale stato di salute della zona. Anche perché ci sarebbe ancora chi parte dal falso postulato che, una volta chiusa la centrale, il problema sia in gran parte risolto".










La centrale nucleare e il ponte Morandi: il filo che collega Genova a Caserta

Risultato immagini per centrale garigliano

Potrebbe interessarti: http://www.casertanews.it/attualita/centrale-nucleare-garigliano-progettata-morandi-sessa-aurunca.html
Seguici su Facebook: https://www.facebook.com/Caserta-News-264163850049/

L'ingegnere che ha costruito il viadotto Polcevera è stato il progettista dell'impianto del Garigliano. C’è un filo che collega la tragedia del viadotto Polcevera di Genova, dove il crollo di una consistente parte della struttura ha provocato la morte di 38 persone, e la provincia di Caserta. È l’ingegnere Riccardo Morandi, progettista del ponte in cemento armato crollato in Liguria e anche della centrale nucleare del Garigliano, a Sessa Aurunca.


L’impianto elettronucleare venne costruito nel 1959, su progetto proprio di Morandi, dalla Società Elettronucleare Nazionale: una struttura avveniristica che con la caratteristica sfera bianca domina la piana del Garigliano, inserita anche nel patrimonio architettonico dal Mibact.

I PROBLEMI E LA CHIUSURA

Una storia però fatta anche di incidenti, come quello del guasto ad un generatore di vapore nel 1978. Una problematica che portò l’Enel, società che subentrò alla vecchia proprietà dal 1965, a disattivare l’impianto definitivamente il 1 marzo 1982 ritenendo antieconomici i costi della sua riparazione vista la poca vita residua della centrale. Una scelta che anticipò anche il referendum nazionale sul nucleare del 1987, indetto sulla scia del disastro di Černobyl dell’anno precedente.

LA DISMISSIONE

Attualmente l’impianto nucleare del Garigliano è in mano alla Sogin, società che cura la bonifica e la dismissione delle quattro centrali italiane. Nel 2018 la Sogin ha provveduto allo smantellamento del camino dell’impianto, alto circa 100 metri. L’opera di dismissione dovrebbe essere completata entro il 2026.