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martedì 28 maggio 2019

IL DANNO ALLA SALUTE


Premessa. Il danno alla salute nell’ambito del danno alla persona
Il danno alla salute è il danno all'integrità psichica e fisica di una persona in sé e per sé considerata, a prescindere da qualsiasi effetto economico negativo (si pensi alla lesione di un arto o ad una malattia fisica o psichica).
Il danno alla persona, invece, è un concetto più ampio, in quanto comprende anche i danni morali (ad esempio, la sofferenza patita a causa di una lesione) e i danni patrimoniali da lucro cessante (ad esempio, la perdita della capacità lavorativa).
Tra danno alla persona e danno alla salute sussiste, dunque, un rapporto di genere a specie: il danno alla persona è il genere e il danno alla salute è la specie.
In alcuni casi il danno alla salute viene accomunato al cosiddetto danno biologico; in realtà le due figure devono essere tenute distinte perché il danno biologico consiste nella lesione in sé e per sé considerata, ed è danno evento, il danno alla salute consiste nelle conseguenze pregiudizievoli per la salute che sono conseguenza della lesione, ed è danno conseguenza.
Ad esempio se Tizio perde una gamba, il danno biologico – dunque l’evento - è rappresentato dalla perdita dell’arto; il danno alla salute consiste invece nelle conseguenze pregiudizievoli sulla salute del soggetto, che sono una conseguenza indiretta della perdita dell’arto: ad es. l’alterazione dei valori del sangue, l’impossibilità di svolgere una vita sana a causa dell’impossibilità di praticare sport, con tutte le complicazioni del caso (aumento del colesterolo, aumentata possibilità di infarto, ecc.).
Le due figure vengono confuse perché, in alcuni casi, non è facile distinguere il danno alla salute dal danno biologico, quando addirittura è impossibile: ad esempio nella persona vittima di uno stupro, che subisce il cosiddetto danno psichico, oltre a quello alla salute ed esistenziale, il danno biologico è costituito dal trauma in se e per sé, il danno esistenziale e alla salute saranno costituiti dalle conseguenze (difficoltà di relazione, paure, insonnia, depressione, ecc.) ma, se in teoria tali momenti sono distinguibili, nella prassi non lo sono, perché l’accertamento di un aspetto delle vicenda presuppone gli accertamenti contemporanei anche degli altri aspetti.
Danno alla salute fino agli anni '80
Secondo un orientamento che fino a pochi decenni fa era prevalente (e che risaliva al diritto romano) il danno alla salute non poteva essere risarcito perché la persona umana non ha prezzo.
L'irrisarcibilità del danno alla salute discendeva direttamente dall'interpretazione data all'articolo 2059 cod. civ., in base alla quale i danni non patrimoniali possono essere risarciti solo nei casi previsti dalla legge; e i “casi previsti dalla legge” erano letti da dottrina e giurisprudenza in senso restrittivo, limitato unicamente ai casi in cui il fatto costituisse reato.
Ai sensi dell'articolo 2043 cod. civ., quindi, era ammesso solo il risarcimento del danno patrimoniale, inteso come danno effettivo al patrimonio.
Nessun ostacolo, quindi, sussisteva al risarcimento del danno da lucro cessante che eventualmente fosse conseguenza del danno alla salute. Ad esempio, se una persona si rompeva la gamba in un incidente, tale danno non veniva risarcito di per sé; veniva risarcito, invece, se la rottura della gamba produceva conseguenze patrimoniali (cioè se produceva un danno da lucro cessante).
Tuttavia, si sentiva l'esigenza di risarcire ugualmente coloro che avessero subito lesioni psico-fisiche, anche quando non esistevano conseguenze patrimoniali. Per ovviare al limite posto dall'articolo 2059, allora, se si doveva calcolare il danno ad una persona anziana e inabile al lavoro, ad un bambino, ad un lavoratore che continuasse a percepire lo stipendio, a un pensionato, si ricorreva ad espedienti disparati.
La situazione, quindi, era questa:
a) quando la persona percepiva un reddito il danno a lei arrecato veniva quantificato a seconda del suo guadagno; era ancorato a rigidi parametri, e più precisamente a tabelle che calcolavano le percentuali di inabilità per ogni tipo di lesione e a coefficienti relativi all'età della persona (tabelle INAIL) ed al reddito percepito. Il danno alla salute - ha per lungo tempo stabilito la giurisprudenza - si identifica con la perdita economica che deriva dalla diminuzione della capacità lavorativa;
b) quando la persona non percepiva alcun reddito si utilizzavano escamotage vari; ecco quindi che proliferavano le più disparate figure di danni "patrimoniali":
  • la riduzione della capacità lavorativa generica, nel caso in cui il lavoratore infortunato continuasse a percepire il reddito;
  • il presumibile guadagno futuro, quando il danneggiato era un ragazzo o un bambino che non percepiva reddito; Al riguardo si registravano sentenze che potrebbero definirsi addirittura "assurde"; tali sentenze erano motivate da un nobile intento (risarcire ad un soggetto un danno che altrimenti non sarebbe stato risarcibile) ma vi giungevano con motivazioni difficilmente sostenibili, come quando si liquidava il danno che era stato cagionato al figlio di un manovale, prendendo come base di calcolo il reddito del padre, sostenendo che presumibilmente il figlio avrebbe fatto lo stesso lavoro (è il famoso caso "Gennarino", deciso da Trib. Milano, 18-1-1971);
  • il danno alla vita di relazione, categoria molto contestata in dottrina;
  • il danno estetico, considerato patrimoniale perché influiva negativamente sull'inserimento sociale (e quindi lavorativo) del soggetto (ora, dal momento che tale danno veniva risarcito anche quando dopo l'incidente il soggetto continuava a lavorare, si possono immaginare le contorsioni verbali cui si giungeva per poter configurare una perdita economica).
In definitiva, il danno alla salute di per sé non sarebbe stato teoricamente risarcibile (salvo quando produttivo di danni patrimoniali), ma di fatto veniva risarcito ugualmente. In tal modo si erano evitate le forche caudine dell'articolo 2059 (mutuando un'espressione usata da Di Majo).
Da più parti, però, si lamentava l'incostituzionalità del criterio di liquidazione del danno come veniva adottato dalla giurisprudenza, in quanto si venivano ad operare differenze di risarcimento tra i vari soggetti in base al reddito percepito, quando invece il tipo di lesione procurato era identico e non incideva affatto sulla capacità lavorativa.
Le tendenze successive agli anni ottanta
Successivamente l'orientamento della giurisprudenza muta. Si cominciò a notare che la salute è un valore primario della persona, tutelato espressamente dall'articolo 32 della Costituzione; in quell'ottica di depatrimonializzazione del diritto civile che permeava la cultura civilistica negli anni '80 sembrò del tutto fuori tempo riconoscere la risarcibilità dei danni arrecati al patrimonio e non risarcire il danno arrecato all'integrità fisica di un soggetto, che invece è un valore ben più importante.
Nel momento stesso in cui la dottrina ha cominciato a considerare le norme costituzionali come norme precettive, si è riconosciuta l'immediata operatività all'articolo 32 della Costituzione e nessun ostacolo si è più profilato all'orizzonte per il riconoscimento del danno alla salute.
In definitiva, si fissò definitivamente il principio che leggere il sistema della responsabilità nel senso della irrisarcibilità dei danni alla persona (salvo che portino conseguenze di tipo economico) equivarrebbe a considerare incostituzionale tutto il sistema.
A partire dal 1981 la Cassazione cominciò a sostenere che il danno biologico, o danno alla salute, sia risarcibile sempre e comunque, indipendentemente da considerazioni di ordine economico. Da quel momento la giurisprudenza ha definitivamente spostato l'attenzione dal danno rapportato unicamente al guadagno al danno rapportato al valore della persona umana in sé e per sé.
Il danno alla salute, quindi, oggi è il danno arrecato alla psiche o al corpo di un individuo, indipendentemente dal suo guadagno effettivo. Tale danno è considerato su di una base unitaria per tutte le persone, di qualsiasi ceto e lavoro, e viene liquidato in via equitativa.
Non è più necessario inventare astratte e improbabili figure di danno patrimoniale, come il danno alla capacità lavorativa generica, il danno alla vita di relazione, il danno estetico, il danno all'attività sessuale ecc. Tali espressioni sono tuttora mantenute dalla dottrina e dalla giurisprudenza, ma devono essere intese come voci da ricomprendere nella categoria più ampia e onnicomprensiva del danno alla persona.
In conclusione: il danno alla salute è risarcibile ed è uguale per ogni individuo, differenziandosi solo in base al tipo di menomazione. A questa base comune, poi, si aggiungerà il danno da lucro cessante, e cioè tutte le altre eventuali voci di danno, diverse da persona a persona, con le quali si adegua l'effettiva lesione subita al guadagno che percepiva il soggetto e a tutte le altre perdite economiche che il danno ha comportato.
Per esemplificare ulteriormente, potremmo dire che il danno alla salute è il danno a tutte le attività extralavorative del soggetto che permettono la realizzazione e l'esplicazione della personalità dell'individuo; il danno da lucro cessante è il danno alle attività lavorative.
Quando si valuta il danno alla persona, dunque, occorre tenere conto di entrambe le voci di danno (oltre che dell'eventuale danno morale).
Un esempio chiarirà il tutto. Se una persona perde una gamba a seguito di un incidente, subisce un danno alla salute; questo danno viene liquidato in via equitativa ed è uguale per chiunque (ad esempio è liquidato in 200 mila euro). In seguito alla perdita della gamba, il soggetto potrebbe perdere il lavoro; in tal caso verrà risarcito anche del lucro cessante e tale tipo di danno non è liquidato in via equitativa, ma varia a seconda del reddito del soggetto, nonché del tipo di lavoro che costui svolgeva. Così, ad esempio, se il danneggiato è un corridore che guadagna 1 milione di euro l'anno, il danno economico sarà elevatissimo; costui riceverà 200 mila euro per il danno alla salute, nonché il ristoro per l'ulteriore danno economico subito, che potrebbe ammontare a vari milioni in quanto il soggetto non potrà più correre. Se, però, il danneggiato è uno scrittore - che guadagna sempre 1 milione di euro all'anno - il danno patrimoniale sarà certamente minore; di conseguenza, costui riceverà 200 mila euro per il danno alla salute, nonché una somma a titolo di risarcimento per il lucro cessante più bassa rispetto a quella del corridore, in quanto non perde del tutto la capacità di lavorare.
Natura giuridica del danno alla salute
Dal momento in cui si è cominciato a parlare di danno biologico si è molto discusso sulla sua natura, patrimoniale o non patrimoniale. Il problema di fondo, infatti, è che il danno alla salute spesso non incide sul patrimonio di un individuo (anzi, a seguito dell'incidente il soggetto potrebbe realizzare un incremento patrimoniale: si pensi al caso Bobbit, cioè al caso di un marito evirato dalla moglie, che proprio a seguito dell'evirazione è diventato famoso in tutto il mondo).
Alcuni autori (De Cupis) sostenevano già in passato che saremmo in presenza di un danno non patrimoniale. Secondo questa tesi il danno sarebbe patrimoniale solo quando l'interesse leso è patrimoniale e coincide con una diminuzione effettiva del patrimonio del soggetto.
La tesi ora esposta portava a due possibili conseguenze:
  • o si ammetteva che il danno alla salute non era risarcibile (salvo in caso di reato, così come concludeva De Cupis);
  • oppure se ne ammetteva il risarcimento, ma in questo caso si doveva giustificare giuridicamente ed alla luce dell'articolo 2043 tale risarcimento. Così, si faceva ricorso all'applicazione analogica dell'art. 32 della Costituzione, ovvero si affermava che l'articolo 2043, applicato analogicamente e letto in connessione con il predetto articolo 32, consentiva di considerare risarcibile ogni danno ingiusto, indipendentemente dalla patrimonialità o non patrimonialità del danno stesso.
Secondo altri autori il danno alla salute aveva carattere patrimoniale; tale teoria muove da una diversa concezione del danno patrimoniale, secondo cui sarebbe tale il danno suscettibile di valutazione economica. Patrimoniale, cioè, non è il danno che lede un interesse patrimoniale, ma il danno che può comunque essere risarcito in denaro, perché suscettibile di una qualsiasi valutazione, anche se tale valutazione non è ancorata a valori di mercato. Del resto la tesi contraria non si avvede che lo stesso articolo 1174 dice che affinché sussista una valida obbligazione l'interesse del soggetto creditore può anche essere non patrimoniale, purché suscettibile di valutazione economica.
L'articolo 2059, quindi, va letto nel senso che può essere risarcito solo in caso di reato unicamente il danno morale puro(cioè la sofferenza). Gli altri tipi di danno, invece (l'invalidità, la malattia, il danno psichico ecc.) sono sempre risarcibili ai sensi dell'articolo 2043, in quanto rientrano pur sempre nella nozione di danno al patrimonio (intesa l'espressione in senso lato) del soggetto. In tale ottica non si ha né una violazione dell'articolo 2059, né uno straripamento dell'articolo 2043 dai suoi confini naturali.
La tesi della patrimonialità in dottrina è stata sostenuta con particolare convinzione da Mastropaolo, secondo il quale il danno sarebbe patrimoniale anche quando si concreta nell'impossibilità di svolgere attività nel tempo libero; il tempo libero, infatti, è un'utilità (o un bene) che ha un valore d'uso e che può essere calcolato. E una menomazione fisica, o psichica, anche quando non ha riflessi sull'attività lavorativa, in tal senso assume sempre un valore patrimoniale.
La lesione alla salute, così, può ben essere ricompresa nella categoria dei danni patrimoniali, "perché colpisce un valore essenziale che fa parte integrante del patrimonio del soggetto, cioè di quel complesso di beni di sua esclusiva e diretta pertinenza".
Di recente sono intervenute le SS.UU, con le note sentenze nn. 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008 a dirimere la questione e a risolvere in modo definitivo tutti i problemi teorici che erano stati sollevati dalla dottrina in passato. Il danno alla salute sarebbe un danno non patrimoniale, risarcibile non in virtù della prevalenza dell’articolo 32 della Costituzione sull’articolo 2059, bensì di una diversa lettura dell’articolo 2059. Tra i casi previsti dalla legge, infatti, vi rientrerebbero non solo le norme penali, ma anche i diritti tutelati da una norma dell’ordinamento (costituzionale, ordinaria o comunitaria); la salute, rientrando tra i diritti tutelati, sarebbe un diritto non patrimoniale, risarcibile perché ciò sarebbe consentito dall’articolo 2059.       
Quantificazione del danno alla persona e del danno biologico
Nel risarcimento del danno alla persona il giudice deve quindi tenere conto di queste voci, che sono diverse ed indipendenti tra di loro:
  • il risarcimento del danno biologico, che è da stabilirsi con criteri uniformi per ogni persona danneggiata;
  • il risarcimento del danno alla salute, che varia da persona a persona a seconda delle conseguenze pregiudizievoli che questa risente;
  • il risarcimento del lucro cessante, cioè del danno patrimoniale (consistente nella perdita della capacità di lavoro e in altre conseguenze patrimoniali, variabili da soggetto a soggetto); tale risarcimento sussiste solo se esiste un preventivo danno alla salute.
  • Il risarcimento dei pregiudizi esistenziali, che derivano dalla lesione della salute; ad es. se una persona perde una gamba dovrà anche essere risarcito di tutti quei pregiudizi che subisce alla sua vita quotidiana, che influiscono sulla qualità complessiva della sua esistenza.

IL DANNO ESISTENZIALE. QUANDO E' RAVVISABILE?

ESISTE TUTTA UNA CASISTICA DI FATTISPECIE NELLE QUALI E' RAVVISABILE UN DIRITTO AL RISARCIMENTO PER DANNO ESISTENZIALE: UNA CATEGORIA MOLTO VARIEGATA, MA DISTINTA DAL DANNO BIOLOGICO. TANTE PERSONE LAMENTANO E SUBISCONO OGNI GIORNO SOPRUSI DI OGNI SORTA: DAL VICINO DI CASA, IN FAMIGLIA, SUL LAVORO ECC...SENZA SAPERE CHE LA CONDOTTA LESIVA ALTRUI PUO' INQUADRARSI NELLA FATTISPECIE DI "DANNO ESISTENZIALE" E DARE DIRITTO AD UN RISARCIMENTO. E' BENE INFORMARSI E SAPERE COSA FARE. 

Danno esistenziale: è qualsiasi lesione che va ad intaccare un qualsiasi valore di rango costituzionale, compromettendo la completa realizzazione della persona: ne sono esempi, la lesione della serenità familiare, o del godimento di un ambiente salubre. Si distingue dal danno biologico perché non presuppone una lesione fisica, e dal danno morale perché non costituisce una sofferenza di tipo soggettivo. I confini di questa categoria sono ancora labili e in via di definizione, va a ricomprendere delle tipologie di danno riconosciute dalla giurisprudenza quali, ad esempio, il danno da morte del congiunto, il danno estetico, il danno alla vita sessuale, ecc.





Il danno esistenziale: nozione

Il danno esistenziale è definibile come il danno arrecato all’esistenza, cioè quel danno che si traduce in un peggioramento della qualità della vita, pur non essendo inquadrabile nel danno alla salute.

Lo si è definito anche come “il danno alle attività realizzatrici della persona umana”, “il perturbamento dell’agenda quotidiana”, “la rinuncia forzata ad occasioni felici”; è quindi la lesione alla possibilità di accedere a tutti gli intrattenimenti e a quelle attività tipiche che realizzano la persona umana, fatta eccezione per le attività illecite o immorali.

In generale si tratta di tutti quei danni che non possono essere considerati danni alla salute, perché non si traducono in una lesione psicofisica e tuttavia incidono su valori fondamentali dell’esistenza di un individuo.

A partire dal 2000, le Corti hanno ampliato sempre di più il tipo di possibili danni risarcibili, nel senso che spesso sono stati risarciti danni che un tempo sarebbero stati impensabili, a meno di non essere classificate come danno morale.

Alcune sentenze erano anche abbastanza curiose perché risarcivano improbabili danni alla salute, come ad es.:
la gravidanza indesiderata procurata ad una paziente che voleva subire un intervento di sterilizzazione (Trib. Milano, 20-10-1997). Si tratta, ad avviso del Tribunale, della lesione del diritto assoluto ad una procreazione cosciente e responsabile che trova il suo referente nell’articolo 13 della Costituzione (anche se i parametri del risarcimento vengono misteriosamente individuati in quelli utilizzabili nella lesione del diritto all’immagine e alla reputazione, nonché nel danno morale conseguente alla perdita di congiunti o lesioni gravissime); il pregiudizio subito dalla vedova e dal figlio del defunto, pregiudizio ravvisato non in un danno alla salute, ma nella “modificazione peggiorativa della qualità della vita, essendo venuto meno quel fascio di relazioni umane identificatesi nella stessa posizione di moglie e figlio e, come tale, arricchito di quegli stessi contenuti specifici che si ricollegano alla detta qualità” (Trib. Napoli, 28-12-1995);
il danno subito dagli abitanti di una determinata zona a seguito della fuoriuscita di diossina da una fabbrica, ravvisabile ancora una volta non in un danno alla salute, ma nel pregiudizio corrispondente alla “sottoposizione sostanzialmente coattiva a continui controlli medici, al temuto (ma non verificatosi) allontanamento coattivo dalla propria abitazione ed all’alterazione delle normali condizioni di vita e di rapporto con l’ambiente esterno” (Trib. Milano, 11-7-1999);
il danno subito da un lavoratore licenziato ingiustamente, consistente non in un danno psichico o patrimoniale, ma nella “violazione della dignità umana, direttamente risarcibile prescindendo da una effettiva diminuzione patrimoniale del soggetto leso o dalla esistenza di un danno morale” (Pret. Ferrara, 25-11-1993);
il danno procurato al coniuge consistente nell’impossibilità di avere rapporti sessuali (Cass. 6607/1986); il danno cagionato ad una persona anziana a seguito dell’uccisione del gatto, ravvisabile nell’aritmia cardiaca e nell’angoscia in cui la vecchietta versava a seguito della morte (Conc. Udine, 9-3-1995).

E’ chiaro, cioè, che i giudici talvolta facevano dei veri e propri voli pindarici per poter risarcire civilmente poste di danno che altrimenti sarebbero state irrisarcibili: questi erano infatti danni morali, non risarcibili in sede civile, ma che i giudici “riqualificavano” come danno alla salute rendendoli così risarcibili a aggirando ancora una volta l’articolo 2059 c.c.

E’ palese ad esempio che il danno da gravidanza indesiderata non è un danno alla salute, in quanto non può una gravidanza essere considerata una “malattia”; qui i giudici hanno voluto risarcire un vero e proprio danno morale, o quantomeno un peggioramento della qualità della vita. Ma il peggioramento della qualità della vita è cosa ben diversa dal danno alla salute.

Stesso discorso va fatto per il danno da uccisione del gatto, o il danno derivante dall’impossibilità di avere rapporti sessuali. Solo con uno sforzo logico e verbale può affermarsi che tali danni sono danni alla salute. La verità è che in queste fattispecie il giudice ravvisava un vero e proprio danno esistenziale.

Comincia così, a partire dalla fine degli anni '90, grazie a Paolo Cendon, la diffusione e lo studio del concetto di danno esistenziale. Si mette in luce cioè che la figura del danno alla salute è troppo ristretta per risarcire danni che la coscienza sociale è pronta per veder riconosciuti e tutelati, si mette in luce altresì che i giudici spesso risarciscono danni che solo impropriamente vengono definiti “alla salute”. Ciò che la coscienza sociale reclama, e che i giudici riconoscono, è la risarcibilità del danno consistente nel peggioramento della qualità della vita, indipendentemente dai suoi riflessi sulla “salute” dell’individuo. 

Il dibattito sul danno esistenziale in dottrina

A partire dal suo nascere la figura ha scatenato un acceso dibattito, tuttora in corso in dottrina, tra detrattori e sostenitori della figura.

Le critiche

Le critiche mosse alla figura del danno esistenziale, sono, in pratica, quelle mosse a qualsiasi nuova figura di danno si affacci nell’ordinamento; le stesse che furono mosse alla figura della lesione del credito, nel momento in cui dottrina e giurisprudenza cominciarono a delinearne i contorni, al danno alla salute, alla lesione dell’interesse legittimo e così via, riassumibili come segue:
impossibilità di rinvenire nella legge una simile categoria di danno;
violazione dell’articolo 2059 c.c.;
indeterminatezza e disomogeneità della voci che il danno esistenziale abbraccerebbe, sì che sarebbe impossibile ricondurle ad unità;
estrema soggettività del danno, ciò che rimetterebbe in ultima analisi la sua esistenza e quantificazione al dato soggettivo della sua percezione da parte dell’interessato;
aggravio derivante dall’introduzione nel sistema di una nuova categoria di danno risarcibile; in altre parole taluno sostiene che il danno esistenziale potrebbe scoraggiare il potenziale danneggiante dall’intraprendere determinate attività; infatti introducendo nell’ordinamento una nuova figura di danno molti soggetti (medici, industriali ecc.) potrebbero evitare di intraprendere la loro attività, nel timore di essere sommersi da una marea di richieste di risarcimento e di essere costretti a risarcire una pletora di danni.

L’orientamento favorevole

A queste obiezioni si è data, in primo luogo, la risposta che si può dare a tutti cultori della tipicità dell’illecito: che tale tipicità non esiste perché nella legge non esiste un elenco di danno risarcibili, e le maglie offerte dalle norme costituzionali sono troppo larghe per poterne desumere una tassatività dei diritti tutelati.

In secondo luogo, il danno esistenziale non è identificabile nel danno morale. Non si viola quindi l’articolo 2059 c.c.. Il danno morale è il danno ravvisabile nelle sofferenze e nel dolore che sono conseguenze dell’illecito; si tratta quindi di un danno intangibile dal punto di vista materiale, impossibile da percepirsi se non da parte di colui che lo subisce. Il danno esistenziale è invece un danno concreto e tangibile: impossibilità di svolgere per sempre un dato hobby o una data attività, impossibilità di godere di alcuni piaceri della vita; si tratta cioè di un danno concreto, tangibile e visibile per chiunque.

Il danno esistenziale, poi, non è indeterminato e disomogeneo: anche la voce danno patrimoniale è una voce astratta che comprende in sé una marea di voci concrete e analogo discorso vale per il danno alla salute, che deve poi essere specificato in una serie di singole voci concrete (rottura di un arto, perdita di un senso, perdita della funzionalità di un organo ecc.). Anzi si è detto che la categoria del danno esistenziale sarebbe idonea a costituire il momento unificante di una serie di voci per ora isolate e frammentarie (danno alla vita di relazione, danno estetico ecc.).

Quanto alla soggettività del danno, la critica non è pertinente; ci si dimentica, infatti, che la risarcibilità è comunque subordinata agli stessi parametri e limiti cui è subordinato ogni danno (nesso di causalità, prova di esso). Anche un danno alla salute non è identico per qualunque soggetto, e un danno patrimoniale (ad esempio la distruzione dell’automobile) ha conseguenze diverse a seconda del danneggiato.

Infine, quanto all’ultima obiezione (l’aggravio del sistema e l’aggravio sul cittadino, soggetto alla possibilità di risarcire le più improbabili voci di danno), si tratta di un argomento che è stato utilizzato ogniqualvolta si affacciava nell’ordinamento una nuova figura di danno e che è sempre stato smentito dai fatti; l’introduzione della figura della lesione del credito non ha portato come conseguenza la rinuncia ad intraprendere attività economiche o professionali e l’introduzione del danno alla salute non ha diminuito il numero delle imprese, dei medici, o di auto circolanti (eventualmente ha solo spinto alcune categorie di soggetti ed assicurarsi).

Infine, molti autori e alcune sentenze hanno cominciato, nei primi anni del terzo millennio, a sottolineare un dato importantissimo: l’articolo 2059 c.c. non dice che il danno non patrimoniale si risarcisce solo nei casi di reato, ma più esattamente dice che si risarcisce solo “nei casi previsti dalla legge”. Ora, se ancora una volta per legge si intende anche la Costituzione ne risulta una lettura del sistema molto diversa dal passato: il danno esistenziale è risarcibile tutte le volte che venga in rilievo la lesione di un interesse protetto dalla Costituzione (Cass. 8828/2003).

Non solo. Ma occorre tenere presente che anche la legge, già da tempo, conosce la figura del danno esistenziale, anche se sotto nome diverso: il risarcimento per lite temeraria ex articolo 96 c.p.c., ad es., altro non è che il risarcimento dovuto alla parte vincente per essere stata coinvolta in una vicenda giudiziaria inutile, tenendo presente lo stress che causa il dover prendere parte ad un processo; e analogo discorso va fatto per il danno da ingiusta detenzione.

La giurisprudenza: le tappe del cammino

segue: la trilogia del 2003 e il sistema bipolare

Dopo i primi anni di dibattito nel 2003 la Cassazione raggiungono un primo punto fermo con le sentenze 8827 e 8828 del 2003, seguite dalla sentenza 233 del 2003 della Corte Costituzionale.

Con queste tre sentenze venne affermato il principio della risarcibilità del danno esistenziale.

Alcuni interpreti le definiscono rivoluzionarie e si viene ad affermare il principio del cosiddetto sistema “bipolare” del risarcimento del danno alla persona.

In realtà il punto fermo è solo apparente perché dal punto di vista della natura giuridica i giudici avevano inquadrato il danno esistenziale in modo abbastanza sfuggente da permettere, in tutte le successive sentenze, la stessa altalena e la stessa incertezza interpretativa che avevano caratterizzato la figura negli anni precedenti.

La Cassazione infatti, in sintesi, ha stabilito i seguenti punti:
il danno esistenziale è risarcibile civilmente, in quanto il diritto ad un’ esistenza serena è un diritto inalienabile del singolo individuo;
il danno esistenziale rientra nella categoria del danno non patrimoniale, ovverosia nella figura disciplinata dall’articolo 2059 c.c.
il danno esistenziale non viene risarcito solo in caso di reato, perché ciò significherebbe andare contro i principi costituzionali che tutelano i diritti fondamentali dell’individuo;
non ogni danno esistenziale può essere risarcito, ma solo quello che attiene a diritti costituzionalmente garantiti. Ecco il motivo per cui si parla di sistema bipolare: secondo i giudici il danno risarcibile è patrimoniale (ed è risarcibile ai sensi dell’articolo 2043 c.c.) o è non patrimoniale (ed è irrisarcibile ai sensi dell’articolo 2059 c.c.). Se però il danno non patrimoniale lede un interesse protetto dalla Costituzione, esso sarà risarcibile anche in sede civile.

In pratica le sentenze, nonostante siano state additate come rivoluzionarie, non hanno rivoluzionato alcunché, perché hanno lasciato irrisolto il problema di distinguere quali interessi devono essere considerati “costituzionalmente garantiti” e quali no. Cioè rimane immutato il dilemma di sempre: in quali casi il danno esistenziale può trovare risarcimento in sede civile, indipendentemente dal reato? Si tratta dello stesso identico problema che esisteva, prima della definitiva consacrazione della figura del danno alla salute, per le figure del danno estetico, alla vita di relazione, ecc… e che persiste oggi, immutato.

segue: gli sviluppi successivi

Le sentenze successive a queste tre appena citate più o meno ripercorrono gli stessi iter argomentativi, talvolta però discostandosene non poco.

Cass. 13546/2006: in questa sentenza i giudici affermano che:
il danno esistenziale è risarcibile autonomamente e non coincide con il danno biologico, ma è risarcibile oltre e indipendentemente da esso;
il danno esistenziale deve essere provato, come tutti i danni, secondo i principi generali del nostro ordinamento, ma talvolta (nel caso di perdita di un parente stretto) il giudice può operare con una presunzione semplice.

Sostanzialmente in linea con la precedente è Cass. 2546/2007, che ha affermato la risarcibilità del danno esistenziale come voce distinta e autonoma rispetto al danno biologico.

Cass. 9510/2007 invece afferma:
l’articolo 2059 c.c. pone un principio di tassatività e tipicità delle ipotesi di danno risarcibile (dice infatti la norma che il danno non patrimoniale è risarcibile solo nei casi previsti dalla legge);
proprio per questo non può formare oggetto di tutela una generica figura di danno esistenziale, a meno che non si tratti di singole figure previste dalla legge; in pratica con questa affermazione la Corte sembra quasi propendere per una risposta negativa all’ammissibilità della figura;
il danno esistenziale coincide con il danno estetico e il danno alla vita di relazione, e non può essere ammesso a meno di non creare duplicazioni risarcitorie. In pratica questa sentenza sembra smentire sia quanto detto nella trilogia del 2003, sia nella precedente sentenza 13546/2006.

segue: conclusioni sul danno esistenziale fino al 2008

Una volta che si abbia presente che la categoria del danno esistenziale ha raccolto al suo interno alcune “voci” che prima erano liquidate come danno morale (nell’ipotesi in cui ci fosse un reato) o come danno alla salute (quando non c’era un reato) è chiaro il motivo per cui la giurisprudenza e la dottrina appaiono così divisi e la sentenze sembrano quasi schizofreniche, affermando un giorno una cosa e un giorno un’altra.

Il punto, infatti, è che quando si deve risarcire una voce di danno (ad esempio un danno estetico, un danno alla vita di relazione, un danno da stress, ecc… ) il giudice si comporta in questo modo:
se c’è reato lo inquadra molto facilmente nel danno morale, e la questione viene liquidata in poche battute e con pochi problemi giuridici;
se non c’è reato il danno verrà inquadrato in due modi:
come danno alla salute, se il giudice è un “antiesistenzialista”;
come danno esistenziale, se il giudice è favorevole alla figura.

Il vero problema del danno esistenziale, dunque, non era se sia risarcibile o meno, perché in realtà esso lo era già da tempo, in quanto le varie voci ricomprese al suo interno erano inquadrate, come sappiamo, sub specie di danno morale o danno alla salute.

Il vero è problema era – e lo è tuttora - quello delle singole figure; cioè ci si dovrebbe di volta in volta domandare se siano risarcibili le singole figure di cui il danno esistenziale si componeva, operando con metodo casistico.

In assenza di categoria del tutto consolidate, l’interprete deve prestare molta attenzione nell’avventurarsi nella giungla delle definizioni, fermo restando che ciò che conta a prescindere dalle sovrapposizioni o dai fraintendimenti, è il risultato finale, ossia il risarcimento di una somma che sia equa nella sua globalità.

In conclusione: il danno esistenziale è risarcibile. La domanda, o meglio, le domande, sono: è risarcibile il danno da vacanza rovinata, il danno subito per non aver potuto vedere i nonni durante le vacanze estive, il danno subito per non poter più andare in moto, il danno da molestie telefoniche, il danno che mi arreca la ditta che mi manda decine di mail inutili (spam) al giorno, il danno per aver fatto la fila inutilmente alle poste?

La cosa importante è capire se queste poste di danno sono risarcibili. A questo punto il loro inquadramento sub specie di danno alla salute, morale o esistenziale, è solo una questione teorica la cui soluzione dipende dalla sensibilità dei giudici e dalla loro formazione giuridica ma che in fondo, al cittadino comune, non interessa più di tanto.

Infine, nel 2008 la Cassazione a Sezioni unite ha fatto il punto sul problema del danno esistenziale, modificando il quadro complessivo. Vediamo di seguirne la linea di pensiero.

segue: le Sezioni unite 26972 del 2008

Nel 2008, con la sentenza n. 26972 la Cassazione a Sezioni unite ha fatto il punto sul problema del danno esistenziale, ridefinendo completamente, per certi versi, tutto il sistema del danno alla persona (v. anche la voce “Danno alla persona”).

La sentenza si segnala per aver puntualizzato anche molteplici aspetti di teoria generale della responsabilità civile, come il problema della tipicità o atipicità dell’illecito e altro ancora. Per questo riteniamo di doverle dedicare un paragrafo a parte, che deve essere preso come una sorta di compendio dei vari aspetti di questa materia.

Necessità di una rilettura dell’espressione “casi previsti dalla legge”

Per lungo tempo l’espressione “nei casi previsti dalla legge”, costituente il punto nevralgico dell’articolo 2059, era stata interpretata unicamente con riferimento all’articolo 185 del codice penale; in sostanza casi previsti dalla legge erano i soli casi di reato.

Secondo la Corte, tale lettura restrittiva era insostenibile, ed essa ha trovato una breccia negli ultimi anni, in particolare dopo le sentenze del 2003 sopra citate. La verità infatti è che i casi previsti dalla legge sono molteplici:
abbiamo innanzitutto diversi casi previsti nella legislazione ordinaria, di danni non patrimoniali risarcibili civilmente (lesione della riservatezza, legge 675/1996; privazione della libertà personale per ingiusta detenzione, articolo 2 legge n. 117/1998; modalità illecite nella raccolta di dati personali, articolo 44 legge n. 286/1998; atti discriminatori per motivi razziali o religiosi, articolo 2 legge 89/2001);
abbiamo, poi, il cosiddetto danno biologico, che negli anni è stato riconosciuto come danno non patrimoniale, che trova il suo più diretto e autorevole riferimento normativo nell’articolo 32 della Costituzione;
si è avuto inoltre un ampliamento delle ipotesi di risarcibilità del danno non patrimoniale in favore delle persone giuridiche (sent. 2367/2000);
l’entrata in vigore della Carta Costituzionale, successivamente all’entrata in vigore del codice del 1942, impone inoltre di leggere in chiave moderna il rapporto tra queste norme, e prevedere tra “i casi previsti dalla legge” anche quelli previsti e tutelati dalla costituzione.

In conclusione, a meno di non ritenere incostituzionale l’articolo 2059, sotto le pressanti insistenze di parte delle dottrina e di parte della giurisprudenza si imponeva, da subito, la necessità di rileggerlo in una chiave “costituzionalmente orientata”, ritenendo ammissibile e risarcibile il danno esistenziale.


Il sistema attuale secondo le Sezioni unite. Il sistema bipolare

A questo punto occorre tracciare i confini tra il danno esistenziale e gli altri tipi di danno alla persona.

Il sistema dell’illecito extracontrattuale è stato ben delineato dalle sentenze del 2003 e va ribadito, sia pur con alcune precisazioni.

Il nostro sistema può dirsi bipolare, in quanto ruota attorno a queste due norme (o poli):

a) l’articolo 2043 per il risarcimento del danno patrimoniale;

b) l’articolo 2059 per il risarcimento del danno non patrimoniale.

In base all’articolo 2043 vanno risarciti tutti i danni patrimoniali subiti da un soggetto, senza predeterminazione di legge: il danno patrimoniale è quindi atipico.

In base all’articolo 2059 devono essere risarciti tutti i danni non patrimoniali ma solo se ed in quanto siano previsti dalla legge: il danno non patrimoniale è quindi tipico.

Non esiste però una autonoma categoria di danno esistenziale; il danno non patrimoniale è unico, e non è neanche scomponibile in diverse sottocategorie.

Solo a fini descrittivi, dunque, si parlerà di danno biologico, danno morale, danno esistenziale.

Esistono in conclusione solo due categorie di danni, quello patrimoniale, previsto dall’articolo 2043, e quello non patrimoniale, previsto dal 2059. All’interno di queste due macrocategorie esistono solo singoli diritti lesi (salute, onore, vita, riservatezza, ecc) ma certamente non sono configurabili ulteriori sottocategorie.

Gli istituti “danno alla salute” “danno esistenziale”, “danno morale”, dovranno essere intesi quindi come meri termini descrittivi del tipo di lesione subita dal soggetto.

Scompare, quindi, secondo la Corte, il tradizionale danno morale soggettivo, che veniva risarcito in presenza di un reato; attualmente il danno non patrimoniale sarà risarcito in ogni caso, di reato o di semplice illecito civile.

Da precisare che il danno non patrimoniale è risarcibile non in ogni caso in cui esista un bene giuridicamente rilevante, ma solo quando tale bene sia protetto dalla Costituzione.

Il pregiudizio di tipo esistenziale deve consistere in un danno evento, non essendo risarcibile nella forma del cosiddetto danno conseguenza. Questa – stante la difficoltà di individuare in molti casi la differenza tra danno evento e danno conseguenza - è la parte più oscura della sentenza, ove si legge che è errato affermare che per la risarcibilità non debba guardarsi all’interesse leso ma al pregiudizio sofferto, in quanto tale tesi “pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno conseguenza, e non al diritto leso cioè all’evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell’ingiustizia da dimostrare e va disattesa”.

La difficoltà di comprensione deriva in particolare dal fatto che alcune pagine dopo (4.10) la Corte afferma che il danno non patrimoniale è un danno conseguenza, in ciò contraddicendo platealmente quanto, con sontuosità, scritto poco prima.

Il pregiudizio sofferto deve essere grave e serio, e superare una soglia minima (che però non è dato individuare a priori, ndr).

Non sono risarcibili, perché non tutelati a livello costituzionale, i pregiudizi costituiti in fastidi, disagi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente la vita quotidiana. Scrive la Corte che “Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere e alla serenità; in definitiva il diritto ad essere felici”. Solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

Giustamente quindi è stato negato il risarcimento in casi minimi come nella richiesta del danno da stress per l’installazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza (Cass. 3248/2008); o nella perdita dell’animale d’affezione (Cass. 14846/2007).

Può senz’altro ammettersi invece:
il cosiddetto danno alla vita di relazione;
il danno da compromissione della sessualità (già affermato da Cass. 2311/2007);
il danno estetico;
la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, cioè indipendentemente dal fatto che sia sofferenza transeunte, o di lunga durata, o permanente; (ad esempio in caso di diffamazione a seguito di reato;
il danno da perdita parentale (tale danno sarà quindi unico, e non sarà più ammissibile a partire da oggi la liquidazione del danno morale, esistenziale e biologico a seguito della perdita di un parente, ma unicamente il risarcimento del danno non patrimoniale, onnicomprensivo);
la sofferenza provata dalla vittima che rimane in uno stato di lucida agonia prima dell’imminente fine. Danno che la Corte qualifica espressamente come “danno morale”.

Il danno non patrimoniale è risarcibile anche nell’ambito della responsabilità contrattuale. Ciò – nonostante una teoria contraria abbastanza diffusa - è espressamente previsto dall’articolo 1174, ove è detto che la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse anche non patrimoniale del debitore.

Oltre al fatto che non si trovano limitazione di sorta negli articoli 1223 e ss.

La casistica

Negli anni, sono state individuate dalla giurisprudenza della Cassazione le seguenti figure di danno esistenziale (anche se non sempre chiamate in questo modo):
il danno da gravidanza indesiderata (Trib Milano 20.10.1977; la sentenza non definiva tale danno espressamente come esistenziale);
il danno chiesto dal figlio, oramai maggiorenne, al padre che per anni gli aveva negato il mantenimento (Cass. 7713/2000);
il danno alla madre da nascita indesiderata di figlio malforme (Cass. 14488/2004);
il danno derivante dall’impossibilità di avere rapporti sessuali (Cass. 6607/1986);
il danno subito dalla donna che sposa un uomo che le tace di essere affetto da impotenza, quando la scoperta avviene dopo il matrimonio (Cass. 9801/2005);
il danno da perdita di un parente stretto;
il danno da demansionamento, cioè il danno subito dal lavoratore che viene ingiustamente dequalificato dal datore di lavoro (Cass. SS.UU. 6572/2006);
il danno subito da partner per il tradimento nel rapporto di coppia (Trib. Brescia 14.10.2006; Cass. 18853/2011);
il danno subito dal figlio e dal coniuge per la violazione degli obblighi assistenziali (Cass. 5652/2012);
il danno da protesto illegittimo (Cass. 17288/2014);
il danno subito dai genitori per la nascita di un figlio malforme a causa di un errore diagnostico; i genitori avevano citato il medico che aveva sbagliato la diagnosi, sostenendo che, avendolo saputo in anticipo, avrebbero potuto abortire; la Cassazione ha in prima battuta negato il risarcimento perché non esiste nel nostro ordinamento un diritto a nascere sani, o comunque un “diritto a non nascere se non sani” (Cass. 16123/2006). Successivamente la Cassazione ha mutato indirizzo, riconoscendo il risarcimento di questo danno in molteplici occasioni;
il risarcimento del danno per la perdita dell’animale da affezione (Cass. 14846/2007, che nega il risarcimento, ma sul presupposto che il legame tra il richiedente e il cavallo, morto a seguito di un incidente, non era così stretto da meritare un risarcimento; altre sentenze invece concederanno tale risarcimento).

Ancora più ricca la casistica dei giudici di merito che spaziano dalla risarcibilità per resto inesatto affermata dal Giudice di Pace di Napoli, al danno per l’attesa eccessiva in aeroporto, per errato taglio di capelli e per stress causato da una cartella esattoriale inesatta. In definitiva si tratta di una figura aperta, suscettibile di mutamento con l’evolvere dei costumi, dei tempi, della sensibilità sociale e del diritto.

lunedì 28 gennaio 2019

Privacy, più di 100mila ricorsi di cittadini per violazioni nella Ue

Privacy, quasi 100mila ricorsi di cittadini per violazioni nella Ue

La cifra record è stata registrata dalla commissione europea dall'entrata in vigore il 25 maggio 2016 delle nuove norme Ue (Gdpr) a tutela dei dati personali

BRUXELLES - Sono più di 100 mila i ricorsi presentati da cittadini europei per violazione della privacy dall'entrata in vigore il 25 maggio 2016 delle nuove norme Ue (Gdpr) a tutela dei dati personali. E' la cifra record resa nota dalla Commissione Ue sulla base dei dati forniti dall'insieme dei Garanti dei 28 che ricevono e trattano i reclami.


"Stiamo già cominciando a vedere gli effetti positivi delle nuove regole", hanno dichiarato in una nota congiunta i commissari Frans TimmermansAndrus Ansip e Vera Jourova, "i cittadini sono diventati più consapevoli dell'importanza della protezione dei dati e dei loro diritti, che stanno ora esercitando", al punto che le autorità della privacy nazionali "hanno ricevuto finora oltre 95 mila ricorsi da parte dei cittadini". I ricorsi riguardano soprattutto attività di telemarketing, mail promozionali e videosorveglianza. Finora sono state comminate tre multe, tra cui quella da 50 milioni di euro a Google in Francia per il consenso sulle pubblicità Ads.



PRIVACY, NUOVO REGOLAMENTO UE 2016/679

Privacy, nuove regole in arrivo: cosa cambia per i consumatori


Dal 24 maggio 2016 è entrato in vigore il nuovo regolamento europeo sulla privacy Ue 2016/679 che ha apportato delle sostanziali modifiche alle leggi sulla privacy dei dati personali. 

A cambiare sono state le leggi che chiunque maneggi dati personali dovrà rispettare per poter continuare a farlo. Come le società di telefonia, le pubbliche amministrazioni e qualsiasi azienda con cui sottoscriviamo un contratto in cui inseriamo i nostri dati personali, comprese quelle attive solo in Rete come i social network. Ma la norma interessa anche e soprattutto noi consumatori, visto che con questo nuovo regolamento UE, tutti i soggetti cui abbiamo comunicato il nostro nome, indirizzo o numero di telefono saranno chiamati a migliorare il modo in cui trattano e conservano i nostri dati personali. Il regolamento introduce, infatti, regole più chiare in materia di informativa e consenso, definisce i limiti al trattamento automatizzato dei dati personali, e stabilisce anche criteri (e sanzioni) rigorosi nei casi di violazione dei dati personali (data breach). Vediamo nello specifico che cosa è cambiato.

Dati a scadenza. Una novità a beneficio dei consumatori è il principio di "retentio". Cosa significa? Quando firmiamo un contratto, i dati che forniamo alle imprese non sono di loro proprietà per sempre. Il regolamento introduce infatti il concetto di scadenza dei dati. "In ogni informativa sulla privacy dovrà essere specificato il tempo entro il quale il dato sensibile andrà trattato, scaduto il quale il trattamento diventerà illegittimo", spiega l'avvocato Carlo Pikler di Rokler Management & Consulting.

Addio al consenso senza specifiche. Con la nuova normativa le aziende dovranno chiedere il consenso non solo all'uso dei nostri dati, ma dovranno specificare anche l'utilizzo che ne faranno, distinguendo, per esempio, se il fine è quello di marketing, di profilazione, di geolocalizzazione, o altro. Ogni tipo di "attività di trattamento" implicherà perciò un consenso specifico che il consumatore sarà chiamato a firmare, mettendo così fine alle informative "cumulative" in cui un'unica firma autorizzava più utilizzi. "In questo modo - precisa il legale - gli utenti non potranno più trovarsi inscritti a cose che non vogliono o a cui non hanno dato lo specifico consenso. È esclusa inoltre ogni forma di consenso tacito a favore delle sole forme esplicite".

Il diritto di conoscere i propri dati. È capitato quasi a tutti: continuiamo a ricevere email o messaggi da servizi che non ricordiamo di aver richiesto e temiamo di avergli fornito anche dati sensibili come il nostro numero di telefono. Finora una situazione come questa poteva essere quasi irrisolvibile. Oggi invece con il nuovo regolamento che sancisce il diritto di accesso, tutti i consumatori potranno rivolgersi alle società chiedendo che gli vengano forniti i dettagli sui dati che hanno comunicato loro, chiedendo anche di chiarire come vengono trattati e come sono stati ottenuti. Le aziende, dal canto loro, saranno soggette all'obbligo di risposta. Ma come farlo concretamente? Secondo Pikler, il modo migliore è "quello di rivolgersi al soggetto inviandogli una comunicazione di cui resta traccia come una raccomandata o una email con posta certificata. Nei casi estremi ci si può anche rivolgere alla Guardia di finanza dove è stato istituito un nucleo ad hoc sui temi privacy".

... e di cancellarli o limitarne il trattamento. Oltre a conoscere i dati forniti, i consumatori potranno anche chiederne la cancellazione o limitarne il trattamento. "Si tratta di un nuovo diritto - aggiunge l'avvocato - offerto ai cittadini e può essere esercitato non solo in caso di violazione dei presupposti di liceità del trattamento, ma anche se il consumatore chiede la rettifica dei dati o si oppone al loro trattamento".

Linguaggio semplice e chiaro. Una delle novità più applaudite del nuovo Regolamento è il fatto che dal 25 maggio le aziende che vogliono detenere e usare i nostri dati dovranno chiedercelo con un linguaggio chiaro e comprensibile, senza vocaboli tecnici o giuridici. Il senso è quello di consentire a tutti di capire l'informativa. Per questo motivo saranno bandite anche le clausole tecniche e quelle scritte in caratteri troppo piccoli. "In pratica le aziende e gli enti pubblici dovranno dimostrare di aver ricevuto un'autorizzazione al trattamento dei dati, in maniera inequivocabile e comprensibile per l'interessato", precisa Pikler.

Più ampio diritto all'oblio. La legge estende anche il campo del cosiddetto diritto all'oblio: la norma che sancisce la possibilità di essere cancellati dalle notizie e anche dai motori di ricerca qualora il motivo che ha reso legittima la pubblicazione di quel dato non sia più di pubblica utilità (come, per esempio, nel caso di una persona che è stata assolta da un'accusa di cui i giornali e le testate online avevano dato notizia). Con il nuovo regolamento questo diritto amplia il proprio significato e si estende anche ai casi in cui un consumatore chiede la cancellazione dei suoi dati personali e quindi la revoca del trattamento concesso per avere un determinato servizio.

Principio di accountability. "Con il nuovo Regolamento viene finalmente definito un principio già riconosciuto dal Garante: quello che prevede che sia responsabilità del possessore dei dati sensibili conservarli in maniera corretta", rivela l'avvocato. Il principio di accountability sancisce perciò che sarà onere dell'azienda o dell'ente che ha i nostri dati dimostrare un "atteggiamento proattivo nella salvaguardia del dato personale dell'utente". Si tratta di una norma che riguarda soprattutto i casi di violazioni (data breach) e che chiama quindi in causa la responsabilità di chi li detiene, e non di chi li ha forniti.

Sanzioni. Una delle più grandi novità del regolamento è quella che riguarda i casi di data breach: le violazioni dei dati, per esempio in caso di attacchi informatici o furti. La norma introduce infatti il diritto per tutti i cittadini, siano essi aziende o persone fisiche, di conoscere la violazione dei dati che le aziende saranno obbligate a comunicare al Garante. Per i trasgressori le sanzioni, applicabili dal 25 maggio 2018, arriveranno fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato.

Più tutele per i minori. Maggiori tutele anche per i minori. "In particolare, per i minori di 16 anni sarà necessaria anche l'autorizzazione del genitore o di chi ne abbia la potestà", conclude Pikler. Una regola, quest'ultima, che varrà anche per i servizi su Internet e per i social media.