martedì 17 novembre 2020

Spillover, quale sarà la prossima pandemia?

...L’ebola stessa è arrivata all’uomo tramite uno spillover da animali selvatici, le cui origini sono da ricondurre all’uso di alcune popolazioni più povere in Africa, che macellano scimmie e altri animali per alimentarsi...

E' PLAUSIBILE IPOTIZZARE CHE L'IMMIGRAZIONE CLANDESTINA PROVENIENTE DALL'AFRICA POSSA ESSERE VEICOLO DI UNA MUTAZIONE DI EBOLA?

Pangolini in vendita in un mercato del Myanmar.

Altro che sciagura improvvisa e inaspettata: dopo Sars e Mers, sapevamo che una nuova pandemia sarebbe arrivata: lo aveva detto chiaramente l’Oms all’inizio del 2018, parlando di una malattia X “causata da un agente patogeno attualmente sconosciuto” come potenziale responsabile di una pandemia. “L’intensità del contatto umano e animale sta crescendo sempre di più con lo sviluppo del mondo, e questo rende più facile l’emergere di nuove malattie”, spiegava il consigliere dell’Oms, Marion Koopmans, “ma anche i viaggi e il commercio moderni rendono molto più probabile la loro diffusione”. Una mutazione biologica (spontanea o meno), aveva avvertito l’Oms, potrebbe diffondersi molto velocemente anche in seguito a un incidente di laboratorio (come ipotizzato da alcuni per il nuovo coronavirus), o per un attacco terroristico, o più probabilmente per “naturale” spillover da una specie all’altra, come sembra sia accaduto con Covid 19, arrivata fino agli esseri umani e poi anche rimbalzata indietro, per esempio, verso i poveri visoni negli allevamenti olandesi). Ma se una nuova pandemia è già in agguato, da dove potrebbe arrivare?

Spillover triplicati in 40 anni

Siamo davvero una specie animale, legata indissolubilmente alle altre”, ha detto David Quammen, autore del saggio del 2013 Spillover, nel quale si preconizza una pandemia e non a caso ripreso in mano da molti oggi, nella sfortunata occasione della pandemia di Covid-19. Lo spillover è il cosiddetto salto di un virus o di un altro patogeno da una specie a un’altra: per il nuovo coronavirus il salto è avvenuto probabilmente dal pipistrello – come anche si pensa nella Sars – o dal pangolino. Ma la storia è costellata di spillover diventati purtroppo famosi: oltre al Sars-Cov-1 e al Sars-Cov-2, c’è il Mers-Cov, responsabile della Mers, il virus dell’influenza aviaria, l’ebola, l’hiv e molti altri, incluso il virus causa del morbillo.

I virologi conoscono bene gli spillover e sanno che non sono così rari come si potrebbe pensare, tanto che prevedere che ci sarebbe stata una pandemia non era molto difficile. Gli animali selvatici sono portatori di circa 750mila virus, secondo i dati del Global Virome Project, che potrebbero essere trasmessi all’essere umano. Negli ultimi 40 anni, inoltre, i salti di specie sarebbero duplicati o addirittura triplicati, come spiega il virologo Dennis Carroll a Nautilus Magazine. E questo è accaduto a causa di vari fattori, fra cui il nostro sconfinamento negli habitat che prima erano esclusivi degli animali. Tanto che Carroll paragona quello che succede con gli spillover a una strada dove macchine impazzite possono investire i pedoni. Per queste ragioni non c’era motivo di pensare che prima o poi non ci sarebbe stato uno scontro – cioè un’epidemia più diffusa o una pandemia come Covid-19. Che peraltro non sarà l’ultima. Ecco quali sono le principali minacce e come dovremmo pensare in futuro per attuare azioni protettive.
Come nasce una pandemia

Da un episodio di spillover a una pandemia il salto non è così breve. “Gli spillover non sono così rari, anche se è difficile conoscere la loro reale incidenza perché moltissimi passano inosservati”, sottolinea Anna Cereseto, ordinario di virologia molecolare al dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata dell’università di Trento. “Prima solitamente avviene un salto del virus fra animali selvatici appartenenti a specie diverse, successivamente il virus può essere trasmesso direttamente all’essere umano oppure, più facilmente, c’è un passaggio intermedio, attraverso il bestiame negli allevamenti”. E ancora, perché si passi da un’epidemia a una pandemia è necessario che il patogeno abbia determinate caratteristiche. “Spesso deve entrare e uscire più volte dalla specie umana a quella animale e viceversa”, chiarisce l’esperta. “Così ha modo di mutare e adattarsi sempre meglio al nuovo ospite, causando via via infezioni meno gravi ma più contagiose e ricorrenti”. Quando dall’essere umano rientra nell’animale accade frequentemente che il virus si ricombini con altri virus. Se sono simili a quelli che circolano nella nostra specie, è maggiormente probabile che nei successivi salti il virus attecchisca meglio e sia più contagioso.

“La maggiore trasmissibilità è associata a una letalità solitamente bassa”, specifica Cereseto. “Se i sintomi sono rilevanti e la mortalità è elevata – nel caso di infezioni in cui il contagio avviene da persona a persona e non è necessaria la presenza di un vettore, come la zanzara – il malato grave non fa neanche in tempo a spostarsi e contagiare altre persone”. Un altro elemento che ha fatto e può fare la differenza riguarda la latenza della malattia. “Nella Covid-19”, aggiunge la virologa, “la comparsa dei sintomi, peraltro spesso molto leggeri e facilmente confondibili con quelli di altre malattie infettive, avviene qualche giorno dopo il contagio e così il virus ha avuto tutto il tempo di diffondersi nella popolazione, cosa che non è avvenuta ad esempio nella Sars, in cui la malattia si manifestava subito”.
L’aviaria fra le prossime minacce

“Attualmente ci sono diversi virus che potrebbero entrare nella specie umana e causare epidemie o pandemie”, ha spiegatoCereseto. “Sotto i riflettori ad esempio c’è H5n7, responsabile dell’influenza aviaria, che è entrato nella nostra specie in più occasioni, in particolare a partire dal 2003 e 2004, nel Sud-Est asiatico e non solo”. Il virus, passato dal pollame all’essere umano, era però molto più letale – la letalità è stata stimata intorno al 35%, cioè circa una persona su tre andava incontro a decesso – e anche per questo contagioso di Covid-19. “Le ‘entrate’ nella nostra specie, cioè gli episodi epidemici, sono stati numerosi, a differenza ad esempio di quanto avvenuto nella Sars, che si è estinta e non è ricomparsa”, sottolinea Cereseto. “Questo elemento supporta l’idea che prima o poi il virus possa ritornare di nuovo e diffondersi maggiormente, anche con una pandemia”. Per non alimentare allarmismi bisogna sottolineare, però, che per far sì che l’aviaria diventi pandemica dovrebbe prima subire vari adattamenti e diventare molto meno letale.
Attenzione anche ai coronavirus

Ma dobbiamo stare attenti anche ai coronavirus. Molto probabilmente nel caso di Sars-Cov-2 lo spillover è avvenuto dal pipistrello, animale che ora più che mai è sotto i riflettori degli scienziati: uno studio su Current Biology ha mostrato che Sars-Cov-2 condivide circa il 96% del genoma di un coronavirus presente nei pipistrelli, Ratg13, e per il 93% quello di un altro coronavirus, sempre dei pipistrelli, Rmyn02. Secondo una ricerca appena pubblicata, poi, il virus potrebbe essersi generato per ricombinazione, nello stesso animale, da un coronavirus di pipistrello e da un altro coronavirus di pangolino. 


“Siamo a conoscenza che i pipistrelli sono dei veri e propri serbatoi, degli incubatori dei coronavirus”, spiega Cereseto, “dato che sono co-infettati con 14 tipi diversi di questa famiglia. In questi animali le ricombinazioni sono frequenti e peraltro loro convivono meglio di noi con questi patogeni, dato che non mostrano una risposta immunitaria eccessiva – che nella Covid-19 è poi la causa della forte infiammazione che nei casi più gravi portare al decesso”. Inoltre i coronavirus entrano facilmente nella specie umana. “Per questo dobbiamo aspettarci altri spillover”, prosegue la virologa, “magari con raffreddori – diversi coronavirus già circolanti causano un semplice raffreddore – oppure malattie più importanti, come è accaduto nel caso di Covid-19 o delle ancora più gravi Sars e Mers”.
Non ci sono solo aviaria e coronavirus

Fra i 750mila virus degli animali che potrebbero fare il salto di specie ne sono anche tanti sconosciuti. E’ quanto avvenuto in passato con l’Hiv, con un salto di specie probabilmente dallo scimpanzé all’essere umano e databile al 1908, secondo Quammen. “Anche ebola ha iniziato ad entrare frequentemente nella nostra specie”, aggiunge Cereseto, “e non è escluso che possa, nel tempo, mutare e ricombinarsi dando luogo a un virus meno letale con una diffusione pandemica”. L’ebola stessa è arrivata all’uomo tramite uno spillover da animali selvatici, le cui origini sono da ricondurre all’uso di alcune popolazioni più povere in Africa, che macellano scimmie e altri animali per alimentarsi.
I cambiamenti climatici possono favorire le epidemie

In generale in futuro le epidemie potrebbero essere più frequenti. “Questo a causa della maggiore interazione fra essere umano e animale causata da vari fattori”, sottolinea Cereseto, “dall’aumento della popolazione globale alla povertà, insieme alla presenza di cambiamenti climatici e ambientali che causano lo spostamento di intere comunità umane e animali, sempre più a contatto fra loro”. Per queste ragioni, prosegue l’esperta, bisognerebbe cominciare a pensare ai cambiamenti climatici come una minaccia non solo per l’ambiente e per il nostro pianeta, ma anche per la nostra salute, ad esempio per comparsa di nuove infezioni virali.
Essere umano e ambiente, un rapporto complicato

L’interazione fra la specie umana e l’ambiente è infatti un elemento centrale: diversi scienziati indicano ad esempio che la deforestazione, la realizzazione di miniere per l’estrazione di minerali o del petrolio e l’urbanizzazione di zone prima abitate da specie selvatiche spesso interferiscono con la fauna locale. Gli esperti della Ecohealth Alliance – organizzazione non governativa che si occupa di proteggere la salute di persone, animali e l’ambiente – hanno analizzato gli eventi di spillover dal 1940 ad ora, come spiega a Nautilus Magazine il virologo Dennis Carrol, e si sono accorti che negli ultimi decenni sono raddoppiati o triplicati rispetto a quanto avveniva circa 40 anni fa. Questo accade perché la popolazione umana è passata da 1 miliardo a 7 miliardi nel giro di 100 anni, con ripercussioni importanti sull’ambiente e sulla gestione degli spazi.“Il singolo migliore predittore di un evento di spillover”, ha spiegato Carrol su Nautilus, “è il cambiamento della destinazione d’uso della terra – più terreno dedicato all’agricoltura e più specificamente all’allevamento”.
Le zone più a rischio

Una mappa in uno studio sul Lancet mostra che le zone più a rischio dell’origine di una futura pandemia sono soprattutto quelle della Cina, dell’estremo oriente e dell’India, seguite poi da quelle dell’Africa sub sahariana e nella parte vicino alla costa nordoccidentale, dell’Europa e dell’America centrale e meridionale, nonché la regione orientale degli Stati Uniti. La mappa è stata realizzata sulla base di un banca dati sulle infezioni emergenti che contiene informazioni a partire dal 1940. “I motivi per cui le regioni asiatiche sono più intaccate”, spiega Cereseto, “sono sia di natura demografica, per l’alta densità della popolazione e per i cambiamenti nella sua distribuzione. Ma sono anche di natura economica, se pensiamo agli allevamenti intensivi – questo ovunque – sociale, legate a usi e tradizioni locali, come la macellazione e la vendita di animali selvatici. In realtà in qualsiasi parte del globo terrestre, e non solo in Asia, ci sono stati nuovi patogeni che in qualche momento hanno messo in pericolo la specie umana”.

Cosa fare per difenderci

“Dovremmo iniziare ad accettare il fatto che da sempre, e anche ora, le infezioni virali possono minacciare la nostra salute, come qualsiasi altra malattia”, sottolinea Cereseto, “e questa consapevolezza potrebbe aiutarci anche a mettere in atto tutte le risorse per proteggerci al meglio”. Le epidemie e le pandemie esistono e sono sempre esistite e non c’è ragione di pensare che nel mondo contemporaneo un virus non possa colpirci contagiando milioni di persone e causando centinaia di migliaia di decessi, come per il Sars-Cov-2. “Oltre a ripensare al nostro impatto sull’ambiente, potremmo migliorare aspetti pratici, come la gestione di una pandemia”, conclude la virologa. “A mio avviso, in molti casi è mancata una buona comunicazione fra ricercatori, come virologi ed epidemiologi, che fin dall’inizio dell’epidemia conoscevano il potenziale rischio pandemico, e le istituzioni e i governi. Questa comunicazione, infatti, avrebbe favorito una risposta e un’adozione ancora più tempestiva di tutte le misure e le strategie che stiamo mettendo in campo adesso e dunque avrebbe permesso di affrontare meglio l’epidemia”.

Come si cura Covid a domicilio?




In caso di malattia lieve, le cure domiciliari per Covid-19 sono essenziali, sia per evitare lo stress del ricovero sia per evitare di pesare troppo sugli ospedali. Ma quali farmaci sono impiegati, oggi per le cure a casa? Quando e come vi può essere la visita del medico?

Con l’occasione del contagio di qualche persona nota, spesso i media hanno usato le espressioni “cure tempestive” o “ricovero per tempo prima di un aggravamento”, che hanno fatto credere al pubblico che alcune cure, fatte precocemente, possano impedire a Covid-19 di peggiorare o, quanto meno, di sviluppare le complicanze che coinvolgono molteplici tessuti e organi e che determinano una prognosi infausta.

Tali terapie, in realtà, non esistono ancora: potrebbero costituire un’eccezione (ma va aggiunto un “forse”, perché non solo sono ignoti gli effetti a distanza, ma non sono nemmeno conclusi gli studi pre-autorizzazione al commercio) i cocktail di anticorpi monoclonali a lunga durata d’azione, d’altronde inarrivabili, se non si abita alla Casa Bianca.

I fattori che influenzano il decorso della malattia

L’infezione da SARS-CoV-2 porta a una malattia la cui presentazione è proteiforme, variando da inapparente a una sintomatologia simile a quella di un raffreddore comune, fino alla polmonite con grave difficoltà respiratoria, potenzialmente fatale. Se le cure “tempestive” non fanno la differenza, quali sono, dunque, i fattori che fanno scivolare un paziente dal crinale della malattia verso la guarigione o il peggioramento? Dai numerosissimi studi condotti in oltre dieci mesi di epidemia, emergono tre ordini di cause, genetiche, metaboliche e anagrafiche, con l’età avanzata che fa da sintesi delle disfunzioni immunitarie, metaboliche e vascolari (importantissima l’ipertensione) accumulate nella vita.

Tra i possibili determinanti genetici di una maggiore suscettibilità all’infezione o di una maggiore virulenza di SARS-CoV-2, ci sono le 32 variabili di codifica di ACE, qualcuna delle quali potrebbe essere importante nel facilitare o meno il legame della proteina spike alla cellula umana (ma non è ancora stata individuata). Anche la risposta infiammatoria dell’ospite al virus, con la maggiore o minore produzione di citochine (fondamentali nello sviluppo delle complicanze), è influenzata forse dall’ambiente, forse dal microbioma, ma certamente dalla genetica dell’ospite, come dimostrato dagli studi dell’Human Functional Genomics Project. L’importanza dei fattori metabolici è resa evidente dalla maggior propensione alla prognosi infausta dei pazienti con diabete e obesità, condizioni le cui vie patogenetiche finiscono comunque per convergere sulle disfunzioni immunitarie e vascolari.

Un recente editoriale scritto dagli infettivologi e immunologi australiani GW. Waterer e J. Rello su Infectious Diseases and Therapy, reca nel titolo (Not one size fit all) la principale esigenza legata al trattamento della Covid-19, ossia un suo confezionamento “su misura”, che tenga conto dello stadio di malattia, di età e assetto metabolico del paziente e del dosaggio più opportuno (efficace/sicuro) del farmaco somministrato: le revisioni della letteratura scientifica finora condotte, invece, valutano una pletora di studi molto eterogenei per quanto riguarda questi parametri e sono perciò di utilità assai incerta nell’indicare un protocollo di cure extra-ospedaliere per la malattia lieve e moderata. L’editoriale australiano invoca un approccio a Covid-19 di tipo “teranostico”, che integri, cioè, l’approfondimento diagnostico con lo specifico intervento terapeutico.

È sicuramente positivo che tutte le idee derivate dalle osservazioni in corso di epidemia siano state condivise a livello internazionale, spesso con lo strumento del preprint; tuttavia, la criticità di gran pare degli studi fin qui pubblicati è che i loro dati incontrollati non provano nessi di causalità. Più grandi sono i numeri, poi, più imprecisa è la definizione dello stadio di malattia e delle eventuali condizioni morbose concomitanti, le cui manifestazioni cliniche e rilevanza possono essere molto eterogenee: “Cosa s’intende per malattia cardiaca cronica, un’ipertensione lieve e ben controllata o una grave cardiomiopatia?”, si chiedono Bernd Sebastian Kamps e Christian Hoffmann nel loro textbook COVID Reference.

Cure domiciliari e livelli di gravità 

Fatta questa necessaria premessa, è comunque indubbio che le cure domiciliari siano essenziali, sia per evitare a pazienti non in situazione di gravità lo stress di un ricovero, sia per evitare agli ospedali di essere sommersi da richieste indiscriminate: il primo triage del paziente con sospetta infezione da SARS-CoV-2 e la valutazione della gravità clinica del caso non dovrebbero essere demandati al pronto soccorso, ma rientrano nei compiti della medicina territoriale e, in particolare, dei medici di famiglia. I medici di medicina generale, peraltro, non sono tenuti a valutare di persona i sintomi sospetti (devono, anzi, evitarlo: per non dimenticare quanti sono morti per contagio, si può consultarne l’elenco sul portale della FNOMCeO, Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri); il giudizio clinico può derivare da un’intervista telefonica o da un videoconsulto.

In caso di reale necessità, una visita può essere effettuata, se sono disponibili i DPI (dispositivi di protezione individuale) imprescindibili: mascherina FFP2/FFP3, tuta, camice monouso, soprascarpe, guanti e visiera. Il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta segnaleranno il caso sospetto Covid-19 all’ATS di competenza attraverso procedure informatiche specifiche e contestualmente ne disporranno l’isolamento fiduciario fino all’ esito del tampone diagnostico. Né la presenza né l’assenza di qualche sintomo o segno sono patognomoniche per Covid-19; tuttavia, si può a buona ragione sospettare un’infezione da SARS-CoV-2 se il quadro sindromico iniziale comprende febbre con andamento continuo o intermittente, tosse secca, astenia, mialgie e artralgie e disturbi gastrointestinali. I sintomi non respiratori possono precedere quelli respiratori e la febbre.

L’OMS ha elaborato i criteri che definiscono (negli adulti e negli adolescenti) quattro livelli di gravità della Covid-19:
malattia lieve, in cui non c’è polmonite o ipossia, la febbre dura poco o manca e sono prevalenti il mal di testa e di gola, la congestione nasale, la tosse e la perdita dell’olfatto. A volte vi sono diarrea, nausea o vomito, spossatezza, mancanza di appetito, modificazioni cutanee specie alle estremità, perdita del gusto e/o dell’olfatto
malattia moderata, in cui vi è la polmonite, sospettata clinicamente e/o confermata dall’imaging, ma senza desaturazione di ossigeno (SpO2 ≥90%, in aria ambiente, a livello del mare); nei bambini, la polmonite è segnalata dalla tachipnea (≥40-60 atti respiratori al minuto)
malattia grave, in cui la polmonite è associata a SpO2 <90%; nei bambini, vi sono colorito bluastro del volto, letargia, convulsioni, difficoltà ad alimentarsi
malattia critica, in cui al distress respiratorio acuto si aggiungono sepsi o shock settico, embolia polmonare, sindrome coronarica acuta, ictus, delirium

I campanelli d’allarme (red flags) che devono indurre a ricoverare subito il paziente sono la febbre alta che non cessa, la difficoltà a respirare (o un valore basso al pulsiossimetro), un dolore o senso di peso al petto, una colorazione blu delle labbra, il racconto di sudore freddo e pelle di colorito screziato, la confusione mentale, la difficoltà ad alzarsi, l’oliguria, il sangue nell’escreato. I pazienti con malattia definibile lieve possono, invece, restare al proprio domicilio, in isolamento per almeno dieci giorni dall’insorgenza dei sintomi, purché assistiti da qualcuno in grado badare alla loro alimentazione e alla sorveglianza di un eventuale peggioramento.

Secondo la SIMGG (Società italiana medici di medicina generale) i criteri per stabilire che un paziente può rimanere al proprio domicilio sono febbre non elevata con tosse, vago malessere generale, rinorrea, mal di gola, ma in assenza di confusione o letargia, ipotensione arteriosa, vomito o diarrea incoercibili e, soprattutto, in assenza di dispnea: è importante il monitoraggio della saturazione periferica di ossigeno di base, accettabile fino al 95% e, dopo sforzo (test del cammino per 6 minuti) fino al 93%. Chi soffre di bronchite cronica può avere valori più bassi, ma non di molto, per non rischiare l’ipossia critica. Nella decisione di tenere il paziente a casa vanno valutati il buon compenso di eventuali patologie sottostanti e l’età: sopra gli 80 anni il ricovero è fortemente raccomandato, mentre, per le età inferiori il giudizio, più che anagrafico, deve essere clinico. La permanenza al domicilio non può prescindere dalla garanzia di una linea di comunicazione diretta con il medico o con un operatore sanitario (infermiere di studio) fino a completa risoluzione del quadro clinico. Le stesse considerazioni valgono per il ritorno a casa dall’ospedale a quadro Covid migliorato o stabilizzato.

Quali farmaci?

I farmaci a disposizione per le cure domiciliari sono quelli che controllano i sintomi come:

la febbre e i dolori diffusi: paracetamolo (max 4 g/dì) e ibuprofene alla dose minima efficace per il minor tempo possibile. Meglio evitare i gastroprotettori cosiddetti inibitori di pompa (PPI) che sembrano facilitare l’infezione con SARS-CoV-2 e peggiorare il decorso della malattia (ma non lo fanno gli H2 antagonisti, come ranitidina ecc.)

la tosse: un cucchiaino di miele (dopo l’anno d‘età) seda la tosse meglio dei farmaci, come hanno dimostrato a Oxford. Il paziente non deve stare sdraiato a lungo supino, sia per non comprimere i polmoni (meglio dormire a pancia sotto) sia per evitare la stasi venosa agli arti inferiori.

il malessere generale: si combatte con un’alimentazione proteica e vitaminica (frutta e verdura) e con un’idratazione adeguata, ma non eccessiva, perché troppi liquidi peggiorano l’ossigenazione.

Vanno areati spesso i locali dove soggiorna. Sono fortemente sconsigliati:
l’aerosolterapia, perché aumenta il rischio di diffusione aerea del virus per nebulizzazione

i cortisonici per via orale (a meno che consigliati in dimissione ospedaliera)

gli antibiotici, se non richiesti da altre condizioni o per proseguire una terapia in corso

La prescrizione empirica di antibiotici contro un’evenienza di sovrainfezioni batteriche può essere considerata nei pazienti >65 anni e in quelli <5. Le terapie per le eventuali patologie croniche sottostanti devono essere proseguite. Per quanto riguarda il trattamento dell’ipertensione arteriosa, alcuni esperti hanno ipotizzato che gli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II, i cosiddetti sartani, possano portare a un iper-espressione di ACE2, il cavallo di Troia del virus, e quindi facilitarne l’ingresso. Poiché i risultati dei vari studi in merito sono contraddittori, dimostrando ora l’ininfluenza sul rischio d’infezione, ora l’aumento del rischio nei più anziani, ora addirittura una diminuzione del rischio infettivo, il NICE (National Institute for Health and Care Excellence), poi seguito da EMA e AIFA, ha finito per raccomandare di non sospendere le terapie con sartani in atto, privilegiando di controllare bene l’ipertensione, che sicuramente espone i pazienti a una forma più grave di Covid-19.

Vale la pena di considerare con maggiore dettaglio tre classi di farmaci che potrebbero essere usati nell’assistenza domiciliare dei casi lievi o moderati oppure in dimissione ospedaliera: sono i cortisonici, gli anticoagulanti e gli antibiotici.

Considerazioni sui cortisonici

Poiché il decorso dell’infezione ha una fase di replicazione virale, seguita dalla fase di risposta infiammatoria del sistema immunitario, è probabile che il beneficio dei corticosteroidi dipenda dalla tempistica del loro impiego e dallo stadio della malattia, oltre che dalla dose somministrata e da eventuali caratteristiche individuali dei pazienti. L’OMS raccomanda con forza la terapia corticosteroidea sistemica con desametasone e idrocortisone a basse dosi negli adulti con malattia grave o critica. L’EMA (European Medicines Agency) in Europa e i NIH (National Institutes of Health) negli Stati Uniti raccomandano l’uso dei corticosteroidi solo ai pazienti in ossigenoterapia. Le dosi consigliate dei vari cortisonici (una volta al giorno per un massimo di 10 giorni) sono 6 mg per desametasone, 32 mg per metilprednisolone, 40 mg per prednisone e 160 mg per idrocortisone: dosaggi più alti prescritti in Cina in epidemie influenzali precedenti erano associati a superinfezioni e aumento della mortalità.

Nello studio randomizzato controllato RECOVERY (Randomised Evaluation of COVid-19 thERapY) è stato escluso un beneficio dei cortisonici nei pazienti che cominciano la terapia prima di aver bisogno di un supplemento di ossigeno e nei pazienti ultrasettantenni. Sulla stessa posizione sono i risultati di uno studio retrospettivo cinese di settembre su quasi 500 pazienti ricoverati con polmonite non grave, senza insufficienza respiratoria: la somministrazione precoce di corticosteroidi si associava a una maggior durata della febbre, della viremia e del ricovero e a un maggior rischio di peggioramento e di necessità di antibiotici. 

Considerazioni sugli anticoagulanti

I ricorrenti focolai di gravi infezioni virali umane (influenza A, MERS, SARS) hanno convinto gli studiosi che la strategia terapeutica diretta contro le proteine virali presenta molti svantaggi, non ultimo dei quali è il rapido sviluppo di varianti virali resistenti (specie nei virus a RNA) e dovrebbe essere sostituita da una strategia diretta a regolare la risposta trombo-infiammatoria dell’ospite.

Due oncoematologi dell’Università di Ankara hanno pubblicato su ScienceDirect un’interessante ipotesi: il legame della proteina spike al recettore ACE2 (enzima di conversione dell’angiontensina) della cellula dell’ospite è solo il primo passo dell’infezione da parte del virus: la fusione con la membrana della cellula infettata ha poi bisogno dell’azione delle proteasi dell’ospite, tra cui vi sono le catepsine, le proteasi cell surface transmembrane protease/serine (TMPRSS), la furina (altamente espressa nei polmoni), la tripsina e il fattore Xa (fattore decimo attivato), che fa parte della cascata della coagulazione. Studi in vitro hanno dimostrato che l’inibizione del fattore Xa può diminuire l’infettività virale: fattore Xa, furina e a catepsina potrebbero, quindi, diventare, il bersaglio della terapia con eparine a basso peso molecolare (LMWH). Pur nella consapevolezza che l’ipotesi deve essere provata in laboratorio e clinicamente, l’urgenza della situazione suggerisce l’uso delle LMWH in terapia intensiva e non intensiva, tutte le volte che il giudizio rischio-benefici lo consenta.

Uno studio italiano delle università di Catania e Verona ha ripreso la valenza antinfiammatoria ed endotelio-protettiva della terapia eparinica, nonché il suo potenziale effetto antivirale, che vanno aggiunti al consueto ruolo antitrombotico nel paziente allettato dalla polmonite, specie se anziano e perciò predisposto alla disfunzione endoteliale e a una carente risposta immunitaria. La correlazione tra infiammazione e coagulazione è stata ampiamente dimostrata: l’interazione tra endotelio, piastrine e leucociti (con il relativo rilascio di citochine) è un elemento cruciale della risposta infiammatoria; nei soggetti con prognosi peggiore si trova in circolo un livello elevato di D-dimero, un prodotto della degradazione della fibrina e sono ormai molti i riscontri autoptici di micro e macrotrombi polmonari e in altri organi. Da tutte queste considerazioni discende il razionale d’uso dell’eparina e dell’analogo sintetico fondaparinux, che inibiscono il fattore decimo attivato.

Secondo un recente studio del San Raffaele di Milano, quando l’infezione da SARS-CoV-2 decorre asintomatica o paucisintomatica, è probabile che la terapia eparinica non sia necessaria; ma quando compaiono i sintomi respiratori, anche in pazienti in isolamento domiciliare, potrebbe essere utile una profilassi con eparina o fondaparinux, purché la funzione renale sia preservata (clearance della creatinine >50 mL/min). Nel caso di un peggioramento respiratorio e di ritrovamento di un D-dimero alto, il dosaggio dovrebbe passare da profilattico a terapeutico o subterapeutico, sempre tenendo a mente il rischio emorragico. Va detto che questi suggerimenti sono dettati dall’esperienza maturata in altri ambiti, dal momento che è impossibile ricavare un’indicazione terapeutica precisa dai dati sull’attuale epidemia, ancora troppo frammentati e inconsistenti.

Lo studio del San Raffaele punta anche l’attenzione sulla condizione dei pazienti che al momento del contagio con SARS-CoV-2 erano già in trattamento anticoagulante orale o in trattamento antiaggregante piastrinico. In questo secondo caso, è la conta piastrinica a guidare il comportamento: l’antiaggregante deve essere dismesso quando i trombociti scendono <25.000/mm3. Per quanto riguarda l’anticoagulazione orale (pazienti con trombosi venosa profonda, fibrillazione atriale, sostituzione valvolare), in caso di Covid-19 lieve essa può essere proseguita, a meno d’instabilità dell’INR o di difficoltà a misurarlo per quarantena o di difficile accesso ai laboratori: in tal caso, meglio passare ai nuovi coagulanti orali o alle eparine a basso peso molecolare. Se la Covid-19 è moderata o grave, il passaggio all’eparina è imperativo.
Considerazioni sugli antibiotici

La pandemia si è innestata in un contesto di ingravescente antibiotico resistenza e i paesi con maggior incidenza di infezione sono gli stessi in cui sono più frequenti le infezioni ospedaliere che non rispondono agli antibiotici. Ciononostante, poiché nel 2009 le infezioni batteriche sovrapposte all’influenza erano state causa di un eccesso di mortalità, nei primi mesi dell’attuale epidemia l’OMS aveva suggerito l’impiego empirico degli antibiotici in caso di polmonite da Covid-19 e, dato il superlavoro dei laboratori ospedalieri che impediva la ricerca dei batteri eventualmente implicati, i medici si sono orientati sugli antibiotici a più ampio spettro.

Di recente, però, è stato notato che nelle polmoniti da SARS-Cov-2 le sovra-infezioni non sono frequenti: questa osservazione ha indirizzato molti centri ospedalieri verso l’astensione dalla prescrizione antibiotica, anche in fase di dimissione dei pazienti dai pronto soccorso: da un sondaggio on line internazionale appena pubblicato sul Journal of Antimicrobial Chemotherapy, emerge che il 29% dei pazienti ricoverati non riceve nessun trattamento antibiotico. Nelle cure domiciliari, soprattutto all’inizio dell’epidemia, i medici hanno dato la preferenza ad azitromicina, che ha uno schema terapeutico che facilità la compliance e che, come e più degli altri macrolidi, ha prove di letteratura di avere effetti, oltre che antibatterici, antinfiammatori e immunomodulanti, attenuando la produzione di citochine proinfiammatorie e promuovendo la produzione di immunoglobuline.

È stata anche ipotizzata una loro diretta attività antivirale, sulla base di prove in vitro, nessuna delle quali, però, con coronavirus. Il profilo di sicurezza di azitromicina (come degli altri macrolidi e dei chinolonici) è stato, però, oggetto di un recente warning di AIFA per la sua interferenza sulla conduzione cardiaca: può causare, infatti, un prolungamento della ripolarizzazione cardiaca (intervallo QT), che può essere contrastato assumendo, insieme all’antibiotico, preparati a base di magnesio e potassio.

LITURGIA DEL GIORNO

La Liturgia di Martedi 17 Novembre 2020

Santa Elisabetta d'Ungheria


Grado della Celebrazione: Memoria
Colore liturgico: Bianco

Antifona d'ingresso
Rallegriamoci tutti nel Signore nel ricordo di santa Elisabetta:
con noi gioiscono gli Angeli e lodano in coro il Figlio di Dio.


Colletta
O Dio, che a sant’Elisabetta hai dato la grazia
di riconoscere e onorare Cristo nei poveri,
concedi anche a noi, per sua intercessione,
di servire con instancabile carità
coloro che si trovano nella sofferenza e nel bisogno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...

PRIMA LETTURA (Ap 3,1-6.14-22)
Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui.


Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo

Io Giovanni, udii il Signore che mi diceva:
«All’angelo della Chiesa che è a Sardi scrivi:
“Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle. Conosco le tue opere; ti si crede vivo, e sei morto. Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato perfette le tue opere davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che tu sappia a che ora io verrò da te. Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi cammineranno con me in vesti bianche, perché ne sono degni. Il vincitore sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”.
All’angelo della Chiesa che è a Laodicèa scrivi:
“Così parla l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio. Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista. Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo. Sii dunque zelante e convèrtiti. Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anche io ho vinto e siedo con il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”».

Parola di Dio

SALMO RESPONSORIALE (Sal 14)
Rit: Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono.

Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.

Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.

Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.

Canto al Vangelo (1Gv 4,10)
Alleluia, alleluia.
Dio ha amato noi e ha mandato il suo Figlio
come vittima di espiazione per i nostri peccati.
Alleluia.

VANGELO (Lc 19,1-10)
Il Figlio dell’uomo era venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.


+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Parola del Signore

Preghiera dei fedeli
La fiducia e la misericordia che vengono da Cristo, danno il coraggio per imboccare la strada impegnativa ma gioiosa della conversione. Al Padre di ogni bontà, diciamo:
Mostraci, Signore, la tua misericordia.

Perché Dio mandi sempre al suo popolo uomini saggi e coraggiosi che sappiano illustrare la dottrina e testimoniare con la coerenza di vita il vangelo di Gesù Cristo. Preghiamo:
Perché il Signore ci preservi dal pericolo dell'indifferenza e della freddezza verso di lui, e ci aiuti a essere attenti nell'ascoltare la sua voce nell'obbedienza della fede. Preghiamo:
Perché l'ateismo non prevalga sulla fede, e la Chiesa esca da questa grave prova che minaccia il nostro tempo, più solida e purificata nella sua fedeltà al Signore. Preghiamo:
Perché coloro che si convertono dopo una vita di peccato, trovino nei cristiani persone che non guardano al loro passato, ma ai miracoli della grazia di Dio. Preghiamo:
Perché la misericordia di Dio, che incontriamo nei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, diventi sorgente di conversione e di riconciliazione con i fratelli. Preghiamo:
Per i sacerdoti e i religiosi che vivono con gli emarginati.
Per un'equa distribuzione dei beni.

Dio, Padre misericordioso, che hai inviato nel mondo il Figlio tuo per riconciliare gli uomini con te, entra nella nostra vita con la forza purificatrice del tuo perdono, e fà che il nostro cammino sia sempre orientato verso di te. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Preghiera sulle offerte
Accetta, o Signore, l'offerta del nostro servizio sacerdotale
nel ricordo di Santa Elisabetta,
e concedi che, liberi dagli affanni
e dagli egoismi del mondo,
diventiamo ricchi di te, unico bene.
Per Cristo nostro Signore.



Antifona di comunione
«Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli,
se vi amerete gli uni gli altri»,
dice il Signore.


Preghiera dopo la comunione
O Padre, che ci hai fatti tuoi commensali,
donaci di imitare l'esempio di santa Elisabetta
che si consacrò a te con tutto il cuore,
e si prodigò instancabilmente per il bene del tuo popolo.
Per Cristo nostro Signore.



Commento
Elisabetta (Ungheria 1207 – Marburg, Germania, 17 novembre 1231), sposa di Luigi IV, Langravio di Turingia, fu madre di tre figli. Dopo la morte del marito si consacrò interamente alla penitenza, alla preghiera e alla carità. Iscrittasi al terz’Ordine Francescano, fondò in onore di san Francesco l’ospedale di Marburg, in cui ella stessa serviva i malati.