giovedì 11 luglio 2019

VINCENT LAMBERT SULLA CROCE. E LA CHIESA TACE, O IN ALTRO AFFACCENDATA.

LA MORTE DI VINCENT LAMBERT SEGNA UNA VITTORIA PER LA MASSONERIA. L'"ULTIMO INNOCENTE" SACRIFICATO PRIMA DELL'IRA DIVINA....


Ricordate quel vecchio film con una giovanissima Demi Moore che salvava il mondo prima della fine? L'ira divina si scatenò appena dopo il sacrificio dell'"ultimo innocente", un ragazzo disabile condannato alla pena di morte che segna la fine dell'umanità, intesa come qualità intrinseca di ogni essere umano ad immagine e somiglianza di Dio. La fine della pietà umana e di ogni etica morale e sociale. Insomma, la morte dell'amore.... 



Guardiamo alla morte di Vincent con gli occhi della fede: un innocente crocifisso. Intorno a lui due genitori dolenti come Maria ai piedi del Golgota. Forti come lei (“troppo cattolici quei due”, hanno detto i massoni e i laicisti francesi). E Vincent che viene dichiarato colpevole: deve morire! Di fame e di sete.

Ancora una volta, verrebbe da esclamare: il male ha vinto e il Bene ha perso!

Anche Alfie e Charlie, Cristi innocenti, sono stati eliminati dalla perfidia di Erode, di Anna e Caifa, del potere!

Epperò guardiamo meglio, e vediamo che Dio, nella sua misteriosa sapienza, ha scelto “bene”: questi tre condannati avevano genitori straordinari, di un’ umanità e di una fede, che oggi sono rari come l’oro.

Hanno perso, Alfie, Charlie, Lambert… sì, esattamente come Cristo crocifisso! Ma come lui ha salvato il mondo, così loro ha scosso l’apatia, il relativismo, il nichilismo del mondo. Sono stati richiamo e testimonianza per milioni di persone. Perché Cristo vince soccombendo.

Ma dov’era la Sinagoga quando Gesù veniva ucciso? Nascosta, o complice dell’omicidio. E la Chiesa ufficiale, la gerarchia bergogliana, nei tre casi citati?

A parte qualche micro riferimento tardivo, imposto dal basso, l’uomo che quando vuole dire qualcosa diventa ossessivo, ripetitivo sino alla nausea, ha taciuto.

Nascosto e complice, come la Sinagoga. Impegnato a santificare Carola, atea ed ambientalista, per sua stessa dichiarazione, Carola invasata di un umanitarismo che si rovescia nel suo contrario, come quello di Marx e dei suoi seguaci.

Tra i genitori di Alfie, Charlie e Lambert, da una parte, e Carola, dall’altra, Bergoglio ha scelto quest’ultima: assomiglia troppo, con qualche anno di meno, ad altre due donne da lui stimate ed elogiate, entrambe atee convinte: Emma Bonino e Valeria Fedeli.

Ma torniamo agli eroi, e dimentichiamoci i Anna, Caifa, Giuda e tutti costoro: le lacrime sparse, la solitudine che hanno provato (che strazio per un cattolico non sentire la voce misericordiosa della santa Madre Chiesa nel momento del lutto), diventino rugiada vivificante per la Chiesa di Cristo, in questa tenebrosissima notte, dove le luci non mancano del tutto, anche se non vengono più, per ora, da dove dovrebbero.

SCIENTOLOGY: una setta inquietante e pericolosa







Il divorzio di Katie Holmes da Tom Cruise è chiaramente una notizia di cronaca rosa. Tuttavia, si tratta di gossip che offre l’occasione per parlare di Scientology, la setta religioso-filosofica di cui i due attori fanno parte e che tanto va di moda in certi ambienti cinematografici statunitensi e non solo. Probabilmente ora, con il divorzio, Katie Holmes sarà identificata come “S.P.”, acronimo di “soppressive people”, la dicitura che la chiesa di Scientology usa per definire i fuoriusciti. Una volta che il soggetto viene siglato in questo modo, non potrà più avere contatti con gli altri membri dell’organizzazione, né parlare delle dinamiche interne a essa. Ma come funziona Scientology e perché tale setta è tanto inquietante?

Innanzi tutto bisogna considerare che il fedele affiliato deve firmare un contratto per un miliardo di anni. Una fedeltà che passa così da una vita all’altra, dato che il fondatore Ron Hubbard era convinto dell’esistenza di vite precedenti e successive, che lui solo con i suoi metodi è stato in grado di provare, in quanto illuminato e conoscitore di Xenu, il governatore supremo della galassia che portò sulla Terra 75 milioni di anni fa qualche miliardo di alieni. Come si può notare, più che di religione, sembra trattarsi di fantascienza. Ron Hubbard era in effetti uno scrittore di romanzi ambientati nello spazio. Solo in seguito avrebbe trovato dentro di sé il metodo per curare le persone dalle proprie psicosi e in particolare dalle tossicodipendenze. Ma Scientology non è affatto un’associazione filantropica e caritatevole.

I fuoriusciti che hanno avuto il coraggio di raccontare la propria esperienza parlano della famigerata “Sea Org”, la struttura a cui si affidano e in cui lavorano gli adepti, come di qualcosa impostato con un’educazione di tipo militare. Una volta entrati in questa scuola di formazione, c’è solo spazio per lavorare, a tutte le età e a tutte le ore, e il tempo per le attività personali è praticamente assente, così come quello con i familiari, che in caso di condotta negativa dell’adepto, vengono tassativamente esclusi. Per questo le fondatrici dell’ “Ex Scientology Kids”, i bambini appartenuti alla presunta chiesa, tra cui la figlia dell’attuale leader di Scientology David Miscavige, hanno voluto fondare un forum in cui tutti gli ex bambini allontanati (“disconnessi”, secondo la terminologia dell’organizzazione) dalla propria famiglia potessero raccontare le loro storie. Astra per esempio racconta di essere scappata quando rimase incinta a 16 anni e le chiesero di abortire perché una gravidanza avrebbe compromesso il suo lavoro alla “Sea Org”.

La massima esperta tedesca di Scientology è Ursula Cabert, che ad Amburgo ha guidato la commissione incaricata di studiare il funzionamento del culto. “Di solito, Scientology cerca di far tacere i membri in uscita, facendo pressione perché non rivelino nulla dell’associazione”, ha dichiarato la Cabert. Per quel che riguarda i bambini, poi, viene loro insegnato che “il mondo è pericoloso e per questo negli Usa sono mandati in scuole apposite, totalmente separate dalla realtà quotidiana vissuta da tutti gli altri coetanei. Il sistema li separa dai genitori e si prende cura della loro educazione”.

Secondo la studiosa, autrice di “Scientology, il libro nero”, l’organizzazione è sospettata di praticare una forma di “lavaggio del cervello, contraria ai principi costituzionali, totalitaria e che porta le persone all’infelicità”. Una realtà inquietante, insomma, e verso cui si dovrebbero prendere seri provvedimenti, anche perché se è vero che i servizi segreti tendono a ridurne il numero, pare che circa dieci milioni di persone ne facciano parte. (Federico Catani).

Limoni dei supermercati lucidi e perfetti, non fidatevi! La buccia non è edibile

scorza-non-edibile

A QUANDO UNA LEGGE CHE OBBLIGA I SUPERMERCATI ITALIANI A RIFORNIRSI SOLO DA AZIENDE ITALIANE A "CHILOMETRO 0"? IN ITALIA SONO PRESENTI ANCHE MARCHI STRANIERI CHE VENDONO PRODOTTI ESTERI, MA ALMENO GLI ITALIANI SARANNO LIBERI DI SCEGLIERE SE AIUTARE L'ECONOMIA ITALIANA O QUELLA STRANIERA, O SE METTERE A RISCHIO LA PROPRIA SALUTE. INTANTO, I NOSTRI BUONI AGRUMI MARCISCONO INVENDUTI!!!!

Purtroppo chi fa la spesa al supermercato si sarà trovato di fronte a questo problema diverse volte. Sul banco di frutta e verdura si trovano spesso (troppo spesso) limoni provenienti dall’estero che, tra l’altro, hanno bucce non edibili. Ma perché non ci sono invece quelli italiani (siciliani ad esempio)?

L’argomento limoni trattati (con buccia non edibile) e provenienti da altri paesi (in questo caso dalla Spagna) è tornato alla ribalta poco tempo fa grazie ad una pagina Facebook che ha mostrato la foto di alcuni limoni trovati al supermercato. E questo è solo uno dei tanti esempi di ciò che ci viene proposto quotidianamente…

Si legge chiaramente la scritta “buccia non edibile” e la provenienza: Spagna! La cosa lascia ovviamente basiti per diversi motivi.

Innanzitutto è probabile che non proprio tutte le persone che frequentano il supermercato conoscano il significato della parola “edibile” ossia commestibile. Con questa dicitura viene dunque segnalato che la buccia di questi limoni non può essere utilizzata in cucina (neppure se ben lavata) ad esempio per aromatizzare dolci o pietanze salate. Ma se uno non ci fa caso o non lo sa è probabile invece che la utilizzi anche in questo modo, con tutti i possibili rischi per la salute.

La buccia di questi limoni è infatti trattata con prodotti chimici vari che assolutamente non devono essere consumati. Un trattamento, generalmente antimuffa e antifungino ma anche estetico, per migliorare l’aspetto del limone rendendolo più accattivante agli occhi di chi lo deve acquistare. Limoni bellissimi, dunque, ma pieni di schifezze sopra la buccia (che in teoria non dovrebbero riuscire a penetrare nel frutto).

C’è da dire poi che la scorza del limone è ricca di proprietà e non utilizzarla, perché si è acquistato limoni trattati, è un vero peccato.

L’altro punto critico è la provenienza. Ma possibile che in Italia abbiamo bisogno di importare limoni dall’estero quando regioni come Sicilia e Campania ne hanno in abbondanza?

Le logiche della grande distribuzione sono spesso molto differenti dalle nostre e, anche se assurdo, potrebbe essere più conveniente acquistare limoni trattati dalla Spagna piuttosto che prendere quelli siciliani nati e cresciuti senza bisogno di alcunché e lasciati magari a marcire sugli alberi o a terra.

Questa logica ovviamente non ci piace affatto e rimane sempre valido il consiglio di leggere ogni volta con attenzione le etichette oltre che prediligere frutta e verdura biologica, italiana e a km0.

Insieme possiamo fare la differenza e magari col tempo potremmo riuscire a non vedere più in circolazione prodotti del genere.


Il grande potere liberatore della Medaglia di San Benedetto




Per chi non conosce la Medaglia di San Benedetto, è un sacramentale riconosciuto dalla Chiesa cattolica con grande potere di esorcismo e di liberazione dalle influenze demoniache. Come ogni sacramentale, il suo potere non risiede nel fatto che sia una medaglia bella e benedetta e contenga una preghiera incisa. Non cadiamo in questa superstizione!

Il suo potere risiede in Cristo stesso, che lo concede alla Chiesa attraverso la fervente disposizione di chi usa la medaglia. Agisci con fede! Ricordate l’emorroissa che pensava che solo toccando il mantello di Gesù sarebbe guarita? E che mi dite delle persone che venivano guarite ed esorcizzate attraverso panni o teli che erano stati a contatto con San Paolo?


“Dio intanto operava prodigi non comuni per opera di Paolo, al punto che si mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano” (Atti 19,12)


Ricordiamo il potere che Cristo ha lasciato ai suoi apostoli: “Tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” (Matteo 18,18). È un potere che Cristo ha conferito alla sua Chiesa perché tutto ciò che si decreti in favore del riscatto delle anime venga riconosciuto da Cristo come un’opera buona.




Analizzando la medaglia

Hai mai guardato questa medaglia, e ti sei chiesto cosa significavano tutte quelle iscrizioni? Ok, cominciamo:

La fronte e il retro sono coperti di lettere che non sembrano avere alcun senso. In realtà il significato completo di questa medaglia è rimasto un mistero per molti anni, fin quando nel 1647 è stata effettuata un’importante scoperta nell’abbazia di Metten, in Baviera. È stato infatti ritrovato un manoscritto del 1415 che spiega la simbologia inscritta nella medaglia.

Decifrando il significato della medaglia

Fronte: San Benedetto appare al centro della medaglia. Nella mano destra tiene una croce, che rappresenta il potere salvatore di Cristo e l’opera di evangelizzazione dei benedettini nel corso dei secoli.

Alla sua destra c’è una tazza rotta. Si diceva che questa coppa fosse stata avvelenata da alcuni monaci ribelli che non si trovavano bene con San Benedetto. La coppa si ruppe quando San Benedetto fece un segno della croce su di essa. Alla sua sinistra c’è un corvo, che ha una pagnotta avvelenata che i monaci hanno cercato di dare a San Benedetto.

Sopra la testa ci sono queste parole: Crux Sancti Patris Benedicti (Croce del Santo Padre Benedetto). Intorno al bordo ci sono le parole Ejus en obitu nostro praesentia muniamus (Che nella nostra morte siamo rafforzati dalla sua presenza). Sotto i suoi piedi ci sono le lettere EX SM CASINO MDCCCLXX (Dal santo Monte Cassino, 1880).

Retro: La parte posteriore della medaglia è dominata da una grande croce. 

In ciascuno dei quattro lati della croce: 

C. S. P. B. (Crux Sancti Patris Benedicti): “Croce del Santo Padre Benedetto” 


Nella linea verticale della croce: 


C. S. S. M. L. (Crux Sacra Sit Mihi Lux): “La Santa Croce sia la mia luce” 


Nella linea orizzontale della croce: 


N. D. S. M. D. (Non Draco Sit Mihi Dux): “Il demonio non sia la mia guida” 


Iniziando dalla parte superiore, in senso orario, e intorno al bordo appaiono le iniziali della preghiera di esorcismo: 
V. R. S. (Vade Retro Satana): “Allontanati Satana” 
N. S. M. V. (Non Suade Mihi Vana): “Non suggerirmi vanità” 
S. M. Q. L. (Sunt Mala Quae Libas): “Quelle che offri sono cose negative” 
I. V. B. (Ipse Venena Bibas): “Bevi tu stesso il tuo veleno” 
PAX: Pace 


Si recita così: “La Santa Croce sia la mia luce, e il Demonio non sia la mia guida. Allontanati, Satana. Non suggerirmi vanità. Quelle che offri sono cose negative. Bevi tu stesso il tuo veleno. Pace”.


Indulgenze e benedizioni speciali

La Medaglia in sé, come abbiamo già detto, non ha potere. Chi la porta deve fare attenzione a non cadere in atti di superstizione. La Medaglia è semplicemente un segno visibile della devozione interiore e della fiducia che il fedele ha in Gesù e nel suo servo, San Benedetto. “Agisci per fede!”


La Medaglia include un’indulgenza incondizionata per qualsiasi persona al momento della morte che “usi, baci o tenga la Medaglia tra le mani con venerazione”. Si concede anche se la persona affida la propria anima a Dio, fa una buona confessione o riceve la Santa Comunione. Se la persona non può farlo, può invocare con le labbra il Santo Nome di Gesù con profondo senso di contrizione, o con il cuore se la persona non può parlare.


Indulgenze plenarie: Se la persona si confessa, riceve l’Eucaristia, prega per il Santo Padre nelle grandi feste e durante quella settimana recita il Santo Rosario, visita i malati, aiuta i poveri, insegna la fede ai bambini o partecipa alla Santa Messa, può ricevere questa indulgenza. Le grandi feste sono Natale, Epifania, Pasqua di Resurrezione, Ascensione, Pentecoste, Santissima Trinità, Corpus Domini, Assunzione, Immacolata Concezione, nascita di Maria, Tutti i Santi e festa di San Benedetto.


Non è perché alcuni non conoscono questo sacramentale e non praticano la sua devozione che non ha potere. Ricordiamo che Cristo stesso ha conferito il potere attraverso il suo mandato in Matteo 18, 18.

Dio vi benedica


Qriswell J. Quero

OGGI 11 LUGLIO SAN BENEDETTO ABATE PATRONO D'EUROPA

L'ATTUALITÀ DELLA REGOLA DI S. BENEDETTO

Risultati immagini per san benedetto e la medaglia

L'idea benedettina dell'uomo e la sua attualità
Estratto dal libro "La vita quotidiana secondo San Benedetto" di Léo Moulin, edizioni Jaca Book

1. Come Benedetto vede gli uomini
Quanto finora ho detto è stato il più delle volte scritto all'imperfetto: questo perché la vita quotidiana dei monaci nel Medioevo mi è più familiare. Non se ne deve però dedurre che la vita che essi conducono oggi è radicalmente diversa né, soprattutto, che essa è solamente un anacronismo o una sopravvivenza. Le poche pagine che seguono vogliono appunto dimostrarlo.
Basta vivere qualche giorno in alcune abbazie benedettine per convincersi che i ritmi e i riti, gli usi e i costumi della vita monastica moderna sono rimasti in generale simili a quelli conosciuti dai predecessori dei monaci di oggi.
Una lettura moderna della regola può convincerci che il grande progetto nato dal genio di San Benedetto, padre dell'Europa (Pio XII, 18 settembre 1947), "messaggero di pace, artigiano di unità, maestro di civilizzazione" (Paolo VI, 24 ottobre 1964) è sempre presente, ed è vigorosamente valido oggi quanto nei secoli scorsi.
E' un fatto: San Benedetto non nutre alcuna illusione a proposito dei suoi monaci, a maggior ragione degli uomini in generale. Egli conosce per esperienza la loro doppiezza, vulnerabilità, fragilità radicale, la loro tendenza alla pigrizia e al lasciar correre, la loro profonda cattiveria. Sono dei vizi "congeniti alla natura umana", dice Molière, e i monaci non ne sono esenti. Non c'è quasi pagina della regola che non sottolinei, in un modo o nell'altro, questi limiti e queste debolezze: "noi, rilassati, pieni di difetti e trascurati" (c. 73,17-19), "tiepidi e parassiti" (c. 18,74), "Se qualche fratello è trovato ribelle" (c. 23), "se un fratello spesso è ripreso per qualche difetto..." (c. 28), ancora: "se un fratello arriva in ritardo all'opera di Dio.." (c. 43), "se un fratello si accompagna senza permesso agli scomunicati.." (c. 26), e così di seguito. Ripeto: non c'è, per così dire, pagina della regola dove non appaia la coscienza che il patriarca ha della debolezza intrinseca dell'uomo e della sua vulnerabilità. Ha appena detto, per esempio, quali devono essere le qualità dei cellerario (c. 31) - "saggio, maturo, di carattere sobrio, timoroso di Dio, eccetera" - , che si affretta a sottolineare i difetti che egli non deve avere: non mangione, non arrogante, non testa calda, non insolente, non indolente, non prodigo (c. 31,4-24), e così via. A prima vista la cosa sembra così ovvia che non si immagina un padrone nell'atto di assumere un contabile pronto a raccomandargli di non attingere alla cassa.
San Benedetto nutre così poche illusioni sugli uomini che egli prova il bisogno di dire ciò che essi non devono fare o essere.
Se ne vuole un altro esempio? Lo prendo dal capitolo 36 dal titolo De infirmis fratribus. Dopo aver raccomandato i malati alla benevolenza e allo zelo di coloro che li curano, ante omnia et super omnia (c. 36,1), Benedetto aggiunge che, a loro volta, i malati non dovranno "contristare, con le loro esigenze superflue (superfluitate), i fratelli che li curano" (c. 36,5-8).
Ancora un altro esempio: si tratta questa volta di coloro che ad Opus Dei... tarde occurrunt (c. 43). Il monaco arrivato in ritardo non occuperà il suo posto in coro; starà in disparte, all'ultimo posto, di modo che sia visto dall'abate e da tutti i fratelli nella speranza che l'umiliazione lo correggerà (pro ipsa verecundia, c. 43,17). Tutto questo rivela una eccellente pedagogia. Ma dove si rivela il genio di San Benedetto è quando egli spiega (c. 43,18-22) il motivo per cui non esclude i ritardatari: perché, egli scrive, "rimanendo fuori dall'oratorio, ci sarebbe probabilmente qualcuno che se ne tornerebbe a letto a dormire o almeno se ne starebbe comodamente seduto fuori, oppure si metterebbe a chiacchierare".
Il minimo che si possa dire è che San Benedetto non si fa affatto illusioni sullo zelo spontaneo dei suoi fratelli nel celebrare l'Opus Dei.
Si vuole un'ultima illustrazione dei modo di vedere coloro che pure aspirano a una vita di perfezione? Si tratta di un'annotazione molto breve di San Benedetto nel capitolo De hospitibus suscipiendis. Il patriarca raccomanda di ricevere i poveri e i pellegrini tamquam Christus (c. 53,11), cioè con il massimo di riguardo perché in ipsis magis Christus suscipitur (c. 53,31-33), quanto ai ricchi invece il timore che essi ispirano è sufficiente ad assicurare loro un trattamento onorevole, nam divitum terror ipse sibi exigit honorem.
Per il Patriarca, uomo del concreto, uomo del possibile e quindi uomo di governo, gli uomini non sono né naturalmente buoni, né naturalmente ragionevoli, né naturalmente dotati di fermezza. Grande lezione di saggezza politica: non si edifica una società giusta e duratura come l'ordine benedettino su una concezione ottimistica dell'uomo.
Questa visione realistica non suscita tuttavia in lui né rigido disprezzo, né animosità. San Benedetto è un maestro esigente: egli non ha niente a che vedere con il puritano cupo e rinsecchito, "dallo zelo cattivo e amaro" (c. 73,1).
Nella regola non si trova alcuna traccia dell'impietosa durezza, della lucidità gioiosamente crudele, dell'allegria intellettualmente cattiva che costituiscono il genio di Machiavelli: "Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno... E gli uomini hanno meno respetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere". Avrete certamente conosciuto il tono (Principe, c. XVII). E' per questo che è preferibile essere temuti che amati. San Benedetto invece si sforza di essere amato anziché temuto (c. 64,73).
Benedetto, così duro con se stesso, si rivolge in effetti ai suoi monaci come "un tenero padre" (Prol. 3), come un medico delle anime (c. 28,8), un pastore attento a tutto ciò che riguarda coloro che egli ha il dovere di governare (c. 4), come un uomo che "odia i vizi ma ama gli uomini" (c. 64,28) e che "sempre antepone la misericordia alla giustizia" (c. 64,27).
Egli è indulgente e lo è precisamente perché sa che l'uomo è, per natura, debole e cattivo. "I disegni dei cuore dell'uomo sono cattivi fin dall'infanzia" (Gn 8,21). E' per questo che Benedetto perdona così volentieri (contrariamente a coloro che hanno una visione ottimistica della vita).

2. Necessità delle istituzioni

Senza voler assolutamente ridurre la prodigiosa avventura benedettina alle sue sole dimensioni umane, può essere interessante, e fecondo, domandarsi se e in quale misura taluni aspetti puramente funzionali e istituzionali dell'organizzazione benedettina possano spiegare il suo enorme e duplice successo; quindi, superata questa prima tappa, se e in quale misura, il pensiero dei fondatore, la sua visione dei mondo, la sua percezione dell'uomo, in quel che hanno di più semplicemente e strettamente umano, spieghino il successo e la perennità della sua azione. L'approccio è rischioso, non si può negarlo, trattandosi di un uomo come San Benedetto, la cui caratteristica prima è un'estrema religiosità; ma vale la pena, mi sembra, di tentarlo, se non altro nel senso di un rilettura moderna della Regola.
Perché, accanto a quell'intensa vita spirituale che fa vibrare uomini della statura di Benedetto da Norcia o di Bernardo di Chiaravalle, o, più esattamente, nel seno stesso di questa vita spirituale, a proteggerla, a organizzarla, a favorirla anche, e insieme a nutrirsene, troviamo -per forza dì cose, giacché si tratta di "governare gli uomini" e di "amministrare le cose"- delle strutture e un'organizzazione costituzionali che si collocano, si voglia o no, su di un piano puramente umano.
Facciamo un esempio, che servirà a chiarire quanto abbiamo detto. Parlando dell'elezione dell'Abate, Benedetto non scrive: E' evidente che Dio non permetterà mai che la comunità intera elegga una persona complice della sua sregolatezza.; forte della sua esperienza, scrive invece: "Se, per disgrazia (quod quidem absit)capitasse che la comunità intera, di comune accordo, eleggesse una persona complice della sua sregolatezza".... Su di un piano strettamente umano la cosa è possibile; dunque, Benedetto accetta la possibilità di una comunità depravata al punto di scegliere, coscientemente, un capo indegno.
Di fronte a un simile scandalo, Benedetto non prevede affatto l'intervento di un Dio corrucciato, si rimette invece al vescovo della diocesi, agli abati e ai cristiani dei dintorni, cioè a un intervento puramente umano, per riportare l'ordine.
Val la pena di ricordare un particolare, che rappresenta uno degli apporti fondamentali della civiltà monastica nel Medioevo: molto prima dei Comuni italiani e fiamminghi, e in modo ben altrimenti perfezionato rispetto ai Romani, la Chiesa, e in particolare gli ordini religiosi, hanno messo a punto le condizioni di un regime di diritto infinitamente meno sacralizzato di quanto non sarà l'ideologia democratica dei 1789, nel quale nessun potere assoluto, Assembleare o Superiore, può essere legalmente esercitato, certe forme di obiezioni di coscienza. sono riconosciute e un codice elettorale e deliberativo complesso e minuzioso assicura (in linea di principio!) un funzionamento pacifico e regolare (Il primo codice elettorale è quello di Lorenzo di Somercote: risale al 1254). Ancora, è previsto che l'organizzazione delle elezioni e delle deliberazioni si attenga a un livello del tutto "terreno" (per evitare le frodi, le pressioni, gli intrighi ... ). Concluse le preghiere e la messa che la precedono, la scelta dell'Abate è collocata su di un piano assolutamente secolarizzato.
Come abbiamo visto, Benedetto vede gli uomini, siano pure i suoi fratelli, così come sono, lucidamente, senza la minima illusione. Partendo da questa constatazione, mi sono dedicato a una rilettura della Regola, mettendomi nello stato d'animo di un uomo del nostro tempo, del capo di un'impresa ad esempio, che si domanda che cosa un documento tanto antico può ancora dargli.
Da un tale punto di vista, la rilettura di questo documento di non più di novemila parole, si è rivelata di una ricchezza insospettata e, soprattutto, di una sorprendente attualità. In tutta la Regola, praticamente ad ogni pagina, Benedetto parla degli "agitati", dei "ribelli", dei "cattivi", dei "caparbi", "degli orgogliosi", dei fratelli con scarsi meriti intellettuali o religiosi, che, insieme -comunque!- ai "dolci", ai "pazienti", agli "obbedienti", formano il "gregge turbolento e indocile" (c. 2,19), affidato alla sollecitudine pastorale dell'Abate. E, aggiunge, talvolta invano (ma è l'Abate che dovrà renderne conto a Dio).
Benedetto parla anche del priore, che può essere animato da un "cattivo spirito d'orgoglio", dei decani che "si gonfiano di superbia" (c. 21,12), dei monaci estranei all'abbazia, che rischiano "di turbare il monastero con le loro vane esigenze", dei preti ordinati che devono guardarsi dall'"alterigia" (elationem) e dall'"orgoglio" (superbiam) e così di seguito.
Che i malati non stanchino, scrive, "con le loro esigenze superflue" coloro che li curano. Benedetto conosce gli uomini. Che i poveri e i pellegrini siano bene accolti: "quanto ai ricchi... la paura del loro biasimo induce dì per sé a onorarli". Una constatazione fin troppo vera, senza dubbio, ma che non fa certo onore al Padre ospitaliere, non si può negarlo. Stiamo bene attenti: Benedetto non dice: "Il Frate ospitaliere si comporterà certamente in questo modo", si limita a notare che potrebbe farlo. Senza illusioni.
Lo stesso Abate, come tutti quelli che esercitano il potere, o un frammento di potere, dev'essere ben consapevole di correre il rischio di essere lui pure consumato dalla "fiamma dell'invidia e della gelosia", o animato da un "eccesso di zelo pieno di acrimonia"; deve conoscere la sua, "fragilità", le sue debolezze e i suoi limiti, e sapere che, correggendo le debolezze dei suoi fratelli, in realtà si trova ad affrontare i suoi stessi difetti (ipse efficitur a vitiis emendatus c. 2; 112). Si ricordi soprattutto che non gode di un potere arbitrario (quasi libera ... potestate, c. 63,6).
E' sufficiente, d'altronde, dare una scorsa alle relazioni dei visitatori di Cluny o di Cîteaux per convincersi che questo pessimismo della percezione benedettina è lungi dall'essere eccessivo o ingiustificato: non c'è vizio o delitto, a volte addirittura crimine, che non vi compaia. A ben guardare, ne viene fuori l'immagine di una società monastica piuttosto simile alla nostra, con questa differenza -e non è da poco: la percentuale dei peccatori è, comunque, meno elevata e questi sono, il più delle volte, pentiti.
Ecco, in soldoni, come Benedetto vede i suoi fratelli (e, a fortiori, gli altri uomini): la loro debolezza è radicale. In loro il male, la tentazione del male, ha la meglio sul bene; l'inclinazione naturale a lasciarsi andare è più forte della loro volontà di agire bene.
Di qui, naturalmente, l'assoluta necessità di una guida, una regola, un codice, di leggi o di istituzioni, che sopperiscano alla sostanziale fragilità della natura umana.
Benedetto denuncia violentemente (c. 1) quei giovani "isolati o a piccoli gruppi", "senza un capo", che errano "per tutta la loro vita", "sempre in strada, mai tranquilli", "asserviti solo al proprio capriccio", che hanno come unica "legge il soddisfacimento dei loro desideri", cioè del piacere più immediato e decidono "d'autorità" quello che (secondo loro) è permesso e quello che non lo è, ciò che è bene e ciò che è male. Conosciamo l'antifona.
Tentativi di questo genere sono destinati all'insuccesso, la storia l'ha confermato più di una volta (la tentazione anarchica. è vecchia quanto il mondo e l'esistenza delle "libere comunità di base" e dei drappelli "senza Dio né capo", tenuti insieme dal solo amore umano, è di tutti i tempi).
Ma, dirà qualcuno, e gli eremiti? Gli eremiti non vivono anch'essi "senza capi", "soli o in piccoli gruppi"? Benedetto stesso non ha cominciato la sua vita con lunghi anni di eremitaggio? Che ne pensa lui, che ha messo insieme l'esperienza della solitudine più totale con quella della vita comunitaria? Egli stesso ci risponde, nel primo capitolo della sua Regola: ci sono dapprima, e soprattutto, "i cenobiti, quelli che vivono in comunità in un monastero e militano (militans) sotto una Regola o un Abate", dunque nel quadro delle istituzioni anteriori ed esterne ai monaci.
Seguono gli anacoreti o eremiti, che non sono dei novellini: non ci si improvvisa eremiti, sotto la spinta del "semplice fervore dell'esordio nella vita religiosa". Sono, al contrario, degli uomini "formati da una lunga prova", vissuta nel monastero, nel seno della "milizia fraterna" dei loro fratelli, degli uomini "ben esercitati", trascinati alla battaglia solitaria del deserto. che, "sicuri di loro stessi, possono condurre la lotta" contro i vizi della carne e dello spirito, "senza l'aiuto di nessuno", ma Deo auxiliante, "con l'aiuto di Dio".
Prova terribile, avventura pericolosa, riservata soltanto a pochi, nella quale non è consigliabile arrischiarsi, senza essersi sottoposti, prima di tutto, ad un lungo e duro processo di socializzazione, che permette di interiorizzare le strutture e lo spirito della vita monastica, in modo che l'anacoreta non cessi di appoggiarsi alle istituzioni che la solitudine sembra aver cancellato. Mutatis mutandis, è, vissuta su di un piano religioso, e volontariamente, l'avventura di Robinson Crusoe, il più solitario e il più socializzato degli uomini, che trionfa sulle insidie e sui pericoli della solitudine perché, naufrago miserabile, è stato plasmato al cento per cento dalla società stessa, per poter fare a meno di lei. In un certo senso e provvisoriamente.

3. "Conoscere gli uomini e amarli lo stesso"
(Leone Tolstoj)

Benedetto dunque conosce gli uomini, le loro debolezze e i loro limiti. Non nutre alcuna illusione a loro riguardo. Tuttavia, ed è questo che lo distingue da un Machiavelli, ad esempio, o da un Hobbes, la sua visione disincantata e realistica non lo induce a pensare che i figli di Adamo siano irrimediabilmente perduti e che non ci sia nulla da fare o da sperare. In Benedetto non c'è traccia di disprezzo o acredine, non c'è ombra dello "zelo tetro e amaro" (c. 73,1), che anima tanti puritani o idealisti che vogliono fare la felicità della gente suo malgrado.
Benedetto ama gli uomini per quello che sono, e specialmente i deboli, i malati, i vecchi, i poveri, i giovani, i peccatori, i recidivi (c. 31). Per loro vuole essere un "tenero padre", che "sempre preferisce la misericordia alla giustizia" (c. 64,26), che "desidera farsi amare piuttosto che temere" (c. 64, 36). Machiavelli, e qui sta tutta la differenza, opta per la paura e il terrore (Il Principe, cap. XVII), Benedetto è il pastore di un gregge a cui non propone nulla di rigoroso e gravoso (nihil asperium, nihil grave, Prol. 107), in quella che, dopotutto, ai suoi occhi è soltanto una "piccola regola per nuovi adepti", (hanc minimam inchoationis regulam, c. 73, 23).
Di questa tenerezza, incessantemente e attivamente presente, si potrebbero moltiplicare gli esempi: ogni pagina della Regola ne offre a iosa. Notiamo, ad esempio, con quanta umanità Benedetto tratta i fratelli esclusi, per errori gravi, dalla comunità, gli scomunicati, i recidivi. Un problema sociale che ci è familiare anche oggi. Per lui costoro sono, anzitutto, dei malati (c. 27 e 28) ai quali la Comunità deve stare vicina con tutto il cuore, per evitare che affondino "in un abisso di tristezza" (abundantiori tristitia). Se tutti i rimedi falliscono, la Comunità deve ricorrere a "un mezzo più efficace", la preghiera, "affinché il Signore, che può tutto, renda la salute al fratello malato" (c. 28, 17), che verrà così a resipiscenza. La stupenda parola! Derivata da sapientia, etimologicamente significa "ritorno alla ragione", e solamente in seguito assumerà il significato di "pentirsi". Essere -infine- ragionevole, comprendere, conduce al pentimento (speriamo).
La sollecitudine di Benedetto non si applica solo ai casi estremi, come quelli di cui abbiamo appena parlato, ma si estende agli aspetti più umili del vivere quotidiano. Ne è testimonianza questo passaggio dei capitolo 22: "Levandosi... i fratelli si incoraggino dolcemente (sottolineo l'avverbio, L.M.), in modo da non offrire a quelli (ancora) assonnati il pretesto di reagire brutalmente". E altrove (c. 8): "Ci si leverà all'ora ottava della notte (cioè, tra le due o le tre dei mattino), in base a una valutazione ragionevole in modo che ci si alzi a digestione compiuta" (iam digesti surgant). E più avanti, questo passaggio, nel bel mezzo del capitolo relativo agli "uffici divini della notte", che tratta di un dettaglio assolutamente prosaico (ma Benedetto, padre del monastero, pastore del gregge, medico delle anime, Vicario di Cristo, pensa a tutto): "dopo un breve intervallo, durante il quale i fratelli potranno uscire per soddisfare i bisogni della natura. (ad necessaria naturae c. 8,12"...
Bisogna prendere gli uomini come sono, nella piena coscienza della loro intima debolezza, della debolezza dei deboli., (infirmorum contuentes imbecillitatem, c. 40,6); organizzare, ad esempio, il lavoro con moderazione, tenendo conto di quelli che sono deboli (mensurate (...) propter pusillanimes) "infermi o delicati" (c. 48,57) e, soprattutto, è necessario non pretendere che siano conformi all'immagine astratta, idealizzata, che ci si è fatta dell'uomo.
Gli uomini bisogna accettarli per quello che sono, nella loro infinita diversità, nonostante le ineguaglianze nel sapere, nell'intelligenza, nella ricchezza spirituale, nella saggezza, nei meriti, nello zelo, nella resistenza fisica e morale, che li caratterizzano. Perché soltanto agli occhi di Dio esiste e può esistere uguaglianza: "noi serviamo, allo stesso titolo, nella milizia di un solo Signore" (c. 2,56). Sul piano del terreno e del quotidiano, gli uomini sono profondamente ineguali. Benedetto lo sa e lo dice.
L'Abate dovrà dunque "piegarsi alle disposizioni della maggioranza", "senza parzialità", "secondo il valore dell'intelligenza di ciascuno" (c. 2,92); "non turberà il gregge che gli è affidato" (c. 63,5) con decisioni arbitrarie o nocive all'armonia della Comunità. Non deve logorare le sue pecorelle con troppe pretese, ma guidarle con "discernimento e moderazione" (discernat et temperit, c. 63,42) -due parole-chiave del pensiero benedettino.
Dunque, niente gregari. Nessuna irreggimentazione, nessun livellamento alla base. Meno ancora egualitarismo, questo attentato alla dignità della persona umana, che mortifica i migliori, abbassandoli ingiustamente al livello della folla, e avvilisce gli umili, facendo loro credere, mendacemente, che non esistano differenze tra gli uomini. L'Abate deve rispettare le diversità tra un uomo e l'altro e dare ad ognuno la possibilità di far fruttare il talento (Matteo, 25,14-30) che Dio gli ha dato, e in questo modo di sbocciare.
L'età in sé non è un merito né un demerito: "in nessun momento, e in nessun caso, l'età saprebbe creare un prestigio o un'inferiorità" (c. 63,14): questo significherebbe l'introduzione di un elemento meccanico nel processo di giudizio e di scelta, e un attentato alle ricchezze potenziali della diversità. La frase è sconvolgente, per quell'era della gerontocrazia in cui fu scritta. Benedetto spiega: "spesso è proprio ai più giovani che Dio rivela la soluzione migliore" (c. 3,8).
L'Abate dunque verrà scelto "in base ai meriti della sua vita e alla saggezza della sua dottrina, anche se è l'ultimo (per la data della sua professione, L.M.) nella gerarchia della comunità" (c. 64,7-8). L'età non ha importanza; è (in linea di principio, perché gli uomini restano uomini) un sistema di selezione e di promozione che si basa su di un'amplissima gamma di scelte possibili.
Segue uno splendido quadretto di quel che deve essere il capo di un'impresa benedettina. L'Abate, "Vicario di Cristo", dalla cui volontà tutto dipende e deve dipendere, sarà, proprio per questo, moderato, riservato, indulgente; non sarà agitato o inquieto, eccessivo o ostinato, o geloso o troppo sospettoso (un po' è bene che lo sì: è il destino di tutti coloro che dirigono un'impresa). Che non finga, soprattutto, di ignorare gli errori nascenti; che vi porti rimedio, che li "recida alla radice", appena "cominciano ad avere un peso". Che non esiti dunque a punire, ma "con prudenza e carità", "senza nulla di eccessivo", dosando i suoi interventi a seconda delle circostanze (Miscens tempora temporibus, c. 21,13). (Questo vale.,per gli insegnanti, per gli ufficiali e per i capifamiglia). Perché, di tutte le virtù che insegna Benedetto, quella che mette maggiormente in evidenza è la discretio, "madre di tutte le virtù" (c. 64,48), ovvero il senso della misura, il discernimento, la moderazione, il giusto equilibrio tra quel che si può sperare dagli uomini e i gravami della realtà quotidiana.
In Benedetto non c'è niente di repressivo. Quando punisce, vuol punire l'errore o l'ostinazione in esso assai più che il colpevole. Dal momento che non si fa illusioni sugli uomini è incline a perdonare: ai suoi occhi, la colpa è parte integrante della natura umana, ed è alla luce di una simile visione che egli la giudica. Punire, punire un "malato", va bene, ma non troppo, "per non spezzare la canna (già) incrinata" (c. 64,33), per non infrangere il vaso, a forza di voler "togliere la ruggine" (c. 44,31): non sogniamoci di voler rendere gli uomini perfetti, soprattutto loro malgrado. Insomma, "che l'Abate odi i vizi, ma ami i fratelli" (c. 44,27): la distinzione non è sempre facile da fare. E meno ancora da applicare nella vita di tutti i giorni: come amare questo fratello "vizioso", "colpevole", "malato", forse, ma "cattivo ?
Benedetto ha piena coscienza del fatto che la vera grande arte è quella di governare gli uomini, come verrà detto nel Medioevo: "ARS ARTIUM, GUBERNATIO HOMINUM".
Egli sospira: "E' un compito difficile e faticoso governare gli uomini" (c. 2,84)

4. Una attenzione totale

La visione realistica degli uomini che impregna tutta l'esperienza personale di Benedetto e ispira la sua Regola, non induce affatto il Patriarca d'Occidente ad abbandonarli a se stessi; è convinto che del "gregge turbolento e indocile" che gli è affidato sia possibile fare qualcosa di buono. Questa "piccola Regola per i neofiti" può, quanto meno, permettere di acquisire "onestà di vita e muovere i primi passi nella vita religiosa": per mezzo della preghiera, "breve", "pura e frequente", della mortificazione ("odiare la propria volontà"), con l'obbedienza e con la fede. Per mezzo della vita vissuta insieme ai fratelli, in quella preghiera di pietra che è il monastero, "l'officina (officina), dove, scrive Benedetto, dobbiamo lavorare diligentemente con tutti questi strumenti. (c. 4,98), animati dalla ferma intenzione di restarvi sempre legati. (stabilitas, c. 11,99). "Militando sotto la Regola e l'Abate., incarnazione della Regola cui si deve obbedienza e che è il solo autorizzato ad esigere tale obbedienza (Regulae auctoritas, c. 37,3). Sono questi gli ingredienti fondamentali di tutta la vita religiosa.
Interviene ancora un altro elemento, altrettanto fondamentale, sia nella vita quotidiana dei religiosi, sia, questa volta, nella vita quotidiana del cittadino del nostro tempo: voglio parlare dell'osservanza. L'osservanza, che è la stretta applicazione, in tutti i momenti della vita, in tutte le azioni, di una attenzione tesa e totale. Significa fare, "senza ritardo", senza esitazioni, senza mormorare né replicare, senza tiepidezza o pigrizia, con zelo e applicazione la missione affidata a ciascuno, o semplicemente i piccoli doveri quotidiani. E farlo bene! Vuol dire essere sempre presenti a se stessi, senza sosta: Actus vitae suae omnia hora custodire (c. 2,56), che, in linguaggio moderno, si potrebbe tradurre: "conservare ad ogni istante il controllo delle proprie azioni", dei propri atti, dei propri gesti e del proprio pensiero. La distrazione, il ritardo, la balordaggine, la dimenticanza, il lapsus, la fantasticheria, la negligenza, l'errore (nell'oratorio, c. 45, a tavola, c.38) non sono permessi. L'uomo è sempre considerato responsabile di ciò che fa, di quel che è e di quel che pensa. (E' inutile, credo, sottolineare la modernità di questa esigenza: il self-control, la padronanza di sé, la razionalizzazione dei comportamenti, sono uno dei fondamenti dell'azione e della supremazia europea nelle società del passato (Cf. L. Moulin,L'aventure européenne, pp. 67-69).
Citiamo un solo passaggio della Regola, il capitolo 46, per illustrare quel che abbiamo appena detto: "Quando a un monaco, durante una qualunque attività, nelle cucine, in cantina, nel corso di un servizio, nella panetteria, in giardino, nell'esercizio di un mestiere, o in qualsiasi luogo (notiamo l'enumerazione, il più possibile esaustiva), capita di sbagliare, di rompere o di perdere qualche cosa, o di commettere un altro fallo, dovunque ciò avvenga...": ecco tutto questo costituisce una colpa, un delitto (delictum). D'altronde, Benedetto precisa (c. 33): "Se qualcuno tratta uno degli oggetti del monastero senza garbo o con negligenza,sarà rimproverato. Se non si corregge (sempre quest'idea tipicamente benedettina: è la perseveranza a costituire la colpa per eccellenza), subirà la disciplina regolare, che va dalla reprimenda pubblica (c. 23), alla privazione della "comunità del desco" (c. 24), dalla scomunica alla verga.
In nessuna circostanza, per poco importante che sia, il monaco può sbagliare o cedere, né può giustificarsi dicendo "non l'ho fatto apposta". Certo, ma hai sbagliato. Oppure "Ho creduto di far bene": bisogna far bene, e non "credere" -questo verbo invertebrato- di averlo fatto. É così di seguito.
Praticando giorno dopo giorno, scrupolosamente, queste virtù, è possibile diventare un pochino migliori di quanto non si fosse al punto di partenza; senza illusioni, perché la caduta e la recidivia non sono mai lontane e sono sempre possibili.
Taluni, tuttavia, potranno percorrere un cammino più arduo (omnia dura et aspera) che permetterà loro di "raggiungere le più alte cime della dottrina e della virtù" (c. 73,25), e "per mezzo del quale si arriva a Dio" (c. 58, 18). Ma non a tutti è dato il percorrere questo cammino: paucorum est ista virtus (c. 49,31).
Morale: l'uomo non è, in alcun momento, il prodotto esclusivo del suo ambiente e/o dell'ereditarietà; può, se vuole (e, fatto "a immagine e somiglianza di Dio", è, per definizione, dotato di libertà e di volontà), diventare diverso e migliore di quel che sarebbe, se fosse in balia di se stesso. Egli può costruire la sua vita.

5. La dolcezza dei rapporti umani

E' questo l'ultimo grido della saggezza benedettina, e quanto essa ha ancora di valido per l'uomo d'oggi? Qualche tratto, di un'abbagliante attualità, completa il quadro. In un monastero si vive gli uni sugli altri: è la più dura delle mortificazioni, mi disse un Padre Trappista (insieme alla solitudine, mi sussurra un Certosino). I contatti quotidiani sono molteplici, inevitabili; essi inaspriscono singolarmente quanto può esserci di doloroso, di penoso o di francamente insopportabile nella presenza di questo o di quello (pensiamo alle tensioni che scandiscono la vita di due persone che vivono insieme da molti anni). La Regola e le Leggi Consuetudinarie sono lì apposta per evitare che esplodano clamorosamente gli attriti che esistono, latenti, nel seno della Comunità più profondamente unita nelle cose essenziali; ma la vita quotidiana è fatta di simili momenti di tensione. Nei capitoli 4 e 36 della Regola - in particolare - Benedetto ha raccolto un breve trattato di civiltà sul modo di evitare urti di questo genere che, per secoli e ancora oggi, ha impregnato e impregna l'intera vita benedettina e le dona quella dolcezza, quella tenerezza umana, quella serenità dell'anima, che sono le sue caratteristiche. Citiamo ancora: gli ospiti, i forestieri, saranno ricevuti "tamquam Christus" (c. 53, 2); si cureranno i malati "come se fossero Cristo" (c. 36,2).
"Fare a gara per onorarsi a vicenda": è il rispetto per la Persona dell'Altro in quanto ha di essenziale e di unico (avviso agli automobilisti). "Fare a gara per ubbidire gli uni agli altri": il religioso non ubbidisce soltanto alla Regola, all'Abate e agli "ufficiali", che questi ha scelto; deve ubbidire agli altri, a tutti gli altri.
"Sopportare pazientemente le infermità altrui; sia quelle del corpo che quelle dello spirito". Aggiungiamo: e anche le proprie, per non disturbare gli altri con lamentele superflue e con la descrizione minuziosa dei propri mali.
"Avere per l'Abate un affetto umile e sincero": non basta obbedire, bisogna amare. Il grande studioso Konrad Lorenz, Premio Nobel per la medicina nel 1973, ha scritto: "Il rispetto della gerarchia e l'amore non sonò incompatibili". Il monaco, dunque, deve anche amare il suo Abate. Ecco perché se, dopo esser stato rimproverato, si accorge che il suo superiore "è irritato con lui o in collera, per quanto poco (quamvis modice), gli chiederà perdono fino a quando la sua benedizione gli avrà fatto capire che la collera si è calmata" (sanetur illa commotio). Perché bisogna riconciliarsi, "fare pace" (in pacem redire), prima del calar del sole, "con quelli che sono in discordia con voi" (c. 4,88), (se lo ricordino le coppie, vecchie e giovani). "Venerare gli anziani. Amare i più giovani". Altrove (c. 63, 23): "I più giovani onoreranno gli anziani e gli anziani avranno dell'affetto per i giovani"; (minores suos diligant : notate la tenerezza del suos).
Ed ecco qualcosa che riguarda direttamente l'uomo d'oggi, che è fin troppo incline ad attribuire la responsabilità delle sue colpe alla sorte, all'ereditarietà o all'ambiente, o a tutto insieme In un magma confuso: "Riconoscersi sempre come autori del male che è in noi e farcene carico" (c 4, 49).

Civiltà di tutti gli istanti, cortesia, tenerezza fraterna, carità, educazione, quel "riconoscimento quotidiano della dignità umana", scrive Bernard de Jouvenel, equilibrio di una vita armoniosamente distribuita tra la vita spirituale, il lavoro, la distensione, il riposo: valori questi che, da secoli, sono l'appannaggio della vita monastica se non, sotto molti aspetti, quelli che popolano le nostalgie dell'uomo moderno, che si sforza di ritrovarli, bene o male, nella sua seconda casa o nelle sue gite domenicali: i valori dell'interiorità, i cibi semplici e naturali, il silenzio, la natura, i riti della convivialità e, chissà?, qualche volta, la preghiera.