venerdì 7 giugno 2019

Tuis: il potere dei gesuiti, gli 007 del nuovo ordine mondiale

«Attenzione: stai per ricreare una pagina già cancellata in passato». E’ quanto si legge consultando su Wikipedia la voce Siv, Servizio Informazioni del Vaticano. Sorveglianza occhiuta: l’enciclopedia “libera” del web si ferma, di fronte all’intelligence del Papa. Anche perché, sostiene Riccardo Tristano Tuis, l’intera faccenda è nelle mani dell’ordine religioso più potente e misterioso della galassia cattolica: la Compagnia di Gesù, fondata nel 1537 dal militare spagnolo Ignazio de Loyola, con una vocazione – emersa fin dall’inizio – all’infiltrazione nelle altrui strutture, onde controllarle dall’interno. Geniale, l’uso della confessione da parte dei gesuiti: una volta introdotti a corte come educatori dei nobili rampolli, diventavano i custodi dei segreti dei futuri regnanti. Per Fausto Carotenuto, già analista dell’intelligente e autore del saggio “Il mistero della situazione internazionale”, i gesuiti rappresentano il vertice di una delle due piramidi “nere” che controllano il mondo – l’altra sarebbe costituita dalla massoneria internazionale. Comune l’obiettivo: il dominio di un pianeta completamente globalizzato mediante la finanza e l’economia, la politica addomesticata, la disinformazione martellante assicurata dai grandi media, reticenti o bugiardi sul terrorismo e sulla guerra.

«Anche tra i gesuiti si contano ovviamente molte ottime persone», ammette Tuis, intervistato a “Border Nights”, «ma la struttura ha avuto un ruolo essenzialmente negativo, nella storia: la congregazione resta un soggetto decisamente pericoloso, non a caso espulso per 70 volte da vari Stati». 
Rapporti difficili anche con il Vaticano: Papa Clemente XIV soppresse l’ordine religioso nel 1773. «I gesuiti erano nati come braccio speciale della Chiesa per sostituire i domenicani, politicamente poco duttili», spiega Gianfranco Carpeoro, autore di saggi che illuminano oscuri retroscena in cui convivono Chiesa e massoneria, come nel caso dell’origine del fascismo. «Poi però sempre i gesuiti divennero anche scomodi, quando – dopo la conquista del Sudamerica – si accorsero che gli indigeni erano migliori, come uomini, dei “conquistadores” cristiani». Lo ricorda lo stesso Tuis, autore del libro “Gesuiti” appena pubblicato da Uno Editori: «In Paraguay i gesuiti si schierarono con il popolo anche pagando con la vita la loro scelta». E’ di ispirazione gesuitica la “teologia della liberazione”, per l’emancipazione popolare dell’America Latina. Era gesuita lo stesso cardinale Martini, in prima linea contro le guerre. Ma la Compagnia di Gesù resta ambivalente: Jorge Mario Bergoglio, primo pontefice gesuita della storia, ha firmato il saggio “Questa economia uccide” ma in Argentina è stato accusato di complicità con i carnefici della dittatura militare, quella dei “desaparecidos”.

Riccardo Tristano Tuis non crede a Papa Francesco: «Nonostante la parte che recita, fa il gioco del potere: il suo impegno a favore dei migranti fa parte del progetto globalista che prevede anche l’islamizzazione dell’Europa a spese della fede cristiana, verso un’ipotetica religione unica mondiale». Il suo libro è chiaro, negli intenti, fin dal sottotitolo: «L’Ordine militare dietro alla Chiesa, alle banche, ai servizi segreti e alla governance mondiale». Già autore de “L’aristocrazia nera”, ovvero «la storia occulta dell’élite che da secoli controlla la guerra, il culto, la cultura e l’economia», Tuis racconta l’intreccio che – fin dall’origine – lega Ignazio di Loyola a potenti famiglie romane come quella dei Borgia. La missione dell’ordine: forgiare dei veri e propri 007, in grado di infiltrare qualsiasi ambiente politico e religioso, puntando al controllo del potere. Un progetto con un retroterra segreto, risalente ai Templari e da «ordini e consorzi di famiglie ancora più antiche». 

Nacquero così «agenti segreti con licenza di uccidere», pronti a operare clandestinamente sia nei paesi cristiani che in quelli protestanti o anglicani, «al punto che ai nostri giorni i servizi segreti deviati europei, nordamericani, del Commonwealth e d’Israele sono delle espressioni di un’unica regia: il Siv, cioè i servizi segreti del Vaticano», quelli irrintracciabili su Wikipedia.

«L’alta finanza, le più grandi banche del mondo e il cartello bancario che ha dato vita al moderno signoraggio bancario – sostiene Tuis – sono il prodotto della millenaria opulenza e forza della Chiesa di Roma, che proprio grazie ai gesuiti dall’Ottocento in poi ha in mano l’economia globale attraverso le famiglie dei banchieri internazionali ai cui vertici ci sono i guardiani del tesoro papale: i Rothschild». Il libro di Tuis indaga «sull’oscuro mondo delle società segrete e dei circoli magici di matrice satanico-luciferina e cristiana», scoprendo «le loro reciproche e insospettate connessioni attraverso i gesuiti di alto livello, gli “incogniti superiori del 4° voto” che muovono anche le fila dei potenti e stratificati ordini cavallereschi», vale a dire i Cavalieri di Malta in Europa e i loro corrispettivi americani, i Cavalieri di Colombo. Insieme alla massoneria internazionale, questa galassia di poteri “invisibili” dà vita «all’esercito di grigi burocrati dell’Unione Europea e del Congresso americano, che promuovono la criminale operazione su vasta scala denominata Agenda 21».


Il libro si addentra in specifici eventi storici: «Due più famosi dittatori europei, Napoleone Bonaparte e Adolf Hitler, sono saliti al poteregrazie ad operazioni clandestine dei gesuiti e degli Illuminati, che da secoli lavorano a fianco a fianco nell’instaurazione della secolare agenda mondialista “La Nuova Atlantide”, meglio conosciuta come Nuovo Ordine Mondiale». A un ex gesuita, racconta Tuis a “Border Nights” si deve l’invenzione della ghigliottina: atroce simbolo del Terrore francese, d’accordo, ma pur sempre «un modo per ridurre la sofferenza del condannato». Dai gesuiti sono nate eccellenze assolute in ogni campo, compreso quello scientifico: è la Compagnia di Gesù a gestire il potente osservatorio astronomico di Mount Graham, in Arizona. Alieni in arrivo? Meglio chiamarli “fratelli dello spazio”; nel caso un giorno atterrassero, disse il direttore del centro, perché non battezzarli? Conoscenza, segreti, informazioni riservate. «L’archivio dei gesuiti a La Spezia – dichiara Tuis – è vasto almeno quanto quello della Cia».


Sanno tutto di tutti? Dossier, schedature minuziose? «Per quello nacquero: furono loro a fondare la prima intelligence della storia». Il libro di Tuis è un’indagine sul lato meno trasparente del potere, il più insospettabile: sul web circola liberamente il testo di un famigerato giuramento, in cui il novizio – nel ‘500 – si impegna anche ad uccidere, nel caso, e comunque a eseguire qualsiasi ordine senza discutere, “perinde ac cadaver”. Leggende? Purtroppo no, sostiene Tuis: «Oggi la vera battaglia è condotta nel campo dell’informazione: il mainstream deforma sistematicamente la verità. La controinformazione è fondamentale, e il potere la teme». Dietro allo speaker del telegiornale c’è spesso un politico, collegato a influenti soggetti economici. Quello che sfugge è che “tutte le strade”, o almeno molte, portino a Roma, dove il potere di quel network sarebbe esteso oltre l’immaginabile. «Non è un caso se l’aggettivo “gesuitico” ha assunto una connotazione negativa: indica qualcosa di falso e insincero, ipocrita, ma al tempo stesso raffinato e coltissimo. I gesuiti hanno una visione precisa del mondo, la loro. Arrivano dovunque, sono lì da mezzo millennio: non sarà facile fermarli».

(Il libro: Riccardo Tristano Tuis, “I Gesuiti. L’Ordine militare dietro alla Chiesa, alle Banche, ai servizi segreti e alla governance mondiale”, Uno Editori, 264 pagine, euro 14.90).

Ecco i nomi dei massoni golpisti che hanno creato la crisi (Anche Von Hayek)

Monopolisti. Privatizzatori. C’è chi li ha definiti, anche, golpisti bianchi. Ma sono essenzialmente massoni. Attenzione: le obbedienze nazionali non c’entrano. Si tratta di supermassoni in quota alle Ur-Lodes, le oscure superlogge sovranazionali. Precisamente: quelle di segno neo-aristocratico, che detestano la democrazia e confiscano il potere dei cittadini, rimettendolo nelle mani di un’élite pre-moderna, pre-sindacale, ultra-padronale. E’ così che hanno costruito il nuovo medioevo in cui viviamo, il neo-feudalesimo regolato dall’Ue e dalla sua Commissione di non-eletti. Giochi di specchi: laddove si parla di finanza e geopolitica, citando banche centrali e governi, si omette sempre di scoprire chi c’è dietro. Sempre gli stessi, sempre loro: un club ristrettissimo di padreterni, di “contro-iniziati” che si credono onnipotenti e autorizzati, come per diritto divino, a manipolare in eterno il popolo bue, ridotto a bestiame umano. Lo ricorda Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, sodalizio fondato dal massone progressista Gioele Magaldi proprio con l’intento di smascherare l’attuale governance europea finto-democratica, dopo la clamorosa denuncia contenuta nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Una rivelazione: dietro ai principali tornanti della nostra storia recente ci sono sempre gli stessi personaggi, i medesimi circoli occulti: grazie a loro, in fondo, poi in Italia crollano anche i viadotti autostradali.

«Se l’obiettivo era il ripristino del potere di classe delle élite, il neoliberismo era senz’altro la risposta giusta», premette il politologo britannico David Harvey nella sua “Breve storia del neoliberismo” (Il Saggiatore). Il neoliberismo come clava: privatizzazioni selvagge, attraverso una martellante propaganda ideologica esplosa negli anni ‘90: libertà d’impresa, Stato minimo, liberalizzazioni, deregulation. Certo, neoliberismo e democrazia non possono stare insieme: da sola, però, la “teologia” neoliberale non spiega tutto, come ricorda Patrizia Scanu sul blog del Movimento Roosevelt: se siamo stati globalizzati “a mano armata” lo si deve, anche e soprattutto, al «forte nesso esistente fra massoneria neoaristocratica e neoliberismo da una parte e fra neoliberismo e monopoli privati dall’altra». Un legame nascosto, non facile da individuare. «A prima vista, si direbbe che la libertà del mercato predicata dalla teoria neoliberista sia in contraddizione con i monopoli privati». Ma come si fa a predicare il libero mercato fondato sulla concorrenza, per poi cedere i beni pubblici come le autostrade «regalate agli amici della Casta»? La risposta la fornisce Magaldi nel suo bestseller: la vernice ideologica è servita essenzialmente come cosmesi, per coprire l’immane, brutale restaurazione di potere architettata da loro, i signori delle Ur-Lodges neo-oligarchiche.

Nulla a che vedere con le massonerie ordinarie, come il Grande Oriente e la Gran Loggia d’Italia, regolarmente registrate e dichiaratamente fedeli alla Costituzione. Il problema è il mondo, coperto e sovranazionale, delle Ur-Lodges, «un network di superlogge che rappresentano l’élite massonica mondiale, alla quale aderiscono i membri più ragguardevoli della massoneria ordinaria e persone di prestigio (moltissimi i politici di governo) “iniziate” per particolari doti individuali esoteriche e sapienziali, e provenienti da ogni angolo del pianeta». Club super-esclusivi, «la cui esistenza è sconosciuta ai più». Come agiscono, questi circuiti-ombra? Attraverso «i vari club paramassonici, quali la Trilateral Commission o il Bilderberg Group, che ne sono solo l’espressione più visibile e aperta». Ma la massoneria settecentesca non era stata il motore della modernità democratica? «La democrazia non l’ha portata in dono la cicogna», ricorda Magaldi: furono proprio le logge massoniche a incubare, cominciando dalla Francia, lo Stato di diritto e il suffragio universale. A qualcuno, poi, l’Ottocento e il Novecento hanno dato alla testa: se sai di essere l’architetto del mondo nuovo, può succedere che tenda a considerarlo di tua proprietà, sentendoti autorizzato a compiere qualsiasi manipolazione, dai golpe alle crisi finanziarie.


Se non si capisce questo, sottolinea Magaldi, non si riesce ad afferrare la vera natura – profondamente oligarchica – del potere (prima occidentale, poi globale) che dagli anni ‘80 ha assunto il dominio del pianeta, ricorrendo sistematicamente all’abuso e alla violenza. Mai dimenticare, quindi, il ruolo decisivo delle superlogge, «che costituiscono il back-office del potere a livello internazionale». Magaldi ne fornisce una mappa completa: ci sono quelle conservatrici (si chiamano “Edmund Burke”, “Joseph De Maistre”, “Compass Star-Rose”, “Pan-Europa”, “Three Eyes”, “White Eagle”, “Hathor Pentalpha”) ma non mancano quelle progressiste, di stampo rooseveltiano e keynesiano, che sostennero i leader progressisti del dopoguerra, fino ai Kennedy e alla stagione dei diritti civili negli Usa, aiutando paesi come l’Italia a non cadere sotto le trame golpiste. Il frutto più palpabile del loro lavoro, in Europa? Il sistema del welfare: ideato dall’inglese William Beveridge. Chi ne effettuò la più spettacolare applicazione? La Svezia di Olof Palme, altro supermassone progressista.

Poi, dalla fine degli anni Settanta, le Ur-Lodges democratiche (“Thomas Paine”, “Montesquieu”, “Chistopher Columbus”, “Ioannes”, “Hiram Rhodes Revels”, “Ghedullah”) hanno perso terreno, di fronte allo storico attacco delle superlogge rivali, con le quali – a nostra insaputa – stiamo tuttora facendo i conti, ogni giorno. L’obiettivo dei neo-aristocratici? «Invertire il corso della storia, trasformando coloro che erano cittadini in neosudditi e schiavizzando sempre di più quelli che sudditi erano sempre rimasti». Lo stesso Magaldi ricorda che i supermassoni oligarchici hanno voluto «aumentare a dismisura il proprio potere materiale, mediante colossali speculazioni ai danni di popoli e nazioni». Il loro piano: «Assurgere essi stessi, nell’incomprensione generale di quanto va accadendo, alla gloria di una nuova aristocrazia iniziatico-spirituale dell’era globalizzata». Dopo gli anni del boom economico e l’affermazione dei diritti sociali, ricorda Patrizia Scanu, la micidiale riscossa neoaristocratica è stata meticolosamente programmata negli anni ‘70. Le prove? «Gli economisti Friedrich Von Hayek e Milton Friedman, principali teorici del neoliberismo, nonché Robert Nozick, filosofo politico e teorico dello “Stato minimo”, erano tutti massoni neoaristocratici; Von Hayek e Friedman erano affiliati alle Ur-Lodges “Three Eyes” ed “Edmund Burke”, e dal 1978 anche alla “White Eagle”».


Fu proprio grazie all’impulso di queste superlogge, spiega Patrizia Scanu, che Von Hayek e Friedman ottennero, rispettivamente nel 1974 e nel 1976, il Premio Nobel per l’Economia («che, detto per inciso, non viene assegnato dagli accademici di Svezia, ma dai banchieri svedesi»). Il progetto era semplice: «Far diventare il neoliberismo – teoria allora marginale e ininfluente – il mainstream in economia». Ostacoli politici, all’avanzata dei restauratori? «Il nemico apparente era il socialismo, ma l’obiettivo vero era il keynesismo», ovvero la teoria del massone progressista inglese John Maynard Keynes, “cervello” del New Deal di Roosevelt che risollevò l’America dalla Grande Depressione, fino a creare – di riflesso – il boom economico anche in Europa. Come? Espandendo in modo formidabile il deficit, il debito pubblico strategico, per creare lavoro, fino a realizzare la piena occupazione. Di qui la reazione dell’élite, spaventata da tutto quel benessere piovuto sulle masse: «Si voleva abbattere il “capitalismo dal volto umano”, che si era consolidato specie in Europa, con l’intervento regolatore dello Stato in economia e la diffusione del welfare», scrive Patrizia Scanu. «Fu l’ideologia neoliberista ad ispirare la globalizzazione così come la conosciamo, con tutti i suoi tremendi squilibri e le sue enormi disuguaglianze, che fu programmata a tavolino dalle superlogge reazionarie».

Politica, economia e geopolitica. Sempre “loro”, in azione. Ovunque: «Erano massoni neoaristocratici i leader politici che applicarono le ricette neoliberiste in economia nei loro paesi». Per esempio Augusto Pinochet in Cile: «Il colpo di Stato del 1973 fu promosso dalle Ur-Lodges “Three Eyes, di cui era membro Henry Kissinger, fra le menti dell’operazione Condor, e “Geburah”. E che dire di Margaret Thatcher (in quota alla “Edmund Burke”), spietata madrina del neoliberismo nel Regno Unito? Ma la contro-rivoluzione non coinvolse il solo occidente: Deng Xiao Ping, che introdusse l’economia di mercato in Cina, era affiliato alla “Three Eyes”. Ronald Reagan? A sua volta membro della Ur-Lodge “White Eagle”, «di cui facevano parte due presidenti della Federal Reserve, Paul Volcker e Alan Greenspan, artefici delle politiche monetarie neoliberiste». Nella “White Eagle” anche William Casey e Antony Fisher, i fondatori del Centre for Economic Policy Studies, importante think-tank neoliberista. «Fra i consiglieri economici di Reagan vi erano numerosi economisti neoliberisti provenienti dalla paramassonicaMont Pelerin Society», fondata dall’austriaco Von Hayek e poi retta, a lungo, dal futuro ministro berlusconiano Antonio Martino.


Riletta così, la nostra storia recente risulta più comprensibile: fu un’iniziativa neoaristocratica anche la pubblicazione del celebre volume “The Crisis of Democracy”, avvenuta nel 1975 a cura di Samuel Huntington, Michel Crozier e Joji Watanuki («massoni reazionari tutti e tre, affiliati alla “Edmund Burke” e alla “Three Eyes”», annota Patrizia Scanu). Il volume «concluse un lungo periodo di attività e di elaborazione di strategie da parte di numerose Ur-Lodges neoaristocratiche», iniziato negli anni 1967-68 con la fondazione della potente “Three Eyes”. «Fu il manifesto pubblico e propagandistico con il quale si voleva attirare il consenso dei massoni moderati», raccontando che la “crisi della democrazia” era dovuta – tu guarda – a un “eccesso di democrazia”. Troppi diritti, troppa uguaglianza, troppa partecipazione da parte dei cittadini. Il saggio «sosteneva l’importanza dell’apatia delle masse verso la politica, da raggiungere mediante il consumismo e il disgusto verso la corruzione». Al tempo stesso, «proponeva la ricetta per riportare il governo saldamente nelle mani di un’élite, trasformando la democraziain oligarchia». Questo era il progetto: svuotare di contenuto la democrazia, usando – come strumento – la diffusione del “credo” neoliberista.

Un’epidemia, riassume Patrizia Scanu, diffusasi a macchia d’olio sulle due sponde dell’Atlantico: nel 1978 fu creata la super-segreta “White Eagle” «per portare Margaret Thatcher al governo nel Regno Unito e Ronald Reagan negli Usa». Poi, a ruota, sempre alla “White Eagle” furono affiliati gli italiani Carlo Azeglio Ciampi e Beniamino Andreatta, «che nel 1981 furono gli artefici del primo clamoroso passo verso la liquidazione dell’Italia come potenza economica, attraverso la mai abbastanza vituperata separazione fra Banca d’Italia e Tesoro, che privò il nostro paese della sovranità monetaria, rendendoci schiavi delle banche private». Una svolta sciagurata, «che avviò la perversa spirale del debito». Lo documenta in modo perfetto l’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt: «Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico». Ciampi, Andreatta e De Mita avevano un obiettivo preciso: «Cedere la sovranità nazionale, pur di sottrarre potere a quella che consideravano la classe politica più corrotta d’Europa». Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese si trovò in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico.


Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipitò: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esplose, letteralmente, fino a superare il Pil. Non era un “problema”, un infortunio. Al contrario: era esattamente l’obiettivo voluto. Cioè: «Mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione». Degli investimenti pubblici da colpire, ricorda Galloni, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale». Tutti d’accordo, ai vertici dell’élite neoliberale: al piano anti-italiano, sottolinea Patrizia Scanu, partecipò anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smise di investire nella produzione delle auto e preferì comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquistava più, i tassi erano saliti alle stelle. Amputando lo Stato, la finanza pubblica si era trasformata in un ghiottissimo business privato. Du così che, di colpo, l’industria passò in secondo piano: da lì in poi, sarebbe dovuta “costare” il meno possibile.

«In quegli anni – riassume Galloni – la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione». Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale». Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta ancora Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo. E quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari, invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione». Avevano fatto un ottimo “lavoro”, i nostri Ciampi e Andreatta, manovrati dalla “White Eagle” reaganiana e thatchriana, avanguardia dell’élite occulta che, in capo a undecennio, avrebbe poi licenziato – usando Mani Pulite – i “ladri” della Prima Repubblica, per prendersi l’Italia in blocco, lasciando lo Stato in bolletta e i cittadini in mutande.

E’ abbastanza deprimente, scrive Patrizia Scanu, scoprire – oggi – che i campioni delle storiche privatizzazioni degli anni ‘90 erano, tutti, massoni neoaristocratici. Le famigerate e scandalose dismissioni e privatizzazioni all’italiana furono supervisionate dalla regia del massone neoaristocratico Mario Draghi, «affiliato alle Ur-Lodges “Pan-Europa”, “Edmund Burke” e in seguito anche alla “Three Eyes”, alla “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum” e alla “White Eagle”». Draghi agiva in qualità di direttore generale del ministero del Tesoro, carica-chiave che rivestì dal 12 aprile 1991 al 23 novembre 2001. Quelle privatizzazioni selvagge furono quindi inaugurate «per conto terzi» sotto il primo governo di Giuliano Amato (1992-93), poi proseguite dal governo Ciampi (1993-94), dal primo governo Berlusconi (1994-95), quindi dal governo di Lamberto Dini (1995-96), dal primo esecutivo guidato da Romano Prodi (1996-98), infine dal governo D’Alema (1998-2000) e poi dal secondo governo Amato (2000-2001). «L’immarcescibile e granitico Mario Draghi – scrive Magaldi – diresse le operazioni ininterrottamente per un decennio, mentre a Palazzo Chigi si avvicendavano ministri e premier del tutto compiacenti (da destra, centro e sinistra) al piano di doloso smembramento e immotivata (sul piano dell’interesse pubblico) svendita a potentati privati di beni e aziende di proprietà del popolo sovrano».

Tutto cominciò nel 1992. Vogliamo ricordare che cosa fu privatizzato? Lo illustra Francesco Amodeo su “Scenari Economici”. Il ‘92, scrive Amodeo, «è l’anno in cui in soli 7 giorni cambia il sistema monetario italiano, che viene sottratto dal controllo del governo e messo nelle mani della finanza speculativa». Per farlo «vengono privatizzati gli istituti di credito e gli enti pubblici, compresi quelli azionisti della Banca d’Italia». Sempre il ‘92, è l’anno in cui «viene impedito al ministero del Tesoro di concordare con la Banca d’Italia il tasso ufficiale di sconto (il costo del denaro alla sua emissione), che viene quindi ceduto a privati». Non solo: «È l’anno della firma del Trattato di Maastricht e dell’adesione ai vincoli europei. In pratica è l’anno in cui un manipolo di uomini palesemente al servizio del Cartello finanziario internazionale ha ceduto ogni nostra sovranità». A continuare il suo lavoro di smembramento delle aziende di Stato «ci penserà Massimo D’Alema, che nel 1999 favorirà la cessione, tra le altre, di Autostrade per l’Italia e Autogrill alla famiglia Benetton, che di fatto hanno, così, assunto il monopolio assoluto nel settore del pedaggio e della ristorazione autostradale. Una operazione che farà perdere allo Stato italiano miliardi di fatturato ogni anno».


Se invece di “cartello finanziario internazionale” leggiamo, con Magaldi, “massoneria aristocratica sovranazionale” – avverte Patrizia Scanu – capiamo di colpo il nesso chiarissimo che tiene insieme privatizzazioni, neoliberismo e cessione di sovranità monetaria: prima con la separazione fra Tesoro e banca centrale e poi con il sistema dell’euro. Non manca il legante politico: il Trattato di Maastricht è un capolavoro neoliberista. Risultato voluto e puntualmente ottenuto: deindustrializzazione, crisi della democrazia e del welfare. Cervello dell’operazione? Loro, le Ur-Lodges neoaristocratiche. «Soprattutto, appare chiaro che l’Europa dei tecnocrati e dell’euro, che fu realizzata da Maastricht in poi, lontanissima dall’Europa dei popoli vagheggiata da Altiero Spinelli, era stata progettata fin dall’immediato dopoguerra (dai massoni neoaristocratici Richard Coudenhove-Kalergi e Jean Monnet) per portare al potereun’élite economico-finanziaria a danno delle democrazie europee». Il neoliberismo, sottolinea Patrizia Scanu, era un’ideologia costruita appositamente per questo fine, «cioè per travasare ricchezza dai poveri ai ricchi e asservire gli Stati alle banche private mediante il debito, secondo il più tradizionale sistema imperialista, tenendo buone le masse con la favoletta del debito pubblico, della crisi, dei vincoli europei, del rapporto deficit-Pil, dell’austerity e infine dello spread».

Micidiale, la “teologia” neoliberista: basata su dogmi di cartapesta, ma perfettamente funzionale al piano di restaurazione oligarchica. «Fu diffusa capillarmente finanziando università, centri di ricerche, think-tank, per soppiantare il “capitalismo dal volto umano” e dei diritti sociali che era stato delineato da Keynes e che vedeva come scopo delle politiche economiche la piena occupazione e il sostegno alla domanda interna». Mentre esalta a parole il libero mercato e lo “Stato minimo”, l’ideologia neoliberista «lavora per costruire monopoli, rendite di posizione, consorterie di privati che si arricchiscono a spese della collettività e assurdi vincoli all’espansione economica, come il pareggio di bilancio». Una sua caratteristica? «La continua confusione di pubblico e privato, con le “sliding doors” fra cariche istituzionali e incarichi privati e con i complessi conflitti di interesse». Ogni paese applica la ricetta a modo suo, ma con lo stesso risultato: «Disuguaglianze, povertà, disoccupazione, compressione dei diritti e insicurezza». Non sono “effetti collaterali” del neoliberismo, applicato alle politiche degli Stati: sono il loro vero obiettivo. «Per conseguirlo, occorre comunque la complicità dei governanti locali, che restano quindi i veri responsabili di questo scempio criminale».


Una controrivoluzione inesorabile, catastrofica: il progetto è continuato anno dopo anno, con lo smantellamento pezzo a pezzo del welfare e delle tutele del lavoro, del settore pubblico, della scuola, della classe media, «per culminare con il governo Monti nel 2011 e con quel terribile tradimento bipartisan del popolo italiano (votato dal Pd di Bersani e dal centrodestra di Berlusconi, sotto lo sguardo vigile di Giorgio Napolitano, massone neoaristocratico affiliato alla “Three Eyes”), che fu l’introduzione dell’equilibrio di bilancio (supremo dogma neoliberista) nella Costituzione, che ci condanna per sempre al dissanguamento economico, almeno finché non verrà rimosso». Fu allora che Monti (anche lui, dice Magaldi, massone affiliato a una Ur-Lodge, la “Babel Tower”) si disse soddisfatto per aver distrutto la domanda interna. L’eterno supervisore, Mario Draghi – ormai seduto sulla poltronissima della Bce – osservò che tutto stava andando per il meglio: l’inaudito piano di sequestro della sovranità nazionale dei paesi europei a beneficio delle potentissime lobby finanziarie di Bruxelles procedeva a tappe forzate. Prima mossa: dare ossigeno alle banche ma non alle aziende, per indebolire l’Europa del Sud. Seconda: impedire agli Stati, attraverso il Fiscal Compact, di spendere a deficit per i propri cittadini, rilanciando l’occupazione. Obiettivo finale, testualmente: «Riforme strutturali per liberalizzare il settore dei beni e dei servizi e rendere il mercato del lavoro più flessibile».

L’unica soluzione? Privatizzazione quel che ancora c’èra da razziare. Il declassamento dello Stato, secondo l’uomo che la Germania ha voluto alla guida della Bce, avrebbe assicurato più «equità» al sistema, aprendo spazi meno precari ai giovani attualmente privi di garanzie: per Draghi, la causa della disoccupazione non è stata la crisi mondiale della crescita, ma l’eccesso di tranquillità di chi invece il posto fisso ce l’ha (e se lo tiene stretto). Tutto da rifare: «Il modello sociale europeo è oggi superato», disse il super-banchiere di Francoforte. In una intervista al “Wall Street Journal”, l’ex dirigente strategico della Goldman Sachs gettò alle ortiche oltre mezzo secolo di “pax europea”, cresciuta al riparo del miglior sistema mondiale di welfare. D’ora in poi, ciascuno avrebbe dovuto lottare duramente, per sopravvivere, perché gli Stati – in via di smantellamento, neutralizzati con l’adozione della moneta unica da prendere in prestito a caro prezzo dalla Bce – non avrebbero più potuto garantire protezioni sociali: attraverso il Fiscal Compact, i bilanci sarebbero stati prima validati a Bruxelles e, dal 2013 in poi, nessuno Stato europeo avrebbe più potuto investire un euro per i propri cittadini, al di là della copertura del gettito fiscale.


«Occorre dunque andare a fondo e guardare dietro la superficie per comprendere chi ci ha derubati della nostra ricchezza, chi ha tradito la Costituzione e ha svenduto la nostra vita e il nostro paese per arricchire un’élite spietata e immeritevole», conclude Patrizia Scanu. «Sarà la storia a giudicare questa sciagurata operazione di rapina ai danni di tutti noi, perpetrata sotto il nostro naso e sotto tutte le bandiere politiche, mentre i mass media compiacenti ci parlavano d’altro». Ora è il momento di aprire gli occhi: «La tragedia di Genova è un terribile monito per tutti noi», scrive la segretaria del Movimento Roosevelt: «O ci riprendiamo diritti, democrazia e sovranità, oppure saremo schiavi per sempre». Non ci credete? Seguite i soldi: «Le incredibili concentrazioni di ricchezza e di potere che esistono adesso, ai livelli più alti del capitalismo, non si vedevano dagli anni Venti. Il flusso dei tributi verso i maggiori centri finanziari del mondo è stato stupefacente». Quello che però è ancora più stupefacente, aggiunge Scanu, è l’abitudine a trattare tutto questo come un semplice – e magari in qualche caso deprecabile – “effetto collaterale” della neoliberalizzazione. «La sola idea che questo aspetto possa invece costituire proprio l’elemento sostanziale a cui puntava la neoliberalizzazione fin dall’inizio – la sola idea che esista questa possibilità – appare inaccettabile».

Certo, il neoliberismo «ha dato prova di molto talento presentandosi con una maschera di benevolenza, con parole altisonanti come libertà, indipendenza, scelte e diritti, nascondendo le amare realtà della restaurazione del puro e semplice potere di classe, a livello locale oltre che transnazionale, ma in particolare nei principali centri finanziari del capitalismo globale», afferma David Harvey. Ma, appunto, dire “neoliberismo” non basta, così come non bastano le espressioni élite, oligarchia, vero potere. Qui ci sono anche nomi e cognomi: quelli del gotha supermassonico reazionario. «Leggendo il libro di Magaldi, si possono trovare i nomi di tutti i politici italiani e stranieri coinvolti nella distruzione della democrazia in Europa». Così, chiosa Patrizia Scanu, «può esserci più chiaro quali responsabilità abbiano i rappresentanti del popolo (di destra, di centro e di sinistra) che abbiamo votato, ignari e in buona fede, per tanti anni». Ma possibile che Magaldi non sia stato querelato da nessuno? Assolutamente sì: lo rivela l’autore stesso. La “congiura del silenzio” è proseguita anche in Parlamento, dove la senatrice Laura Bottrici (M5S) ha inutilmente citato il libro di Magaldi, il 12 gennaio 2015. «La senatrice chiedeva conto a Giorgio Napolitano della sua affiliazione alla massoneria internazionale. Il che vorrà ben dire qualcosa…».

VON HAYEK E LA COSTRUZIONE EUROPEA. CON ADDENDUM

VON HAYEK: L'IDEOLOGO DEGLI STATI UNITI D'EUROPA CHE SMANTELLANO L'AZIONE STATALE E DEMOCRATICA DI OGNI PAESE MEMBRO AL FINE DI RIDURRE IN POVERTA' ASSOLUTA E IN UNA CONDIZIONE DI ACCATTONAGGIO PERMANENTE MILIONI DI CITTADINI EUROPEI ANCORA LIBERI (FINO A QUANDO?).....  


ANTEFATTO

...E ADDENDUM "PRELIMINARE"

Dopo la scrittura del post, ci siamo imbattuti in questa decisiva "fonte", offerta con una acuta analisi.

La fonte è interessante perchè dimostra la corrispondenza tra le teorie di Von Hayek e il programmatico esautoramento della sovranità costituzionale degli Stati democratici, attraverso la costruzione economica volta, in virtù di ben precisi strumenti, a instaurare la "grande società" del libero mercato.
Si tratta di un saggio di Von Hayek, del 1939: esso ci attesta la sua chiara precognizione degli effetti del "federalismo interstatale"; a cui egli, ovviamente, e proprio perché capace di realizzare i fini ideali con cui ritiene di modellare la società, era altamente favorevole.
La apparente disputa che ha dato luogo a questo post, conferma la netta differenza tra un confronto teorico di modelli astrattamente assunti in senso statico (come sintesi scientifiche) e ricostruzione storica delle forze e delle idee programmatiche che muovono i grandi rivolgimenti politici, strutturando bensì la realtà in difformità dagli schemi teorici, ma preservando strategicamente i fini essenziali.
E' altresì interessante constatare come in ambiti culturali autorevoli, ma, purtroppo, estranei all'Italia, il "retaggio" di V.H., rispetto alla costruzione europea, non è oggetto di particolari dubbi. Troppe tracce concettuali, e di concreta "formazione" di una certa classe dirigente europea, emergono prepotentemente perché ciò possa sfuggire a chi voglia sviluppare una seria ricostruzione storico-politica.
La "intenzionalità" di Von Hayek e la sua manifesta idoneità a costituire la fonte ispiratrice della "costruzione UE", si rinvengono con coerenza nella notorietà e nella autorevolezza tributatagli da quegli stessi uomini che, simultaneamente (negli anni 70-80), si accingevano a trovare una "strada" di realizzazione politica.
Riportiamo il brano tratto dal post sopra linkato:
"Il libro che stiamo discutendo contiene una autentica “chicca”, che non potevo non segnalare. Alle pagg. 118-124 viene infatti discusso un saggio di Hayek del 1939, “The Economic Conditions of Interstate Federalism”. In questo saggio Hayek discute le condizioni di un ordine internazionale rivolto alla pace.
Hayek pensa ad una federazione di Stati, e la cosa davvero interessante è la sua discussione, come dice appunto il titolo, delle conseguenze economiche di una tale federazione. Con logica stringente, Hayek dimostra che una federazione fra Stati realmente diversi porta necessariamente all'impossibilità di un intervento statale nell'economia, e quindi alla vittoria di politiche economiche liberiste (il che ovviamente dal suo punto di vista è un bene). Infatti una federazione per essere stabile ha bisogno di un sistema economico comune e condiviso, e quindi della libera circolazione di merci e capitali, e questo porterà ovviamente a una perdita di controllo dei singoli Stati sulle loro economie. Si potrebbe allora pensare che il controllo statale si sposti al livello federale. Il nuovo super-stato federale si riprenderebbe quei poteri di controllo sull'economia che i singoli Stati avranno perso. Hayek risponde di no. Perché l'intervento statale sull'economia presuppone la capacità di mediare fra interessi contrapposti, di accettare compromessi ragionevoli, che non ci sono, o sono più difficili, fra popoli di Stati diversi. Come scrive Streeck riassumendo Hayek,

"in una federazione di stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all'interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un'identità in nome della quale superare i conflitti stessi (…). Un'omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee (pagg.121-122)"

Si tratta ovviamente della stessa tesi che abbiamo sostenuto più volte nel nostro libro e in questo blog: non esiste un popolo europeo che possa essere la base sociale di uno “Stato sociale europeo”. E' impressionante la lucidità di Hayek, che aveva capito tutto questo nel 1939. Tanto di cappello. Ma la cosa davvero impressionante sono gli attuali “intellettuali di sinistra” che questa cosa non la capiscono nemmeno oggi, 2013, nemmeno dopo che tutto ci è stato squadernato davanti. E magari sono gli stessi che pensosamente si interrogano sui motivi della crisi della sinistra" 




Una sorprendente osservazione e le, altrettanto sorprendenti, risposte che ne sono seguite nella importante sede dei commenti su Goofynomics, sono lo spunto per questo post.
Non si tratta, chiariamolo subito, di dar voce, unilaterale, alla propria personale replica al fine di prevalere in una disputa. Dati i termini della questione, riassumibile nell'interrogativo "E' o non è Von Hayek collegabile alla costruzione europea, culminata in Maastricht?", ritengo che questa sia piuttosto la sede per un chiarimento più ragionato e puntuale, che la sede dei commenti di un blog non consente esattamente di fare.
Il che lascia aperto, al dibattito susseguente, in questa o qualsiasi altra sede, il fare un ulteriore arricchimento dei punti di vista legittimamente e documentatamente esprimibili.
Quello che poi qui verrà esposto è necessariamente un'operazione divulgativa. Per affrontare problemi di questa portata "funditus", occorrerebbero i famosi "fiumi di inchiostro" e probabilmente uno o più consistenti "libri" che, però, si leggerebbero poche persone.
Uno dei problemi più rimarchevoli che affligge le scienze sociali, è che, come dice il mio amico Cesare Pozzi, illustri autori vengano citati, citatissimi, ma in realtà molto meno letti.
Quindi si rassicuri Istwine, non faccio affidamento su fonti di seconda mano di facile diffusione sul web, ma, laddove non riporterò "l'originale", ho prescelto fonti quantomeno "serie" in quanto capaci di rimanere aderenti al testo che commentano. E d'altra parte questa utilizzazione delle fonti non è meno attendibile di quella normalmente usata nelle sedi scientifiche e non dichiaratamente divulgative (e sfido chiunque a constatarlo, proprio prendendo visione di tale tipo di testi).
Quindi che si crei, nelle scienze sociali, e specificamente in economia, una "vulgata", non è problema che riguardi Keynes o Von Hayek, soltanto, ma praticamente tutti.
Quanto questo sia un male non è possibile stimare con atteggiamento "sdegnoso" dell'intellettuale "puro" (a cui la purezza potrebbe dare modo di essere attaccato a sua volta proporio sul piano che voleva rivendicare).
Le "vulgate", se soffrono di imprecisione e quindi di forti margini di errore (o, come direbbe Popper, di "falsificabilità"), spesso riflettono una "autenticità" che è direttamente proporzionale a un fenomeno intellettuale del nostro tempo (diciamo dell'evo contemporaneo): i protagonisti del "pensiero" sono portatori, in modo di gran lunga prevalente (personalmente eccettuiamo, in questo campo, proprio Keynes, che spicca per la ricchezza e varietà dei temi culturali che sa affrontare) di ben poche idee originali che si compendiano, in definitiva, in una o due idee-guida.
Molte lunghissime esposizioni, quindi, sono in realtà il frutto di citazioni, (come ha ben enfatizzato Borgés nel parlare della cultura moderna come "sistema di citazioni"), spesso inconscie, cioè frutto di una formazione culturale che non viene resa coscientemente manifesta da chi la utilizza. Problema, di pre-comprensione, particolarmente evidente in Von Hayek. Queste "citazioni precomprese" sono poi utilizzate a fini confermativi e rafforzativi di concetti frammentati molto analiticamente, in corollari quasi tautologici, e spesso rielaborati in continue parafrasi.
Questa tendenza alla parafrasi "autodimostrativa" è particolarmente evidente in Hayek che, come autore, si presta particolarmente a operazioni "riduzionistiche", senza che ciò finisca per fargli particolarmente torto.

1- PREMESSA
Per inquadrare la questione che andiamo ad affrontare, occorre subito sottolineare una componente storico-politica di grande portata. Qui la premettiamo per poi riprenderla sui singoli argomenti.
Quando si propone un modello normativo generale, come si trova inevitabilmente a fare von Hayek, non ci si limita a predicare, come suo substrato giustificativo, "causale", un modello economico assolutamente "teorico", cioè svincolato dalla esigenza di "correggere l'esistente": si formula necessariamente una critica all'assetto sociale di un certo momento storico.
Tralasciando la questione problematica della necessaria scelta di quali caratteristiche, piuttosto che altre, defniscano tale assetto, (problema metodologico che è insito in ogni trattazione delle scienze sociali), l'operazione critica si risolve inevitabilmente nella critica al modello normativo generale precedente.
Cioè, se è vera la "vulgata" che il diritto consegue alla "struttura economica", postici su un piano storico, il voler affermare una diversa "struttura" - in particolare Hayek, parla proprio di "struttura del capitale", connettendola alla libera formazione dei prezzi , di tutti i prezzi di ogni possibile bene o servizio, come indice di una sua progressiva costante razionalità-efficienza-, significa, anzitutto, rimuovere gli ostacoli normativi (Hayek parla di "Legge" e "legislazione") che il precedente assetto strutturale ha creato nel darsi il proprio ordinamento, (più o meno) storicamente indentificabile.

Questo aspetto ci dà un'importante chiave di lettura: trasposto dalla teoria, quale appunto espone Hayek, alla pratica della "politica", il modello di assetto socio-economico "nuovo", dovrà necessariamente dotarsi di una "strategia", che gli consenta di affermarsi attraverso un PROCESSO (modificativo proprio del precedente assetto normativo) di periodo più o meno lungo. Questo perchè, appunto trasposto un modello dal piano ideologico a quello politico, si dovrà necessariamente tenere conto delle "resistenze al cambiamento" che si manifesteranno, da parte delle componenti sociali che subiscono i cambiamenti della posizione in precedenza normativamente garantita.
E quindi si cerca piuttosto di fissare dei "nuovi" obiettivi e agire con coerenti "strumenti" che, all'interno del processo, cioè nel tempo, pur non riflettendo immediatamente l'assetto finale da realizzare, ne consentono la progressiva affermazione.

Solo comprendendo questo necessario legame tra "fini" e "strumenti", e la sottostante connessione tra modelli economici e modelli normativi che si mira ad avvicendare, si può comprendere la "costruzione europea" e il suo legame con la matrice culturale hayekkiana.
Altrimenti, in una visione statica, si finirà, come fa, a nostro parere, il nostro buon Istwine, per enfatizzare, appunto, visioni statiche (come nel caso in cui si confonda uno stock con un flusso) e concludere che il modello finale è ben diverso dalla rilevazione delle linee strategiche, cioè dinamiche, che lo vogliono attuare.
In termini più espliciti: von Hayek propone un radicale modello che, al di là della sua intrinseca bontà e praticabilità, quando è adottato dai suoi "realizzatori politici", esige di tener conto della realtà storica delle Costituzioni democratiche pluriclasse affermatesi in tutto il continente europeo (più o meno) nel "secondo dopoguerra". Perciò quello che premette ai fondatori di Maastricht era:
a) di fissare dei fini. In particolare la "forte competizione", che desse risalto al sistema di formazione dei prezzi come fulcro ordinativo di una società "efficiente" e libera (nella visione esplicita hayekkiana) nonchè la "stabilità dei prezzi" stessi, cioè il controllo assolutamente prioritario dell'inflazione (altro "valore assoluto" hayekkiano, certo ripreso da tutta la teoria economica che si pose sul suo solco). In tal senso basti vedere non solo la formulazione, ma la stessa prassi applicativa "inderogabile" e priva di mediazione con cui è stato inteso l'art.3 del trattato istitutivo dell'Unione;
b) stabilire gli opportuni strumenti strategici: su tutti, nonostante la "apparenza", e per le ragioni storiche qui più volte indicate, la banca centrale indipendente, considerata, a torto o a ragione, la cinghia di trasmissione di quella "disciplina salariale" che Hayek ritiene un presupposto indispensabile del "nuovo ordine". E quindi poco importa, in chiave strumentale, che egli non ne sia stato il diretto teorizzatore (ma anche su questo la conclusione non è affatto scontata).

D'altra parte, lo stesso Hayek è perfettamente cosciente della distinzione tra modelli teorici e strategie di loro realizzazione, di cui si disinteressa per personale visione della sua funzione intellettuale:
“Penso fermamente che lo scopo principale del teorico dell’economia o del filosofo politico sia di agire sull’opinione pubblica per rendere politicamente possibile quello che forse oggi è politicamente impossibile, e quindi l’obiezione che le mie proposte sono attualmente impraticabili, non mi scoraggia assolutamente a svilupparle.”.


2- MODELLI COMPARABILI E...NON
Alla luce di questa "premessa" analizziamo la proposta comparativa tra modello hayekkiano e modello UE che, secondo Istwine, proverebbe la estraneità di Hayek medesimo al secondo.
Poi ci occuperemo di come, in effetti, con riferimento al modello UE-UEM, la sua sintesi si riveli frutto di inesatte valutazioni circa il contenuto della relativa disciplina dei trattati, nonchè circa la appartenenza di taluni elementi, indicati come "europei", a tutt'altra origine normativa.
Ecco il modello "comparativo" proposto:
"Eurozona:
1) BCE indipendente che fissa i tassi e interviene a sua discrezione. Così pure FED e virtualmente tutte le BC.

2) Tra QE e LTRO + tassi bassissimi, si può dire tutto fuorché "politiche monetarie restrittive".

3) Restrizioni a determinate libertà, in alcuni Stati esiste il reato d'opinione sostanzialmente e ti fai il carcere.

4) Monopoli e oligopoli, con evidente potere politico (cosa che Hayek aveva capito peraltro, come tanti altri, Galbraith ecc)

5) Tassazione a livelli elevati, spesa pubblica in termini di PIL non certamente bassa e burocrazia abnorme. Il caso italiano è emblematico. Tutt'altro che lo Stato minimo teorizzato da Hayek, tutt'altro che le regole previste dalle tesi originarie dei neoliberisti.

Hayek:
1) Concorrenza fra moneta, a livello pubblico e privato.

2) I tassi li fa il mercato.

3) Libertà personali sacrosante, lui peraltro scriveva criticando i totalitarismi dell'epoca.

4) Libero accesso all'attività economiche e minime restrizioni in termini burocratici. Lo stato fa le regole, ma non interviene. E fa le regole in funzione del bene pubblico, non dei monopolisti.

5) Lo Stato minimo di Hayek appunto.
3- LA MONETA
Partiamo da questo primo elemento che, più di ogni altro, segnalerebbe la esplicita contrarietà di Hayek alla stessa moneta unica, in quanto comunque espressione di un, per lui deleterio, monopolio di quello che dovrebbero essere un bene scambiabile, come ogni altro, in base a libere fluttuazioni della domanda e dell'offerta.
Ma le ragioni per cui v.H. si oppone alla moneta unica, cioè in quanto e solo in quanto, permarrebbe, in monopolio (più o meno pubblico), sono in un senso che è del tutto diverso da quello segnalato da altri "oppositori" all'euro.
Per v.H., e questo va tenuto sempre presente, l'euro non è sufficiente a garantire la stabilità del valore monetario ai fini della eliminazione dell'inflazione e della deflazione-disciplina salariale.
Di questa intrinseca funzione-finalità ideale del bene-moneta abbiamo prova dalle sue stesse parole, già riportate nella parte finale di questo post. E il suo richiamo ad un ritorno al gold standard come soluzione ottimale globale, in ben manifesta connessione alla deflazione ed alla disciplina salariale, in contrapposizione alla logica inflazionistica della "piena occupazione" (prima che sul punto intervenisse la "sintesi" dialettica di Modigliani), non dovrebbe lasciare alcun dubbio.
Se v.H. ha una concezione della moneta in concorrenza libera tra pubblico e privato, questo ha precise finalità.
In "Denationalisation of money: the argument refined” espone la sua idea al riguardo così sintetizzata in un commento non certo "critico", ma piuttosto fedele:
"Hayek parte dalle ben conosciute tesi austriache: l’inflazione è un male assoluto poiché impedisce un calcolo economico corretto e provoca distorsioni e cattivi investimenti che, se si prolungano, non possono risolversi altro che per crisi; l’inflazione è il risultato di un’eccessiva creazione di moneta, e i responsabili sono i governi. Vi aggiunge tre semplici idee:
- chiunque possa produrre moneta, ha interesse a produrne il più possibile;
- la moneta è un bene come un altro;
- per tutti gli altri beni, è la concorrenza che modula la produzione sui bisogni.
Egli conclude che la stabilità monetaria sarebbe meglio assicurata da un regime di libera concorrenza fra monete rispetto all’attuale gestione statale, e cerca di dimostrarlo analizzando quello che verosimilmente succederebbe se i paesi del Mercato Comune s’impegnassero reciprocamente a non mettere più alcun ostacolo sui loro territori né alla libera circolazione delle monete nazionali né al libero esercizio dell’attività bancaria."

Senza dilungarsi troppo sull'argomento, vediamo quali sarebbero i vantaggi delle "monete in concorrenza", nelle sue stesse parole e compariamoli con quelli che, "strategicamente", l'euro cerca di perseguire, e sui quali abbiamo innumerevoli conferme, sia a supporto che radicalmente critiche di queste stesse finalità:
“- una moneta di cui si pensa che conserverà un potere di acquisto più o meno costante, sarà oggetto di domanda permanente fintanto che le persone saranno libere di utilizzarla;
- se tale domanda dipende dall’effettivo mantenimento a un livello costante del valore di questamoneta, si potrà dare confidenza alle banche emettitrici di fare tutti gli sforzi necessari per giungervi meglio di un monopolista che non corre alcun rischio deprezzando la propria moneta; 

- gli emettitori possono giungere a questo risultato regolando la quantità di moneta che emettono;

un tale regolazione della quantità di ciascuna moneta è il migliore di tutti i metodi praticabili per regolare la quantità dei mezzi di scambio.”

Il substrato comune "ideale" tra il "nostro" e il metodo euro-BCE, quale istituzione "unica" di gestione della moneta, risulta certo parzialmente compromissorio. Ma rimane, nei "fini" enunciati normativamente nei trattati a partire da Maastricht, quello della stabilità del valore monetario, cioè pratica assenza di inflazione, e della visione monetaristica "quantitativa".
I riflessi a cui entrambe le soluzioni, con diversa gradualità (v.H. esplicitamente non si curava di questo aspetto, l'abbiamo visto), rimane quello della curva di....Phillips: la disoccupazione "naturale" (cioè l'abbandono della piena occupazione) e il conseguente calo dei salari reali sono indispensabili caratteristiche del modello sociale da attuare.
Certo, per v.H. il gold standard rimane una soluzione ideale, ma egli ammette che poiché si ha "l'assurda" pretesa che, nell'economia internazionale aperta, i paesi in surplus debbano sopportare (con la rivalutazione) il peso degli aggiustamenti, il valore della stabilità (assenza di inflazione) possa essere "almeno" garantito da quanto egli propone.
Questo passaggio è direttamente indicativo:
“Resterebbero nel mondo libero più monete largamente utilizzate e molto simili. In vaste regioni una o due fra queste sarebbero dominanti, ma queste regioni non avrebbero confini né precisi né fissi, e l’uso delle monete dominanti in ognuna si sovrapporrebbe in zone frontaliere larghe e fluttuanti. La maggior parte di queste monete farebbe affidamento a un paniere di beni simili e fluttuerebbero molto poco le une in rapporto alle altre, probabilmente molto meno delle monete dei paesi oggi più stabili, ma un po’ di più delle monete che riposano su un gold standard.”
Ora sulla assimilabilità degli effetti (essenziali, non parliamo di totale coincidenza) dell'euro, all'interno della sua area di utilizzo, al gold standard, esistono ben precisi attestati scientifici sulla cui autorevolezza non si sollevano particolari obiezioni.
In questo quadro di finalità e obiettivi, realizzati in UEM con una certa "tragica" tangibilità, la vera discrasia che potrebbe lamentare v.H., alla luce delle sue stesse parole, è quella della limitazione, quoad effectum beninteso, alla sola Europa dei 17, dello schema generale che lui auspica per il mondo intero.
Ma, intanto, per noi "euroti" che subiamo le linee fondamentali delle sue teorie, è una ben magra consolazione il fatto che non tutto il mondo sia coinvolto nella stessa follia deflazionista, specialmente a seguito dello shock 2007-2008. Il quale, se non altro, ha avuto il merito di far ripensare, solo fuori dall'UEM, purtroppo, il mito" quantitativo" della moneta, che v.H. vuole realizzare senza porsi alcun dubbio teorico.


4- Q.E., LTRO E POLITICHE MONETARIE "RESTRITTIVE"
Circa i"tassi li fa il mercato", secondo v.H., e invece in Europa, "Tra QE e LTRO + tassi bassissimi, si può dire tutto fuorché "politiche monetarie restrittive", ci limitiamo a dire:
a) ci pare pacifica la non assimilabilità tra LTRO, operazioni di rifinanziamento del sistema bancario, e QE, operazione di finanziamento diretta degli Stati, senza agire sul sub-strato carry trade di collaterali.

L'UEM, a differenza della Fed (della BoI, della BoJ e via dicendo, praticamente all'infinito...) ha un piccolo particolare: l'art.123 del trattato sul funzionamento dell'Unione, che vieta l'acquisto di titoli del debito dei singoli Stati.
Questa è una caratteristica fondamentale, che differenzia la "roccaforte" UEM rispetto al resto del mondo, nell'intendere in modo "integralista", e rigidamente monetarista, cioè in base ad un dogma fondamentale per v.H., che lo indirizza proprio contro gli effetti deprecati del deficit pubblico,causativo di inflazione, per sostenere la "improvvida" piena occupazione.
Sulla consonanza di obiettivi (dogmi), strategico-strumentali della BCE (sicuramente sotto l'influenza di Bundesbank, ma il discorso non cambia, anzi), con lo schema hayekkiano stesso, non riesco a nutrire dubbi.
Si tratta di una mera applicazione della differenza tra "proposta..filosofica" e suo sviluppo politico, apertamente contemplata da V.H.

La "restrittività" delle politiche monetarie UEM - così come il valore dei tassi "bassi", andrebbe valutata comparativamente (in primis agli USA) e nell'intero periodo di vita dell'euro.
Cioè nel contesto di un mondo che ha registrato, e tutt'ora vede, sia un differenziale dei livelli dei tassi (più alti) tutt'ora praticati dalla BCE (in assenza di qualunque seria minaccia inflattiva), sia, più ancora, la pregressa politica di "credibile" mantenimento di tassi ancor più elevati, e considerati pro-ciclici, nel periodo di iniziale vita dell'euro e specie all'indomani della crisi del 2007-2008 (quando i tassi furono addirittura innalzati mentre si procedeva al rifinanziamento, statale e BCE, del sistema bancario, incuranti della presunta attivazione di un presunto meccanismo di trasmissione alla effettiva offerta monetaria, ma rimanendo attentissimi all'ossessione dell'inflazione).
La "politica monetaria restrittiva"della BCE, rispetto al "resto del mondo" (comparabile) è un fatto, appunto, "comparativamente" rilevabile in termini storici: dunque, andrebbe valutata alla luce di queste "finalità" (stabilità dei prezzi e disciplina salariale), senz'altro comuni a v.H. e allo "strumento" BCE. E risalta, altresì, drammaticamente proprio con le contestazioni tedesche al programma OMT, su cui rinviamo alla limpida analisi di De Grauwe
Certo non ci sfugge che il fatto che "le banche centrali non possono fallire" (in regime di cambio flessibile, extra UEM beninteso) non sarebbe piaciuto affatto a v.H.: ma ribadiamo, l'aspetto monetario teorico-ideale, recede di fronte all'obiettivo strategico di combattere inflazione e...piena occupazione.
Sicchè l'invocazione continua attuale delle "riforme strutturali" (del mercato del lavoro), sarebbe senz'altro parsa un beneficio, agli occhi dello stesso v.H.. Un "progresso fondamentale" per cui poteva valere la pena di transigere sullo schema teorico.
Diamo atto, piuttosto, che Hayek fosse abbastanza razionale da comprendere quale dovesse essere la scala delle priorità e la relazione tra esse e i mezzi per realizzarle.

5- RESTRIZIONI ALLE "LIBERTA'" E REATI D'OPINIONE.
Qui la perplessità rispetto allo schema del (sempre stimato) Istwine, giunge a ben più facili argomenti di confutazione. Semplicemente perchè:
a) bisogna capire, sul piano della teoria generale del diritto (che non è affatto una cosa così scontata e facile da maneggiare, in base alle proprie impressioni lessicali) cosa siano, per v. H., le "sacrosante libertà personali";
b) bisogna, capire, e in base ad agevoli riscontri di diritto positivo, sia nei vari livelli nazionali sia quale sancito nei Trattati, che l'UE con i reati d'opinione non c'entri proprio nulla.


a) Sul primo aspetto.
La concezione dei "diritti di libertà" di v.H. si incentra sulla rigida priorità del diritto di proprietà, statico, cioè inteso quale titolarità attuale del relativo diritto, sia dinamico, inteso come organizzazione di beni in termini aziendali (questa è la corretta versione giuridica), capace di dare un flusso di ulteriori beni, un "reddito", di cui si acquisisca la (più incondizionata possibile) proprietà.
Si interessa, poi, v.H. ad altri diritti-libertà che non siano legati alla proprietà-titolarità ed alla sua proiezione dinamica in termini produttivi?
Sì, certo, ma soltanto per predicarne la natura di prevaricazione da parte dello Stato, che, secondo lui demagogicamente li garantisce, sugli individui-proprietari che ne sarebbero invariabilmente danneggiati. E con essi tutta la società.
Cioè gli individui-proprietari, assunti nella loro proiezione produttivistica, risultano danneggiati da "ogni altro diritto", in particolare dai diritti sociali e politici stessi (in quanto indifferenziatamente estesi a tutta la massa, non legittimata dalla condizione "naturale" di titolarità proprietaria).
Rinvio in proposito a una fonte abbastanza ben riassuntiva del tema, dato che la lettura di "Law, Legislation and Liberty" è certamente ardua, specialmente per un non tecnico del diritto, dato che, quantomeno, occorrerebbe avere una conoscenza del resto della enorme elaborazione in materia di "diritti fondamentali" (di cui in questo post abbiamo offerto una sintesi e che amplieremo nel "libro" di prossima pubblicazione).
Insomma tutto questa "sacro" libertarismo, nell'apparenza delle enunciazioni così "affascinante", è, nella sua visione, necessariamente riservato a "pochi".
"Ciò che più interessa a Hayek è dunque la libertà concepita come protezione mediante la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria (freedom from) e non come rivendicazione del diritto di ognuno di partecipare alla determinazione della forma di governo (freedom to). In tale impostazione, acquista grande rilievo il discorso sullo Stato, che deve avere essenzialmente un ruolo secondario e negativo, deve intervenire il meno possibile nell’ambito di autonomia individuale e deve garantire, grazie a leggi generali, il pieno dispiegarsi delle libertà individuali, assicurando solide barriere a difesa dei “territori” dei singoli individui. La proprietà privata, intesa lockeanamente come diritto alla “vita, alla libertà e ai beni”, è, di conseguenza, il fondamento di ogni civiltà evoluta."


Sulla proprietà, ecco cosa dice Hayek (e attenzione, non contestiamo la appartenenza di quest'ultima al novero dei diritti fondamentali, ma, attenendoci alla nostra Costituzione, la consideriamo "una" delle posizioni in cui si esprime la dignità ed il valore dell'esistenza umana):
“è la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti. Legge, libertà, proprietà sono una trinità inseparabile. Non vi può essere alcuna legge, nel senso di regola universale di condotta, che non determini confini di aree d’azione, stabilendo regole che permettono a ciascuno di accertare fin dove egli è libero di agire” (Law, Legislation and Liberty).
E gli "altri diritti", ad esempio, quello al lavoro, a ricevere un'istruzione, all'assistenza sanitaria, alla stessa partecipazione politica al di fuori di una condizione di titolare della "proprietà"?
Per Hayek, siamo nel campo, incondizionatamente, delle discriminazioni, il che, sul piano logico, come evidenziato da Bobbio (ad esempio), significa che si ammette solo una condizione "naturale" di "soggetto di diritto", quella di proprietario; si prescinde da qualsiasi indagine sul come e perchè questa sia distribuita in un certo modo nella società, e si nega natura generale legittimante ad ogni altro aspetto della personalità umana.
Questo eventuale ulteriore aspetto, per v.H., può solo essere la "innaturale", creazione di uno Stato invasore, che instauri una legislazione (contraria al vero Spirito della Legge) che finirebbe per assumere esclusivamente valore di limitazione della condizione naturale del "proprietario" e di instaurazione di un regime di "privilegio" e di favoritismo (!), cioè di inaccettabile ingiustizia.
In questo, Hayek rivendica di ritenersi incurante del fatto che la "legislazione", quando non sia rivolta a sancire l'astensione dello Stato dall'interferenza sulla proprietà, riguardi o meno la schiacciante maggioranza della popolazione. A quest'ultima non riconosce alcuna legittimazione "naturale" a sollevare il conflitto sociale. Negando, anzi, ogni valore al concetto di democrazia, che propone di sostituire con quello di "demarchia" per sottolineare la sua natura di sopraffazione perpetrata da una maggioranza che non può mai raggiungere una legittimazione naturale al governo.
“L’imperio della legge […] comporta dei limiti al campo della legislazione; esso lo restringe a quel tipo di regole generali cui si tributa il nome di leggi formali ed esclude la legislazione che miri direttamente a persone determinate o che metta in grado qualcuno di usare il potere coercitivo dello Stato ai fini di una tale discriminazione. Esso non significa che tutto deve essere regolato dalla legge, ma significa all’opposto che il potere coercitivo dello Stato può essere usato soltanto in casi anticipatamente definiti dalla legge e in maniera tale che si possa prevedere come sarà impiegato” (Verso la schiavitù).

E dunque (anche questo è un sunto fedele):
"Una delle forme più diffuse di interferenza è sicuramente la legislazione in materia di giustizia sociale, la quale tende a modificare la posizione economico/sociale delle persone favorendo (ad esempio attraverso la tassazione) le persone meno agiate. Su questa tematica, la posizione di Hayek è assai drastica: le persone svantaggiate (i poveri, gli ammalati, i portatori di handicap, le vedove, gli orfani, ecc) debbono essere protetti da una “rete” che assicuri loro il minimo necessario alla sopravvivenza, ma ciò deve avvenire al di fuori del libero mercato e non come intervento correttivo del mercato da parte della legislazione. Assicurare un reddito minimo a tutti è, secondo Hayek, un dovere della società libera: ma ciò deve verificarsi tramite l’assistenza e non cambiando in modo artificiale le regole del mercato.
Tra i vari compiti dello Stato, spicca quello di costruire strade, fissare indici di misura, di fornire altri tipi di informazioni (attraverso mappe e cartelli stradali, ad esempio) e di controllare la qualità dei beni e dei servizi. Ma riguardo ad altri servizi, come ad esempio quello postale, quello dell’istruzione e delle telecomunicazioni, il monopolio dello Stato è pernicioso al massimo, oltre che inefficiente.
Da questa posizione, ben emerge l’immensa fiducia nel libero mercato che, pur non funzionando sempre in modo perfetto, presenta benefici che superano di gran lunga gli svantaggi. Indubbiamente suggestionato dalla “mano invisibile” di cui parlava Adam Smith, Hayek è convinto che il mercato riesca ad armonizzare in maniera spontanea le decisioni dei produttori con la volontà e coi desideri dei consumatori, senza la mediazione del governo, e che assicuri il perseguimento dei propri scopi a tutti, sviluppando altresì quella che Hayek chiama la “Grande Società”, cioè la moderna società complessa, che sfugge a ogni pianificazione centralizzata poiché si affida solo all’iniziativa individuale e al meccanismo della concorrenza."

Siamo coscienti che non riusciremo a far cambiare opinione al brillante Istwine, ma se si conserva un "senso comune" della democrazia, è difficile trovare "affascinante" l'idea individualistica-libertaria di v.H. E tantomeno attribuirgi una "sacralizzazione". E per nostra (purtroppo oggi cagionevole) fortuna.

b) Sul secondo aspetto.
I "reati d'opinione" non sono una costruzione europea.
L'Europa si disinteressa "operativamente" della materia con la famosa clausola dell'art.6 del TUE. Lascia la materia alla sfera di competenza degli Stati. E alle enunciazioni delle varie Carte dei diritti, entrate a far parte del diritto internazionale generale.
E neanche a dire che i "reati di opinione" non siano stati affrontati e stigmatizzati, più o meno direttamente, nelle Costituzioni democratiche, sicuramente in epoca anteriore a Maastricht, e nello stesso diritto internazionale generale.
Il punto è che sia la Corte costituzionale che la stessa Corte Europea dei Diritti dell'Uomo prendono da decenni posizione, cassandoli, sui vari "reati" di questo tipo, caratterizzati da clausole spesso incentrate sulla tutela della "personalità dello Stato" o il "sentimento religioso", cioè clausole c.d. "generali", in cui è più forte il pericolo della indefinizione dei presupposti che possono portare alla punizione dell'individuo.
In Italia, la materia è stata rivisitata, sulla scorta di varie pronunce della Corte costituzionale, dalla legge 24 febbraio 2006, n.85.
Ma è un fatto che, se la Corte non è intervenuta prima degli anni 2000, è perché questi reati sono praticamente in desuetudine, cioè in concreto disapplicati. E grazie all'art.21 Cost.: ma più ancora, alla grande sensibilità che la Costituzione democratica pluriclasse ha innervato nel senso condiviso della comunità (smentendo che questo possa mai incentrarsi sul solo "diritto di proprietà") senso condiviso che v.H.avrebbe certamente condannato, perché frutto della deprecabile "demarchia".

Come pure è un fatto, che a seguire la teoria generale dello Stato e del diritto naturale (Legge) di V.H., oggi, avremmo come fattispecie penali, duramente punite, lo "sciopero" e l'"associazione sindacale".

6- MONOPOLI E OLIGOPOLI
Su questo punto, è veramente difficile vedere una divaricazione tra teorie hayekkiane e trattati UE.
Ovviamente, bisogna precisare ciò che v.H. sosteneva veramente in materia, come vedremo.
Per suo conto, il TFUE (ma già la versione originaria di Maastricht), contiene una vasta serie di previsioni su monopoli e concorrenza, che sono alla base del diritto antitrust introdotto, per la prima volta, in Italia. Il TFUE:
- all'art.101 prevede e sanziona (con la "nullità di pieno diritto"), come "incompatibili con il mercato interno" le varie forme di trust, accordi fra imprese, intese, e simili;
- all'art.102, colpisce allo stesso modo "lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante";
- al'art.106, colpisce con una sostanziale "incompatibilità" col trattato le posizioni di monopolio pubblico, ammettendone il mantenimento alla rigida vigilanza della Commissione sul rispetto delle norme (artt. 18 e da 101 a 109), inclusive dell'"abuso di posizione dominante", dettate sulla stessa "libera concorrenza".

Di sicuro, in questo quadro, l'UE non può essere accusata di aver creato o incentivato monopoli, cartelli od oligopoli. Tranne che per il sistema bancario, rimasto in un "limbo" di controllo delle varie banche centrali (e della stessa BCE, pur nelle grandi difficoltà che la sua competenza accentrata, a livello UEM, sta non casualmente incontrando). E ciò per ragioni, molto hayekkiane, connesse però al vigente mercato libero globalizzato dei capitali e alla natura "universale" , cioè non più legata alla sola intermediazione finanziaria in senso commerciale, dell'impresa bancaria, introdotta proprio sulla spinta europea (ma appunto non certo contraria alla visione di H.).

Per confermare, semmai, la non contrarietà (almeno) del diritto europeo con la visione di v.H. vediamo quale fosse il relativo impianto teorico.
Questo è (relativamente) facile da ricostruire e lo facciamo, in questa sede divulgativa (anche se i problemi qui trattati si sono già rivelati abbastanza complicatucci).
Come si può registrare da un commento sul tema, fortemente critico, ma non meno accurato, esiste una precisa fonte in cui confluisce la posizione di Hayek, ed in cui, pur risultando confluente con quella di altri esponenti della sua stessa "scuola" (diramatasi da von Mises), possiamo identificare i termini della sua analisi teorica: il c.d. "Colloquio Lippmann".
Sulla intima adesione di Hayek a quella "analisi fondativa" di un neo-liberismo in cerca di affermazione abbiamo la prova nella sua stessa vicenda personale.
Questi i punti salienti elaborati in quella sede, una sorta di "convenzione generale" del liberismo (li riporto dalla predetta fonte, per l'impostazione, quasi da "verbale" della riunione che essa ci fornisce):
"All’incontro ci sono tutti i nomi che contano del neoliberalismo: Hayek, von Mises, Rustow, Röpke e il segretario generale della riunione è niente di meno che Raymond Aron. Questo colloquio è importante perché proprio durante le discussioni verranno fissati i punti cardinali del neoliberalismo. Uno di questi signori, Miksch, dice: “in questa politica neoliberale è possibile che gli interventi economici siano tanto ampi e numerosi quanto in una politica pianificatrice, ma sarà la loro natura a essere differente”. Perché esprime un concetto così strano per un liberale? Perché dice che lo Stato dovrà intervenire pesantemente? Sembra una contraddizione in termini. Ma non lo è.
Miksch e i suoi compagni di merende stanno pensando al problema dei monopoli. Qualcuno (qualcuno di nome Marx) aveva fatto notare da tempo che, quando il mercato viene lasciato libero di autoregolarsi, tendono a formarsi dei monopoli. E si era notato che proprio i monopoli tendono a strangolare il libero mercato. Perciò si era detto: “non è vero che il mercato lasciato libero di agire si autoregola, anzi, semmai, con i monopoli che egli stesso crea muore da sé”. 

I neoliberisti in quella riunione del 1939 ribattono e dicono una cosa piuttosto strana: non è il mercato che crea i monopoli ma le azioni sbagliate dello Stato che, non vigilando sulla concorrenza in modo serio, lascia nascere i monopoli. Von Mises aggiunse un altro concetto: i monopoli si formano in mercati piccoli, nazionali. Il giorno in cui ci sarà un vero mercato mondiale, globale sarà impossibile la creazione di un monopolio
Ma, in fondo, aggiunge von Mises, perché preoccuparsi dei monopoli? Essi sono destinati a infrangersi perché quando un monopolista fisserà un prezzo troppo alto allora, all’interno dell’economia, sorgeranno imprese che praticheranno prezzi più bassi. Cioè: in ogni caso se il monopolista esagera con i prezzi il mercato reagirà. Così la principale obiezione di Marx veniva (apparentemente) eliminata.
Rimane il problema di capire come lo Stato dovrà intervenire. Ce lo dice un altro economista neoliberale, Eucken. Lo Stato, dice, deve intervenire con “azioni regolatrici”.
E le azioni regolatrici dello Stato vanno fatte non sull’economia ma sul funzionamento del mercato. Questo significa che si dovrà puntare sempre alla stabilità dei prezzi ossia quel che deve fare lo Stato è controllare a tutti i costi l’inflazione. Lo Stato non dovrà mai calmierare i prezzi, non dovrà mai sostenere un settore in crisi, non dovrà mai e poi mai creare posti di lavoro attraverso l’investimento pubblico. Lo Stato dovrà solo controllare l’inflazione. Come? Attraverso il tasso di sconto, attraverso l’abbassamento delle tasse. Ma mai con una politica che turbi l’economia.
E per la disoccupazione lo Stato che dovrebbe fare? Per Eucken e per i neoliberali lo Stato non dovrebbe fare nulla.
Il disoccupato non è una vittima – dice un altro neoliberale, Röpke – il disoccupato è solo un “lavoratore in transito” che passa da una attività non redditizia a una più redditizia. Ma lo Stato userà le “azioni regolatrici” solo dove si presenti la necessità, normalmente invece dovrà lavorare per garantire le condizioni di esistenza del mercato. Lo Stato dovrà garantire l’esistenza del “quadro” come lo chiamano i neoliberali nel 1939. Garantire il “quadro” è possibile attraverso le “azioni ordinatrici” 

I monopoli, dunque, si legano, a vario titolo, quasi esclusivamente alla "responsabilità dello Stato, la cui azione va dunque limitata, come sempre rigidamente, al controllo dell'inflazione.
Il monopolio nasce, dunque, o perchè lo Stato non agisce in "regolazione" (l'unica ammissibile) sul funzionamento del mercato, o perchè, peggio ancora, riservi a se stesso una posizione di monopolista.
Sappiamo (lo abbiamo visto poco sopra) che per v.H. ciò investe non solo attività di rilevanza economica, ma anche altre di sicuro interesse pubblico prevalente, esercitate attraverso la forma legislativa della "pubblica funzione".
Un fardello inammissibile per v.H., che considera la costruzione di strade, la fornitura di "indicazioni e segnaletica" e la verifica della qualità di beni e servizi le uniche attività con cui, lo Stato, può tangenzialmente sfiorare l'attività economica e la proprietà "libere". Naturalmente lo Stato dovrà anche vigilare su ordine pubblico e apprestare, in una certa misura, la difesa nazionale.
La visione di Hayek sul questi ultimi punti è tale che non esclude, in astratto, che larga parte della pubblica sicurezza e della repressione dei reati possa essere svolta in forma di servizio affidato alla libera concorrenza tra privati (contando poi che, come abbiamo sottolineato, "sciopero" e "associazione sindacale" rientrerebbero nelle fattispecie penali). Negli USA, si hanno varie applicazioni, più o meno estese, di ciò, ad esempio in quella branca della pubblica sicurezza che è la custodia dei carcerati. O la protezione degli interessi economici in terra straniera. Ma in Europa, come attesta la famosa direttiva Bolkenstein è un'idea in forte avanzamento, tenuta lontano dalle conseguenze hayekkiane solo da "eccettuazioni" che riflettono la "gradualità" strategica più volte menzionata.
In conclusione, monopoli e oligopoli, - affidati a una nuova regolazione "del mercato", escludendosi progressivamente lo Stato dal, mal visto monopolio pubblico (ed estendendone oltremodo il concetto), sul presupposto della simultanea garanzia del controllo dell'inflazione, così come previste dai trattati UE-, risultano, in sede UE, disciplinati in linea con la teoria di v.H.


7- STATO MINIMO E "ECCESSO" DI TASSAZIONE.
Le cose fin qui complessivamente dette, dovrebbero aver chiarito il concetto di "Stato minimo", caratterizzato da una "Legge" che pone al di sopra di ogni cosa il soggetto naturale di tutela, il "proprietario-produttore", escludendosi, come interferenza distorsiva, ogni altro tipo di "legislazione", in specie quella sociale, foriera di violazioni e privilegi rispetto alla condizione di "astensione" dello Stato che possa porre in pericolo questo, ben delimitato, concetto di libertà.
Attinta dalla generale condanna della sua arbitrarietà, l'attività dello Stato sarà da delimitare progressivamente alla costruzione di "strade"...e alla segnaletica, mentre non è esclusa la progressiva privatizzazione, per di più in un mercato di cui si auspica la apertura "mondiale", di attività come difesa e pubblica sicurezza; queste, poi, finiscono per essere, in ultima analisi destinate a tutelare la proprietà produttiva, sul territorio nazionale come all'estero. Istruzione, previdenza e sanità sono invece nel tipico campo di elezione della "libertà" dei privati operatori economici. Lo Stato minimo ne è doverosamente escluso.
Un "punto di arrivo" indubbiamente, ma non un obiettivo che può dirsi estraneo alla strumentazione messa in campo coi trattati europei.

Che questa sia una costruzione ideale, ma non tanto (nutrendo Hayek espressamente fiducia nel fatto che "un giorno" esisteranno le condizioni politiche per realizzarla:...vi ricorda qualcosa?), e non segna alcuna fondamentale incompatibilità col disegno UE-UEM, che, come già sul piano monetario, ammette un processo strategico che utilizza strumenti di progressiva realizzazione di tale "schema ideale" condivendendone i fini essenziali.
In questa chiave "progressiva" si possono comprendere anche gli elevati livelli di tassazione: si tratta di una condizione transitoria e, naturalmente strumentale, che sconta la modifica del precedente ordine costituzionale dei welfare, mirando a farlo collassare, per rigetto del corpo sociale, mediante la imposizione del vincolo monetario (ad effetti equipollenti "in parte qua" al gold standard) e dei ben noti "vincoli" di deficit e di ammontare del debito, posti rispetto ai bilanci pubblici.
I quali, naturalmente, in una fase iniziale, pazientemente durevole, debbono "rientrare", consolidarsi, aumentando l'imposizione fiscale, prima di poter procedere, verificatesi le condizioni politiche, al taglio strutturale della spesa pubblica.
Alla fine, la gente, avvertendo come insopportabile il costo dei diritti sociali, cioè del welfare, invocherà il loro smantellamento, pur di vedersi sollevata da questa insopportabile tassazione. 
Ed è, appunto quanto si sta verificando, segnatamente in Italia, verificandosi così la strumentalità della costruzione europea per la realizzazione del "fine": l'instaurazione del "meraviglioso mondo di Von Hayek".