VON HAYEK: L'IDEOLOGO DEGLI STATI UNITI D'EUROPA CHE SMANTELLANO L'AZIONE STATALE E DEMOCRATICA DI OGNI PAESE MEMBRO AL FINE DI RIDURRE IN POVERTA' ASSOLUTA E IN UNA CONDIZIONE DI ACCATTONAGGIO PERMANENTE MILIONI DI CITTADINI EUROPEI ANCORA LIBERI (FINO A QUANDO?).....
ANTEFATTO
...E ADDENDUM "PRELIMINARE"
Dopo la scrittura del post, ci siamo imbattuti in questa decisiva "fonte", offerta con una acuta analisi.
La fonte è interessante perchè dimostra la corrispondenza tra le teorie di Von Hayek e il programmatico esautoramento della sovranità costituzionale degli Stati democratici, attraverso la costruzione economica volta, in virtù di ben precisi strumenti, a instaurare la "grande società" del libero mercato.
Si tratta di un saggio di Von Hayek, del 1939: esso ci attesta la sua chiara precognizione degli effetti del "federalismo interstatale"; a cui egli, ovviamente, e proprio perché capace di realizzare i fini ideali con cui ritiene di modellare la società, era altamente favorevole.
La apparente disputa che ha dato luogo a questo post, conferma la netta differenza tra un confronto teorico di modelli astrattamente assunti in senso statico (come sintesi scientifiche) e ricostruzione storica delle forze e delle idee programmatiche che muovono i grandi rivolgimenti politici, strutturando bensì la realtà in difformità dagli schemi teorici, ma preservando strategicamente i fini essenziali.
E' altresì interessante constatare come in ambiti culturali autorevoli, ma, purtroppo, estranei all'Italia, il "retaggio" di V.H., rispetto alla costruzione europea, non è oggetto di particolari dubbi. Troppe tracce concettuali, e di concreta "formazione" di una certa classe dirigente europea, emergono prepotentemente perché ciò possa sfuggire a chi voglia sviluppare una seria ricostruzione storico-politica.
La "intenzionalità" di Von Hayek e la sua manifesta idoneità a costituire la fonte ispiratrice della "costruzione UE", si rinvengono con coerenza nella notorietà e nella autorevolezza tributatagli da quegli stessi uomini che, simultaneamente (negli anni 70-80), si accingevano a trovare una "strada" di realizzazione politica.
Riportiamo il brano tratto dal post sopra linkato:
"Il libro che stiamo discutendo contiene una autentica “chicca”, che non potevo non segnalare. Alle pagg. 118-124 viene infatti discusso un saggio di Hayek del 1939, “The Economic Conditions of Interstate Federalism”. In questo saggio Hayek discute le condizioni di un ordine internazionale rivolto alla pace.
Hayek pensa ad una federazione di Stati, e la cosa davvero interessante è la sua discussione, come dice appunto il titolo, delle conseguenze economiche di una tale federazione. Con logica stringente, Hayek dimostra che una federazione fra Stati realmente diversi porta necessariamente all'impossibilità di un intervento statale nell'economia, e quindi alla vittoria di politiche economiche liberiste (il che ovviamente dal suo punto di vista è un bene). Infatti una federazione per essere stabile ha bisogno di un sistema economico comune e condiviso, e quindi della libera circolazione di merci e capitali, e questo porterà ovviamente a una perdita di controllo dei singoli Stati sulle loro economie. Si potrebbe allora pensare che il controllo statale si sposti al livello federale. Il nuovo super-stato federale si riprenderebbe quei poteri di controllo sull'economia che i singoli Stati avranno perso. Hayek risponde di no. Perché l'intervento statale sull'economia presuppone la capacità di mediare fra interessi contrapposti, di accettare compromessi ragionevoli, che non ci sono, o sono più difficili, fra popoli di Stati diversi. Come scrive Streeck riassumendo Hayek,
"in una federazione di stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all'interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un'identità in nome della quale superare i conflitti stessi (…). Un'omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee (pagg.121-122)"
Si tratta ovviamente della stessa tesi che abbiamo sostenuto più volte nel nostro libro e in questo blog: non esiste un popolo europeo che possa essere la base sociale di uno “Stato sociale europeo”. E' impressionante la lucidità di Hayek, che aveva capito tutto questo nel 1939. Tanto di cappello. Ma la cosa davvero impressionante sono gli attuali “intellettuali di sinistra” che questa cosa non la capiscono nemmeno oggi, 2013, nemmeno dopo che tutto ci è stato squadernato davanti. E magari sono gli stessi che pensosamente si interrogano sui motivi della crisi della sinistra"
Una sorprendente osservazione e le, altrettanto sorprendenti, risposte che ne sono seguite nella importante sede dei commenti su Goofynomics, sono lo spunto per questo post.
Non si tratta, chiariamolo subito, di dar voce, unilaterale, alla propria personale replica al fine di prevalere in una disputa. Dati i termini della questione, riassumibile nell'interrogativo "E' o non è Von Hayek collegabile alla costruzione europea, culminata in Maastricht?", ritengo che questa sia piuttosto la sede per un chiarimento più ragionato e puntuale, che la sede dei commenti di un blog non consente esattamente di fare.
Il che lascia aperto, al dibattito susseguente, in questa o qualsiasi altra sede, il fare un ulteriore arricchimento dei punti di vista legittimamente e documentatamente esprimibili.
Quello che poi qui verrà esposto è necessariamente un'operazione divulgativa. Per affrontare problemi di questa portata "funditus", occorrerebbero i famosi "fiumi di inchiostro" e probabilmente uno o più consistenti "libri" che, però, si leggerebbero poche persone.
Uno dei problemi più rimarchevoli che affligge le scienze sociali, è che, come dice il mio amico Cesare Pozzi, illustri autori vengano citati, citatissimi, ma in realtà molto meno letti.
Quindi si rassicuri Istwine, non faccio affidamento su fonti di seconda mano di facile diffusione sul web, ma, laddove non riporterò "l'originale", ho prescelto fonti quantomeno "serie" in quanto capaci di rimanere aderenti al testo che commentano. E d'altra parte questa utilizzazione delle fonti non è meno attendibile di quella normalmente usata nelle sedi scientifiche e non dichiaratamente divulgative (e sfido chiunque a constatarlo, proprio prendendo visione di tale tipo di testi).
Quindi che si crei, nelle scienze sociali, e specificamente in economia, una "vulgata", non è problema che riguardi Keynes o Von Hayek, soltanto, ma praticamente tutti.
Quanto questo sia un male non è possibile stimare con atteggiamento "sdegnoso" dell'intellettuale "puro" (a cui la purezza potrebbe dare modo di essere attaccato a sua volta proporio sul piano che voleva rivendicare).
Le "vulgate", se soffrono di imprecisione e quindi di forti margini di errore (o, come direbbe Popper, di "falsificabilità"), spesso riflettono una "autenticità" che è direttamente proporzionale a un fenomeno intellettuale del nostro tempo (diciamo dell'evo contemporaneo): i protagonisti del "pensiero" sono portatori, in modo di gran lunga prevalente (personalmente eccettuiamo, in questo campo, proprio Keynes, che spicca per la ricchezza e varietà dei temi culturali che sa affrontare) di ben poche idee originali che si compendiano, in definitiva, in una o due idee-guida.
Molte lunghissime esposizioni, quindi, sono in realtà il frutto di citazioni, (come ha ben enfatizzato Borgés nel parlare della cultura moderna come "sistema di citazioni"), spesso inconscie, cioè frutto di una formazione culturale che non viene resa coscientemente manifesta da chi la utilizza. Problema, di pre-comprensione, particolarmente evidente in Von Hayek. Queste "citazioni precomprese" sono poi utilizzate a fini confermativi e rafforzativi di concetti frammentati molto analiticamente, in corollari quasi tautologici, e spesso rielaborati in continue parafrasi.
Questa tendenza alla parafrasi "autodimostrativa" è particolarmente evidente in Hayek che, come autore, si presta particolarmente a operazioni "riduzionistiche", senza che ciò finisca per fargli particolarmente torto.
1- PREMESSA
Per inquadrare la questione che andiamo ad affrontare, occorre subito sottolineare una componente storico-politica di grande portata. Qui la premettiamo per poi riprenderla sui singoli argomenti.
Quando si propone un modello normativo generale, come si trova inevitabilmente a fare von Hayek, non ci si limita a predicare, come suo substrato giustificativo, "causale", un modello economico assolutamente "teorico", cioè svincolato dalla esigenza di "correggere l'esistente": si formula necessariamente una critica all'assetto sociale di un certo momento storico.
Tralasciando la questione problematica della necessaria scelta di quali caratteristiche, piuttosto che altre, defniscano tale assetto, (problema metodologico che è insito in ogni trattazione delle scienze sociali), l'operazione critica si risolve inevitabilmente nella critica al modello normativo generale precedente.
Cioè, se è vera la "vulgata" che il diritto consegue alla "struttura economica", postici su un piano storico, il voler affermare una diversa "struttura" - in particolare Hayek, parla proprio di "struttura del capitale", connettendola alla libera formazione dei prezzi , di tutti i prezzi di ogni possibile bene o servizio, come indice di una sua progressiva costante razionalità-efficienza-, significa, anzitutto, rimuovere gli ostacoli normativi (Hayek parla di "Legge" e "legislazione") che il precedente assetto strutturale ha creato nel darsi il proprio ordinamento, (più o meno) storicamente indentificabile.
Questo aspetto ci dà un'importante chiave di lettura: trasposto dalla teoria, quale appunto espone Hayek, alla pratica della "politica", il modello di assetto socio-economico "nuovo", dovrà necessariamente dotarsi di una "strategia", che gli consenta di affermarsi attraverso un PROCESSO (modificativo proprio del precedente assetto normativo) di periodo più o meno lungo. Questo perchè, appunto trasposto un modello dal piano ideologico a quello politico, si dovrà necessariamente tenere conto delle "resistenze al cambiamento" che si manifesteranno, da parte delle componenti sociali che subiscono i cambiamenti della posizione in precedenza normativamente garantita.
E quindi si cerca piuttosto di fissare dei "nuovi" obiettivi e agire con coerenti "strumenti" che, all'interno del processo, cioè nel tempo, pur non riflettendo immediatamente l'assetto finale da realizzare, ne consentono la progressiva affermazione.
Solo comprendendo questo necessario legame tra "fini" e "strumenti", e la sottostante connessione tra modelli economici e modelli normativi che si mira ad avvicendare, si può comprendere la "costruzione europea" e il suo legame con la matrice culturale hayekkiana.
Altrimenti, in una visione statica, si finirà, come fa, a nostro parere, il nostro buon Istwine, per enfatizzare, appunto, visioni statiche (come nel caso in cui si confonda uno stock con un flusso) e concludere che il modello finale è ben diverso dalla rilevazione delle linee strategiche, cioè dinamiche, che lo vogliono attuare.
In termini più espliciti: von Hayek propone un radicale modello che, al di là della sua intrinseca bontà e praticabilità, quando è adottato dai suoi "realizzatori politici", esige di tener conto della realtà storica delle Costituzioni democratiche pluriclasse affermatesi in tutto il continente europeo (più o meno) nel "secondo dopoguerra". Perciò quello che premette ai fondatori di Maastricht era:
a) di fissare dei fini. In particolare la "forte competizione", che desse risalto al sistema di formazione dei prezzi come fulcro ordinativo di una società "efficiente" e libera (nella visione esplicita hayekkiana) nonchè la "stabilità dei prezzi" stessi, cioè il controllo assolutamente prioritario dell'inflazione (altro "valore assoluto" hayekkiano, certo ripreso da tutta la teoria economica che si pose sul suo solco). In tal senso basti vedere non solo la formulazione, ma la stessa prassi applicativa "inderogabile" e priva di mediazione con cui è stato inteso l'art.3 del trattato istitutivo dell'Unione;
b) stabilire gli opportuni strumenti strategici: su tutti, nonostante la "apparenza", e per le ragioni storiche qui più volte indicate, la banca centrale indipendente, considerata, a torto o a ragione, la cinghia di trasmissione di quella "disciplina salariale" che Hayek ritiene un presupposto indispensabile del "nuovo ordine". E quindi poco importa, in chiave strumentale, che egli non ne sia stato il diretto teorizzatore (ma anche su questo la conclusione non è affatto scontata).
D'altra parte, lo stesso Hayek è perfettamente cosciente della distinzione tra modelli teorici e strategie di loro realizzazione, di cui si disinteressa per personale visione della sua funzione intellettuale:
“Penso fermamente che lo scopo principale del teorico dell’economia o del filosofo politico sia di agire sull’opinione pubblica per rendere politicamente possibile quello che forse oggi è politicamente impossibile, e quindi l’obiezione che le mie proposte sono attualmente impraticabili, non mi scoraggia assolutamente a svilupparle.”.
2- MODELLI COMPARABILI E...NON
Alla luce di questa "premessa" analizziamo la proposta comparativa tra modello hayekkiano e modello UE che, secondo Istwine, proverebbe la estraneità di Hayek medesimo al secondo.
Poi ci occuperemo di come, in effetti, con riferimento al modello UE-UEM, la sua sintesi si riveli frutto di inesatte valutazioni circa il contenuto della relativa disciplina dei trattati, nonchè circa la appartenenza di taluni elementi, indicati come "europei", a tutt'altra origine normativa.
Ecco il modello "comparativo" proposto:
"Eurozona:
1) BCE indipendente che fissa i tassi e interviene a sua discrezione. Così pure FED e virtualmente tutte le BC.
2) Tra QE e LTRO + tassi bassissimi, si può dire tutto fuorché "politiche monetarie restrittive".
3) Restrizioni a determinate libertà, in alcuni Stati esiste il reato d'opinione sostanzialmente e ti fai il carcere.
4) Monopoli e oligopoli, con evidente potere politico (cosa che Hayek aveva capito peraltro, come tanti altri, Galbraith ecc)
5) Tassazione a livelli elevati, spesa pubblica in termini di PIL non certamente bassa e burocrazia abnorme. Il caso italiano è emblematico. Tutt'altro che lo Stato minimo teorizzato da Hayek, tutt'altro che le regole previste dalle tesi originarie dei neoliberisti.
Hayek:
1) Concorrenza fra moneta, a livello pubblico e privato.
2) I tassi li fa il mercato.
3) Libertà personali sacrosante, lui peraltro scriveva criticando i totalitarismi dell'epoca.
4) Libero accesso all'attività economiche e minime restrizioni in termini burocratici. Lo stato fa le regole, ma non interviene. E fa le regole in funzione del bene pubblico, non dei monopolisti.
5) Lo Stato minimo di Hayek appunto.
3- LA MONETA
Partiamo da questo primo elemento che, più di ogni altro, segnalerebbe la esplicita contrarietà di Hayek alla stessa moneta unica, in quanto comunque espressione di un, per lui deleterio, monopolio di quello che dovrebbero essere un bene scambiabile, come ogni altro, in base a libere fluttuazioni della domanda e dell'offerta.
Ma le ragioni per cui v.H. si oppone alla moneta unica, cioè in quanto e solo in quanto, permarrebbe, in monopolio (più o meno pubblico), sono in un senso che è del tutto diverso da quello segnalato da altri "oppositori" all'euro.
Per v.H., e questo va tenuto sempre presente, l'euro non è sufficiente a garantire la stabilità del valore monetario ai fini della eliminazione dell'inflazione e della deflazione-disciplina salariale.
Di questa intrinseca funzione-finalità ideale del bene-moneta abbiamo prova dalle sue stesse parole, già riportate nella parte finale di questo post. E il suo richiamo ad un ritorno al gold standard come soluzione ottimale globale, in ben manifesta connessione alla deflazione ed alla disciplina salariale, in contrapposizione alla logica inflazionistica della "piena occupazione" (prima che sul punto intervenisse la "sintesi" dialettica di Modigliani), non dovrebbe lasciare alcun dubbio.
Se v.H. ha una concezione della moneta in concorrenza libera tra pubblico e privato, questo ha precise finalità.
In "Denationalisation of money: the argument refined” espone la sua idea al riguardo così sintetizzata in un commento non certo "critico", ma piuttosto fedele:
"Hayek parte dalle ben conosciute tesi austriache: l’inflazione è un male assoluto poiché impedisce un calcolo economico corretto e provoca distorsioni e cattivi investimenti che, se si prolungano, non possono risolversi altro che per crisi; l’inflazione è il risultato di un’eccessiva creazione di moneta, e i responsabili sono i governi. Vi aggiunge tre semplici idee:
- chiunque possa produrre moneta, ha interesse a produrne il più possibile;
- la moneta è un bene come un altro;
- per tutti gli altri beni, è la concorrenza che modula la produzione sui bisogni.
Egli conclude che la stabilità monetaria sarebbe meglio assicurata da un regime di libera concorrenza fra monete rispetto all’attuale gestione statale, e cerca di dimostrarlo analizzando quello che verosimilmente succederebbe se i paesi del Mercato Comune s’impegnassero reciprocamente a non mettere più alcun ostacolo sui loro territori né alla libera circolazione delle monete nazionali né al libero esercizio dell’attività bancaria."
Senza dilungarsi troppo sull'argomento, vediamo quali sarebbero i vantaggi delle "monete in concorrenza", nelle sue stesse parole e compariamoli con quelli che, "strategicamente", l'euro cerca di perseguire, e sui quali abbiamo innumerevoli conferme, sia a supporto che radicalmente critiche di queste stesse finalità:
“- una moneta di cui si pensa che conserverà un potere di acquisto più o meno costante, sarà oggetto di domanda permanente fintanto che le persone saranno libere di utilizzarla;
- se tale domanda dipende dall’effettivo mantenimento a un livello costante del valore di questamoneta, si potrà dare confidenza alle banche emettitrici di fare tutti gli sforzi necessari per giungervi meglio di un monopolista che non corre alcun rischio deprezzando la propria moneta;
- gli emettitori possono giungere a questo risultato regolando la quantità di moneta che emettono;
un tale regolazione della quantità di ciascuna moneta è il migliore di tutti i metodi praticabili per regolare la quantità dei mezzi di scambio.”
Il substrato comune "ideale" tra il "nostro" e il metodo euro-BCE, quale istituzione "unica" di gestione della moneta, risulta certo parzialmente compromissorio. Ma rimane, nei "fini" enunciati normativamente nei trattati a partire da Maastricht, quello della stabilità del valore monetario, cioè pratica assenza di inflazione, e della visione monetaristica "quantitativa".
I riflessi a cui entrambe le soluzioni, con diversa gradualità (v.H. esplicitamente non si curava di questo aspetto, l'abbiamo visto), rimane quello della curva di....Phillips: la disoccupazione "naturale" (cioè l'abbandono della piena occupazione) e il conseguente calo dei salari reali sono indispensabili caratteristiche del modello sociale da attuare.
Certo, per v.H. il gold standard rimane una soluzione ideale, ma egli ammette che poiché si ha "l'assurda" pretesa che, nell'economia internazionale aperta, i paesi in surplus debbano sopportare (con la rivalutazione) il peso degli aggiustamenti, il valore della stabilità (assenza di inflazione) possa essere "almeno" garantito da quanto egli propone.
Questo passaggio è direttamente indicativo:
“Resterebbero nel mondo libero più monete largamente utilizzate e molto simili. In vaste regioni una o due fra queste sarebbero dominanti, ma queste regioni non avrebbero confini né precisi né fissi, e l’uso delle monete dominanti in ognuna si sovrapporrebbe in zone frontaliere larghe e fluttuanti. La maggior parte di queste monete farebbe affidamento a un paniere di beni simili e fluttuerebbero molto poco le une in rapporto alle altre, probabilmente molto meno delle monete dei paesi oggi più stabili, ma un po’ di più delle monete che riposano su un gold standard.”
Ora sulla assimilabilità degli effetti (essenziali, non parliamo di totale coincidenza) dell'euro, all'interno della sua area di utilizzo, al gold standard, esistono ben precisi attestati scientifici sulla cui autorevolezza non si sollevano particolari obiezioni.
In questo quadro di finalità e obiettivi, realizzati in UEM con una certa "tragica" tangibilità, la vera discrasia che potrebbe lamentare v.H., alla luce delle sue stesse parole, è quella della limitazione, quoad effectum beninteso, alla sola Europa dei 17, dello schema generale che lui auspica per il mondo intero.
Ma, intanto, per noi "euroti" che subiamo le linee fondamentali delle sue teorie, è una ben magra consolazione il fatto che non tutto il mondo sia coinvolto nella stessa follia deflazionista, specialmente a seguito dello shock 2007-2008. Il quale, se non altro, ha avuto il merito di far ripensare, solo fuori dall'UEM, purtroppo, il mito" quantitativo" della moneta, che v.H. vuole realizzare senza porsi alcun dubbio teorico.
4- Q.E., LTRO E POLITICHE MONETARIE "RESTRITTIVE"
Circa i"tassi li fa il mercato", secondo v.H., e invece in Europa, "Tra QE e LTRO + tassi bassissimi, si può dire tutto fuorché "politiche monetarie restrittive", ci limitiamo a dire:
a) ci pare pacifica la non assimilabilità tra LTRO, operazioni di rifinanziamento del sistema bancario, e QE, operazione di finanziamento diretta degli Stati, senza agire sul sub-strato carry trade di collaterali.
L'UEM, a differenza della Fed (della BoI, della BoJ e via dicendo, praticamente all'infinito...) ha un piccolo particolare: l'art.123 del trattato sul funzionamento dell'Unione, che vieta l'acquisto di titoli del debito dei singoli Stati.
Questa è una caratteristica fondamentale, che differenzia la "roccaforte" UEM rispetto al resto del mondo, nell'intendere in modo "integralista", e rigidamente monetarista, cioè in base ad un dogma fondamentale per v.H., che lo indirizza proprio contro gli effetti deprecati del deficit pubblico,causativo di inflazione, per sostenere la "improvvida" piena occupazione.
Sulla consonanza di obiettivi (dogmi), strategico-strumentali della BCE (sicuramente sotto l'influenza di Bundesbank, ma il discorso non cambia, anzi), con lo schema hayekkiano stesso, non riesco a nutrire dubbi.
Si tratta di una mera applicazione della differenza tra "proposta..filosofica" e suo sviluppo politico, apertamente contemplata da V.H.
La "restrittività" delle politiche monetarie UEM - così come il valore dei tassi "bassi", andrebbe valutata comparativamente (in primis agli USA) e nell'intero periodo di vita dell'euro.
Cioè nel contesto di un mondo che ha registrato, e tutt'ora vede, sia un differenziale dei livelli dei tassi (più alti) tutt'ora praticati dalla BCE (in assenza di qualunque seria minaccia inflattiva), sia, più ancora, la pregressa politica di "credibile" mantenimento di tassi ancor più elevati, e considerati pro-ciclici, nel periodo di iniziale vita dell'euro e specie all'indomani della crisi del 2007-2008 (quando i tassi furono addirittura innalzati mentre si procedeva al rifinanziamento, statale e BCE, del sistema bancario, incuranti della presunta attivazione di un presunto meccanismo di trasmissione alla effettiva offerta monetaria, ma rimanendo attentissimi all'ossessione dell'inflazione).
La "politica monetaria restrittiva"della BCE, rispetto al "resto del mondo" (comparabile) è un fatto, appunto, "comparativamente" rilevabile in termini storici: dunque, andrebbe valutata alla luce di queste "finalità" (stabilità dei prezzi e disciplina salariale), senz'altro comuni a v.H. e allo "strumento" BCE. E risalta, altresì, drammaticamente proprio con le contestazioni tedesche al programma OMT, su cui rinviamo alla limpida analisi di De Grauwe
Certo non ci sfugge che il fatto che "le banche centrali non possono fallire" (in regime di cambio flessibile, extra UEM beninteso) non sarebbe piaciuto affatto a v.H.: ma ribadiamo, l'aspetto monetario teorico-ideale, recede di fronte all'obiettivo strategico di combattere inflazione e...piena occupazione.
Sicchè l'invocazione continua attuale delle "riforme strutturali" (del mercato del lavoro), sarebbe senz'altro parsa un beneficio, agli occhi dello stesso v.H.. Un "progresso fondamentale" per cui poteva valere la pena di transigere sullo schema teorico.
Diamo atto, piuttosto, che Hayek fosse abbastanza razionale da comprendere quale dovesse essere la scala delle priorità e la relazione tra esse e i mezzi per realizzarle.
5- RESTRIZIONI ALLE "LIBERTA'" E REATI D'OPINIONE.
Qui la perplessità rispetto allo schema del (sempre stimato) Istwine, giunge a ben più facili argomenti di confutazione. Semplicemente perchè:
a) bisogna capire, sul piano della teoria generale del diritto (che non è affatto una cosa così scontata e facile da maneggiare, in base alle proprie impressioni lessicali) cosa siano, per v. H., le "sacrosante libertà personali";
b) bisogna, capire, e in base ad agevoli riscontri di diritto positivo, sia nei vari livelli nazionali sia quale sancito nei Trattati, che l'UE con i reati d'opinione non c'entri proprio nulla.
a) Sul primo aspetto.
La concezione dei "diritti di libertà" di v.H. si incentra sulla rigida priorità del diritto di proprietà, statico, cioè inteso quale titolarità attuale del relativo diritto, sia dinamico, inteso come organizzazione di beni in termini aziendali (questa è la corretta versione giuridica), capace di dare un flusso di ulteriori beni, un "reddito", di cui si acquisisca la (più incondizionata possibile) proprietà.
Si interessa, poi, v.H. ad altri diritti-libertà che non siano legati alla proprietà-titolarità ed alla sua proiezione dinamica in termini produttivi?
Sì, certo, ma soltanto per predicarne la natura di prevaricazione da parte dello Stato, che, secondo lui demagogicamente li garantisce, sugli individui-proprietari che ne sarebbero invariabilmente danneggiati. E con essi tutta la società.
Cioè gli individui-proprietari, assunti nella loro proiezione produttivistica, risultano danneggiati da "ogni altro diritto", in particolare dai diritti sociali e politici stessi (in quanto indifferenziatamente estesi a tutta la massa, non legittimata dalla condizione "naturale" di titolarità proprietaria).
Rinvio in proposito a una fonte abbastanza ben riassuntiva del tema, dato che la lettura di "Law, Legislation and Liberty" è certamente ardua, specialmente per un non tecnico del diritto, dato che, quantomeno, occorrerebbe avere una conoscenza del resto della enorme elaborazione in materia di "diritti fondamentali" (di cui in questo post abbiamo offerto una sintesi e che amplieremo nel "libro" di prossima pubblicazione).
Insomma tutto questa "sacro" libertarismo, nell'apparenza delle enunciazioni così "affascinante", è, nella sua visione, necessariamente riservato a "pochi".
"Ciò che più interessa a Hayek è dunque la libertà concepita come protezione mediante la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria (freedom from) e non come rivendicazione del diritto di ognuno di partecipare alla determinazione della forma di governo (freedom to). In tale impostazione, acquista grande rilievo il discorso sullo Stato, che deve avere essenzialmente un ruolo secondario e negativo, deve intervenire il meno possibile nell’ambito di autonomia individuale e deve garantire, grazie a leggi generali, il pieno dispiegarsi delle libertà individuali, assicurando solide barriere a difesa dei “territori” dei singoli individui. La proprietà privata, intesa lockeanamente come diritto alla “vita, alla libertà e ai beni”, è, di conseguenza, il fondamento di ogni civiltà evoluta."
Sulla proprietà, ecco cosa dice Hayek (e attenzione, non contestiamo la appartenenza di quest'ultima al novero dei diritti fondamentali, ma, attenendoci alla nostra Costituzione, la consideriamo "una" delle posizioni in cui si esprime la dignità ed il valore dell'esistenza umana):
“è la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti. Legge, libertà, proprietà sono una trinità inseparabile. Non vi può essere alcuna legge, nel senso di regola universale di condotta, che non determini confini di aree d’azione, stabilendo regole che permettono a ciascuno di accertare fin dove egli è libero di agire” (Law, Legislation and Liberty).
E gli "altri diritti", ad esempio, quello al lavoro, a ricevere un'istruzione, all'assistenza sanitaria, alla stessa partecipazione politica al di fuori di una condizione di titolare della "proprietà"?
Per Hayek, siamo nel campo, incondizionatamente, delle discriminazioni, il che, sul piano logico, come evidenziato da Bobbio (ad esempio), significa che si ammette solo una condizione "naturale" di "soggetto di diritto", quella di proprietario; si prescinde da qualsiasi indagine sul come e perchè questa sia distribuita in un certo modo nella società, e si nega natura generale legittimante ad ogni altro aspetto della personalità umana.
Questo eventuale ulteriore aspetto, per v.H., può solo essere la "innaturale", creazione di uno Stato invasore, che instauri una legislazione (contraria al vero Spirito della Legge) che finirebbe per assumere esclusivamente valore di limitazione della condizione naturale del "proprietario" e di instaurazione di un regime di "privilegio" e di favoritismo (!), cioè di inaccettabile ingiustizia.
In questo, Hayek rivendica di ritenersi incurante del fatto che la "legislazione", quando non sia rivolta a sancire l'astensione dello Stato dall'interferenza sulla proprietà, riguardi o meno la schiacciante maggioranza della popolazione. A quest'ultima non riconosce alcuna legittimazione "naturale" a sollevare il conflitto sociale. Negando, anzi, ogni valore al concetto di democrazia, che propone di sostituire con quello di "demarchia" per sottolineare la sua natura di sopraffazione perpetrata da una maggioranza che non può mai raggiungere una legittimazione naturale al governo.
“L’imperio della legge […] comporta dei limiti al campo della legislazione; esso lo restringe a quel tipo di regole generali cui si tributa il nome di leggi formali ed esclude la legislazione che miri direttamente a persone determinate o che metta in grado qualcuno di usare il potere coercitivo dello Stato ai fini di una tale discriminazione. Esso non significa che tutto deve essere regolato dalla legge, ma significa all’opposto che il potere coercitivo dello Stato può essere usato soltanto in casi anticipatamente definiti dalla legge e in maniera tale che si possa prevedere come sarà impiegato” (Verso la schiavitù).
E dunque (anche questo è un sunto fedele):
"Una delle forme più diffuse di interferenza è sicuramente la legislazione in materia di giustizia sociale, la quale tende a modificare la posizione economico/sociale delle persone favorendo (ad esempio attraverso la tassazione) le persone meno agiate. Su questa tematica, la posizione di Hayek è assai drastica: le persone svantaggiate (i poveri, gli ammalati, i portatori di handicap, le vedove, gli orfani, ecc) debbono essere protetti da una “rete” che assicuri loro il minimo necessario alla sopravvivenza, ma ciò deve avvenire al di fuori del libero mercato e non come intervento correttivo del mercato da parte della legislazione. Assicurare un reddito minimo a tutti è, secondo Hayek, un dovere della società libera: ma ciò deve verificarsi tramite l’assistenza e non cambiando in modo artificiale le regole del mercato.
Tra i vari compiti dello Stato, spicca quello di costruire strade, fissare indici di misura, di fornire altri tipi di informazioni (attraverso mappe e cartelli stradali, ad esempio) e di controllare la qualità dei beni e dei servizi. Ma riguardo ad altri servizi, come ad esempio quello postale, quello dell’istruzione e delle telecomunicazioni, il monopolio dello Stato è pernicioso al massimo, oltre che inefficiente.
Da questa posizione, ben emerge l’immensa fiducia nel libero mercato che, pur non funzionando sempre in modo perfetto, presenta benefici che superano di gran lunga gli svantaggi. Indubbiamente suggestionato dalla “mano invisibile” di cui parlava Adam Smith, Hayek è convinto che il mercato riesca ad armonizzare in maniera spontanea le decisioni dei produttori con la volontà e coi desideri dei consumatori, senza la mediazione del governo, e che assicuri il perseguimento dei propri scopi a tutti, sviluppando altresì quella che Hayek chiama la “Grande Società”, cioè la moderna società complessa, che sfugge a ogni pianificazione centralizzata poiché si affida solo all’iniziativa individuale e al meccanismo della concorrenza."
Siamo coscienti che non riusciremo a far cambiare opinione al brillante Istwine, ma se si conserva un "senso comune" della democrazia, è difficile trovare "affascinante" l'idea individualistica-libertaria di v.H. E tantomeno attribuirgi una "sacralizzazione". E per nostra (purtroppo oggi cagionevole) fortuna.
b) Sul secondo aspetto.
I "reati d'opinione" non sono una costruzione europea.
L'Europa si disinteressa "operativamente" della materia con la famosa clausola dell'art.6 del TUE. Lascia la materia alla sfera di competenza degli Stati. E alle enunciazioni delle varie Carte dei diritti, entrate a far parte del diritto internazionale generale.
E neanche a dire che i "reati di opinione" non siano stati affrontati e stigmatizzati, più o meno direttamente, nelle Costituzioni democratiche, sicuramente in epoca anteriore a Maastricht, e nello stesso diritto internazionale generale.
Il punto è che sia la Corte costituzionale che la stessa Corte Europea dei Diritti dell'Uomo prendono da decenni posizione, cassandoli, sui vari "reati" di questo tipo, caratterizzati da clausole spesso incentrate sulla tutela della "personalità dello Stato" o il "sentimento religioso", cioè clausole c.d. "generali", in cui è più forte il pericolo della indefinizione dei presupposti che possono portare alla punizione dell'individuo.
In Italia, la materia è stata rivisitata, sulla scorta di varie pronunce della Corte costituzionale, dalla legge 24 febbraio 2006, n.85.
Ma è un fatto che, se la Corte non è intervenuta prima degli anni 2000, è perché questi reati sono praticamente in desuetudine, cioè in concreto disapplicati. E grazie all'art.21 Cost.: ma più ancora, alla grande sensibilità che la Costituzione democratica pluriclasse ha innervato nel senso condiviso della comunità (smentendo che questo possa mai incentrarsi sul solo "diritto di proprietà") senso condiviso che v.H.avrebbe certamente condannato, perché frutto della deprecabile "demarchia".
Come pure è un fatto, che a seguire la teoria generale dello Stato e del diritto naturale (Legge) di V.H., oggi, avremmo come fattispecie penali, duramente punite, lo "sciopero" e l'"associazione sindacale".
6- MONOPOLI E OLIGOPOLI
Su questo punto, è veramente difficile vedere una divaricazione tra teorie hayekkiane e trattati UE.
Ovviamente, bisogna precisare ciò che v.H. sosteneva veramente in materia, come vedremo.
Per suo conto, il TFUE (ma già la versione originaria di Maastricht), contiene una vasta serie di previsioni su monopoli e concorrenza, che sono alla base del diritto antitrust introdotto, per la prima volta, in Italia. Il TFUE:
- all'art.101 prevede e sanziona (con la "nullità di pieno diritto"), come "incompatibili con il mercato interno" le varie forme di trust, accordi fra imprese, intese, e simili;
- all'art.102, colpisce allo stesso modo "lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante";
- al'art.106, colpisce con una sostanziale "incompatibilità" col trattato le posizioni di monopolio pubblico, ammettendone il mantenimento alla rigida vigilanza della Commissione sul rispetto delle norme (artt. 18 e da 101 a 109), inclusive dell'"abuso di posizione dominante", dettate sulla stessa "libera concorrenza".
Di sicuro, in questo quadro, l'UE non può essere accusata di aver creato o incentivato monopoli, cartelli od oligopoli. Tranne che per il sistema bancario, rimasto in un "limbo" di controllo delle varie banche centrali (e della stessa BCE, pur nelle grandi difficoltà che la sua competenza accentrata, a livello UEM, sta non casualmente incontrando). E ciò per ragioni, molto hayekkiane, connesse però al vigente mercato libero globalizzato dei capitali e alla natura "universale" , cioè non più legata alla sola intermediazione finanziaria in senso commerciale, dell'impresa bancaria, introdotta proprio sulla spinta europea (ma appunto non certo contraria alla visione di H.).
Per confermare, semmai, la non contrarietà (almeno) del diritto europeo con la visione di v.H. vediamo quale fosse il relativo impianto teorico.
Questo è (relativamente) facile da ricostruire e lo facciamo, in questa sede divulgativa (anche se i problemi qui trattati si sono già rivelati abbastanza complicatucci).
Come si può registrare da un commento sul tema, fortemente critico, ma non meno accurato, esiste una precisa fonte in cui confluisce la posizione di Hayek, ed in cui, pur risultando confluente con quella di altri esponenti della sua stessa "scuola" (diramatasi da von Mises), possiamo identificare i termini della sua analisi teorica: il c.d. "Colloquio Lippmann".
Sulla intima adesione di Hayek a quella "analisi fondativa" di un neo-liberismo in cerca di affermazione abbiamo la prova nella sua stessa vicenda personale.
Questi i punti salienti elaborati in quella sede, una sorta di "convenzione generale" del liberismo (li riporto dalla predetta fonte, per l'impostazione, quasi da "verbale" della riunione che essa ci fornisce):
"All’incontro ci sono tutti i nomi che contano del neoliberalismo: Hayek, von Mises, Rustow, Röpke e il segretario generale della riunione è niente di meno che Raymond Aron. Questo colloquio è importante perché proprio durante le discussioni verranno fissati i punti cardinali del neoliberalismo. Uno di questi signori, Miksch, dice: “in questa politica neoliberale è possibile che gli interventi economici siano tanto ampi e numerosi quanto in una politica pianificatrice, ma sarà la loro natura a essere differente”. Perché esprime un concetto così strano per un liberale? Perché dice che lo Stato dovrà intervenire pesantemente? Sembra una contraddizione in termini. Ma non lo è.
Miksch e i suoi compagni di merende stanno pensando al problema dei monopoli. Qualcuno (qualcuno di nome Marx) aveva fatto notare da tempo che, quando il mercato viene lasciato libero di autoregolarsi, tendono a formarsi dei monopoli. E si era notato che proprio i monopoli tendono a strangolare il libero mercato. Perciò si era detto: “non è vero che il mercato lasciato libero di agire si autoregola, anzi, semmai, con i monopoli che egli stesso crea muore da sé”.
I neoliberisti in quella riunione del 1939 ribattono e dicono una cosa piuttosto strana: non è il mercato che crea i monopoli ma le azioni sbagliate dello Stato che, non vigilando sulla concorrenza in modo serio, lascia nascere i monopoli. Von Mises aggiunse un altro concetto: i monopoli si formano in mercati piccoli, nazionali. Il giorno in cui ci sarà un vero mercato mondiale, globale sarà impossibile la creazione di un monopolio
Ma, in fondo, aggiunge von Mises, perché preoccuparsi dei monopoli? Essi sono destinati a infrangersi perché quando un monopolista fisserà un prezzo troppo alto allora, all’interno dell’economia, sorgeranno imprese che praticheranno prezzi più bassi. Cioè: in ogni caso se il monopolista esagera con i prezzi il mercato reagirà. Così la principale obiezione di Marx veniva (apparentemente) eliminata.
Rimane il problema di capire come lo Stato dovrà intervenire. Ce lo dice un altro economista neoliberale, Eucken. Lo Stato, dice, deve intervenire con “azioni regolatrici”.
E le azioni regolatrici dello Stato vanno fatte non sull’economia ma sul funzionamento del mercato. Questo significa che si dovrà puntare sempre alla stabilità dei prezzi ossia quel che deve fare lo Stato è controllare a tutti i costi l’inflazione. Lo Stato non dovrà mai calmierare i prezzi, non dovrà mai sostenere un settore in crisi, non dovrà mai e poi mai creare posti di lavoro attraverso l’investimento pubblico. Lo Stato dovrà solo controllare l’inflazione. Come? Attraverso il tasso di sconto, attraverso l’abbassamento delle tasse. Ma mai con una politica che turbi l’economia.
E per la disoccupazione lo Stato che dovrebbe fare? Per Eucken e per i neoliberali lo Stato non dovrebbe fare nulla.
Il disoccupato non è una vittima – dice un altro neoliberale, Röpke – il disoccupato è solo un “lavoratore in transito” che passa da una attività non redditizia a una più redditizia. Ma lo Stato userà le “azioni regolatrici” solo dove si presenti la necessità, normalmente invece dovrà lavorare per garantire le condizioni di esistenza del mercato. Lo Stato dovrà garantire l’esistenza del “quadro” come lo chiamano i neoliberali nel 1939. Garantire il “quadro” è possibile attraverso le “azioni ordinatrici”
I monopoli, dunque, si legano, a vario titolo, quasi esclusivamente alla "responsabilità dello Stato, la cui azione va dunque limitata, come sempre rigidamente, al controllo dell'inflazione.
Il monopolio nasce, dunque, o perchè lo Stato non agisce in "regolazione" (l'unica ammissibile) sul funzionamento del mercato, o perchè, peggio ancora, riservi a se stesso una posizione di monopolista.
Sappiamo (lo abbiamo visto poco sopra) che per v.H. ciò investe non solo attività di rilevanza economica, ma anche altre di sicuro interesse pubblico prevalente, esercitate attraverso la forma legislativa della "pubblica funzione".
Un fardello inammissibile per v.H., che considera la costruzione di strade, la fornitura di "indicazioni e segnaletica" e la verifica della qualità di beni e servizi le uniche attività con cui, lo Stato, può tangenzialmente sfiorare l'attività economica e la proprietà "libere". Naturalmente lo Stato dovrà anche vigilare su ordine pubblico e apprestare, in una certa misura, la difesa nazionale.
La visione di Hayek sul questi ultimi punti è tale che non esclude, in astratto, che larga parte della pubblica sicurezza e della repressione dei reati possa essere svolta in forma di servizio affidato alla libera concorrenza tra privati (contando poi che, come abbiamo sottolineato, "sciopero" e "associazione sindacale" rientrerebbero nelle fattispecie penali). Negli USA, si hanno varie applicazioni, più o meno estese, di ciò, ad esempio in quella branca della pubblica sicurezza che è la custodia dei carcerati. O la protezione degli interessi economici in terra straniera. Ma in Europa, come attesta la famosa direttiva Bolkenstein è un'idea in forte avanzamento, tenuta lontano dalle conseguenze hayekkiane solo da "eccettuazioni" che riflettono la "gradualità" strategica più volte menzionata.
In conclusione, monopoli e oligopoli, - affidati a una nuova regolazione "del mercato", escludendosi progressivamente lo Stato dal, mal visto monopolio pubblico (ed estendendone oltremodo il concetto), sul presupposto della simultanea garanzia del controllo dell'inflazione, così come previste dai trattati UE-, risultano, in sede UE, disciplinati in linea con la teoria di v.H.
7- STATO MINIMO E "ECCESSO" DI TASSAZIONE.
Le cose fin qui complessivamente dette, dovrebbero aver chiarito il concetto di "Stato minimo", caratterizzato da una "Legge" che pone al di sopra di ogni cosa il soggetto naturale di tutela, il "proprietario-produttore", escludendosi, come interferenza distorsiva, ogni altro tipo di "legislazione", in specie quella sociale, foriera di violazioni e privilegi rispetto alla condizione di "astensione" dello Stato che possa porre in pericolo questo, ben delimitato, concetto di libertà.
Attinta dalla generale condanna della sua arbitrarietà, l'attività dello Stato sarà da delimitare progressivamente alla costruzione di "strade"...e alla segnaletica, mentre non è esclusa la progressiva privatizzazione, per di più in un mercato di cui si auspica la apertura "mondiale", di attività come difesa e pubblica sicurezza; queste, poi, finiscono per essere, in ultima analisi destinate a tutelare la proprietà produttiva, sul territorio nazionale come all'estero. Istruzione, previdenza e sanità sono invece nel tipico campo di elezione della "libertà" dei privati operatori economici. Lo Stato minimo ne è doverosamente escluso.
Un "punto di arrivo" indubbiamente, ma non un obiettivo che può dirsi estraneo alla strumentazione messa in campo coi trattati europei.
Che questa sia una costruzione ideale, ma non tanto (nutrendo Hayek espressamente fiducia nel fatto che "un giorno" esisteranno le condizioni politiche per realizzarla:...vi ricorda qualcosa?), e non segna alcuna fondamentale incompatibilità col disegno UE-UEM, che, come già sul piano monetario, ammette un processo strategico che utilizza strumenti di progressiva realizzazione di tale "schema ideale" condivendendone i fini essenziali.
In questa chiave "progressiva" si possono comprendere anche gli elevati livelli di tassazione: si tratta di una condizione transitoria e, naturalmente strumentale, che sconta la modifica del precedente ordine costituzionale dei welfare, mirando a farlo collassare, per rigetto del corpo sociale, mediante la imposizione del vincolo monetario (ad effetti equipollenti "in parte qua" al gold standard) e dei ben noti "vincoli" di deficit e di ammontare del debito, posti rispetto ai bilanci pubblici.
I quali, naturalmente, in una fase iniziale, pazientemente durevole, debbono "rientrare", consolidarsi, aumentando l'imposizione fiscale, prima di poter procedere, verificatesi le condizioni politiche, al taglio strutturale della spesa pubblica.
Alla fine, la gente, avvertendo come insopportabile il costo dei diritti sociali, cioè del welfare, invocherà il loro smantellamento, pur di vedersi sollevata da questa insopportabile tassazione.
Ed è, appunto quanto si sta verificando, segnatamente in Italia, verificandosi così la strumentalità della costruzione europea per la realizzazione del "fine": l'instaurazione del "meraviglioso mondo di Von Hayek".
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