...L’ebola stessa è arrivata all’uomo tramite uno spillover da animali selvatici, le cui origini sono da ricondurre all’uso di alcune popolazioni più povere in Africa, che macellano scimmie e altri animali per alimentarsi...
E' PLAUSIBILE IPOTIZZARE CHE L'IMMIGRAZIONE CLANDESTINA PROVENIENTE DALL'AFRICA POSSA ESSERE VEICOLO DI UNA MUTAZIONE DI EBOLA?
Altro che sciagura improvvisa e inaspettata: dopo Sars e Mers, sapevamo che una nuova pandemia sarebbe arrivata: lo aveva detto chiaramente l’Oms all’inizio del 2018, parlando di una malattia X “causata da un agente patogeno attualmente sconosciuto” come potenziale responsabile di una pandemia. “L’intensità del contatto umano e animale sta crescendo sempre di più con lo sviluppo del mondo, e questo rende più facile l’emergere di nuove malattie”, spiegava il consigliere dell’Oms, Marion Koopmans, “ma anche i viaggi e il commercio moderni rendono molto più probabile la loro diffusione”. Una mutazione biologica (spontanea o meno), aveva avvertito l’Oms, potrebbe diffondersi molto velocemente anche in seguito a un incidente di laboratorio (come ipotizzato da alcuni per il nuovo coronavirus), o per un attacco terroristico, o più probabilmente per “naturale” spillover da una specie all’altra, come sembra sia accaduto con Covid 19, arrivata fino agli esseri umani e poi anche rimbalzata indietro, per esempio, verso i poveri visoni negli allevamenti olandesi). Ma se una nuova pandemia è già in agguato, da dove potrebbe arrivare?
Spillover triplicati in 40 anni
Siamo davvero una specie animale, legata indissolubilmente alle altre”, ha detto David Quammen, autore del saggio del 2013 Spillover, nel quale si preconizza una pandemia e non a caso ripreso in mano da molti oggi, nella sfortunata occasione della pandemia di Covid-19. Lo spillover è il cosiddetto salto di un virus o di un altro patogeno da una specie a un’altra: per il nuovo coronavirus il salto è avvenuto probabilmente dal pipistrello – come anche si pensa nella Sars – o dal pangolino. Ma la storia è costellata di spillover diventati purtroppo famosi: oltre al Sars-Cov-1 e al Sars-Cov-2, c’è il Mers-Cov, responsabile della Mers, il virus dell’influenza aviaria, l’ebola, l’hiv e molti altri, incluso il virus causa del morbillo.
I virologi conoscono bene gli spillover e sanno che non sono così rari come si potrebbe pensare, tanto che prevedere che ci sarebbe stata una pandemia non era molto difficile. Gli animali selvatici sono portatori di circa 750mila virus, secondo i dati del Global Virome Project, che potrebbero essere trasmessi all’essere umano. Negli ultimi 40 anni, inoltre, i salti di specie sarebbero duplicati o addirittura triplicati, come spiega il virologo Dennis Carroll a Nautilus Magazine. E questo è accaduto a causa di vari fattori, fra cui il nostro sconfinamento negli habitat che prima erano esclusivi degli animali. Tanto che Carroll paragona quello che succede con gli spillover a una strada dove macchine impazzite possono investire i pedoni. Per queste ragioni non c’era motivo di pensare che prima o poi non ci sarebbe stato uno scontro – cioè un’epidemia più diffusa o una pandemia come Covid-19. Che peraltro non sarà l’ultima. Ecco quali sono le principali minacce e come dovremmo pensare in futuro per attuare azioni protettive.
Come nasce una pandemia
Da un episodio di spillover a una pandemia il salto non è così breve. “Gli spillover non sono così rari, anche se è difficile conoscere la loro reale incidenza perché moltissimi passano inosservati”, sottolinea Anna Cereseto, ordinario di virologia molecolare al dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata dell’università di Trento. “Prima solitamente avviene un salto del virus fra animali selvatici appartenenti a specie diverse, successivamente il virus può essere trasmesso direttamente all’essere umano oppure, più facilmente, c’è un passaggio intermedio, attraverso il bestiame negli allevamenti”. E ancora, perché si passi da un’epidemia a una pandemia è necessario che il patogeno abbia determinate caratteristiche. “Spesso deve entrare e uscire più volte dalla specie umana a quella animale e viceversa”, chiarisce l’esperta. “Così ha modo di mutare e adattarsi sempre meglio al nuovo ospite, causando via via infezioni meno gravi ma più contagiose e ricorrenti”. Quando dall’essere umano rientra nell’animale accade frequentemente che il virus si ricombini con altri virus. Se sono simili a quelli che circolano nella nostra specie, è maggiormente probabile che nei successivi salti il virus attecchisca meglio e sia più contagioso.
“La maggiore trasmissibilità è associata a una letalità solitamente bassa”, specifica Cereseto. “Se i sintomi sono rilevanti e la mortalità è elevata – nel caso di infezioni in cui il contagio avviene da persona a persona e non è necessaria la presenza di un vettore, come la zanzara – il malato grave non fa neanche in tempo a spostarsi e contagiare altre persone”. Un altro elemento che ha fatto e può fare la differenza riguarda la latenza della malattia. “Nella Covid-19”, aggiunge la virologa, “la comparsa dei sintomi, peraltro spesso molto leggeri e facilmente confondibili con quelli di altre malattie infettive, avviene qualche giorno dopo il contagio e così il virus ha avuto tutto il tempo di diffondersi nella popolazione, cosa che non è avvenuta ad esempio nella Sars, in cui la malattia si manifestava subito”.
L’aviaria fra le prossime minacce
“Attualmente ci sono diversi virus che potrebbero entrare nella specie umana e causare epidemie o pandemie”, ha spiegatoCereseto. “Sotto i riflettori ad esempio c’è H5n7, responsabile dell’influenza aviaria, che è entrato nella nostra specie in più occasioni, in particolare a partire dal 2003 e 2004, nel Sud-Est asiatico e non solo”. Il virus, passato dal pollame all’essere umano, era però molto più letale – la letalità è stata stimata intorno al 35%, cioè circa una persona su tre andava incontro a decesso – e anche per questo contagioso di Covid-19. “Le ‘entrate’ nella nostra specie, cioè gli episodi epidemici, sono stati numerosi, a differenza ad esempio di quanto avvenuto nella Sars, che si è estinta e non è ricomparsa”, sottolinea Cereseto. “Questo elemento supporta l’idea che prima o poi il virus possa ritornare di nuovo e diffondersi maggiormente, anche con una pandemia”. Per non alimentare allarmismi bisogna sottolineare, però, che per far sì che l’aviaria diventi pandemica dovrebbe prima subire vari adattamenti e diventare molto meno letale.
Attenzione anche ai coronavirus
Ma dobbiamo stare attenti anche ai coronavirus. Molto probabilmente nel caso di Sars-Cov-2 lo spillover è avvenuto dal pipistrello, animale che ora più che mai è sotto i riflettori degli scienziati: uno studio su Current Biology ha mostrato che Sars-Cov-2 condivide circa il 96% del genoma di un coronavirus presente nei pipistrelli, Ratg13, e per il 93% quello di un altro coronavirus, sempre dei pipistrelli, Rmyn02. Secondo una ricerca appena pubblicata, poi, il virus potrebbe essersi generato per ricombinazione, nello stesso animale, da un coronavirus di pipistrello e da un altro coronavirus di pangolino.
“Siamo a conoscenza che i pipistrelli sono dei veri e propri serbatoi, degli incubatori dei coronavirus”, spiega Cereseto, “dato che sono co-infettati con 14 tipi diversi di questa famiglia. In questi animali le ricombinazioni sono frequenti e peraltro loro convivono meglio di noi con questi patogeni, dato che non mostrano una risposta immunitaria eccessiva – che nella Covid-19 è poi la causa della forte infiammazione che nei casi più gravi portare al decesso”. Inoltre i coronavirus entrano facilmente nella specie umana. “Per questo dobbiamo aspettarci altri spillover”, prosegue la virologa, “magari con raffreddori – diversi coronavirus già circolanti causano un semplice raffreddore – oppure malattie più importanti, come è accaduto nel caso di Covid-19 o delle ancora più gravi Sars e Mers”.
Non ci sono solo aviaria e coronavirus
Fra i 750mila virus degli animali che potrebbero fare il salto di specie ne sono anche tanti sconosciuti. E’ quanto avvenuto in passato con l’Hiv, con un salto di specie probabilmente dallo scimpanzé all’essere umano e databile al 1908, secondo Quammen. “Anche ebola ha iniziato ad entrare frequentemente nella nostra specie”, aggiunge Cereseto, “e non è escluso che possa, nel tempo, mutare e ricombinarsi dando luogo a un virus meno letale con una diffusione pandemica”. L’ebola stessa è arrivata all’uomo tramite uno spillover da animali selvatici, le cui origini sono da ricondurre all’uso di alcune popolazioni più povere in Africa, che macellano scimmie e altri animali per alimentarsi.
I cambiamenti climatici possono favorire le epidemie
In generale in futuro le epidemie potrebbero essere più frequenti. “Questo a causa della maggiore interazione fra essere umano e animale causata da vari fattori”, sottolinea Cereseto, “dall’aumento della popolazione globale alla povertà, insieme alla presenza di cambiamenti climatici e ambientali che causano lo spostamento di intere comunità umane e animali, sempre più a contatto fra loro”. Per queste ragioni, prosegue l’esperta, bisognerebbe cominciare a pensare ai cambiamenti climatici come una minaccia non solo per l’ambiente e per il nostro pianeta, ma anche per la nostra salute, ad esempio per comparsa di nuove infezioni virali.
Essere umano e ambiente, un rapporto complicato
L’interazione fra la specie umana e l’ambiente è infatti un elemento centrale: diversi scienziati indicano ad esempio che la deforestazione, la realizzazione di miniere per l’estrazione di minerali o del petrolio e l’urbanizzazione di zone prima abitate da specie selvatiche spesso interferiscono con la fauna locale. Gli esperti della Ecohealth Alliance – organizzazione non governativa che si occupa di proteggere la salute di persone, animali e l’ambiente – hanno analizzato gli eventi di spillover dal 1940 ad ora, come spiega a Nautilus Magazine il virologo Dennis Carrol, e si sono accorti che negli ultimi decenni sono raddoppiati o triplicati rispetto a quanto avveniva circa 40 anni fa. Questo accade perché la popolazione umana è passata da 1 miliardo a 7 miliardi nel giro di 100 anni, con ripercussioni importanti sull’ambiente e sulla gestione degli spazi.“Il singolo migliore predittore di un evento di spillover”, ha spiegato Carrol su Nautilus, “è il cambiamento della destinazione d’uso della terra – più terreno dedicato all’agricoltura e più specificamente all’allevamento”.
Le zone più a rischio
Una mappa in uno studio sul Lancet mostra che le zone più a rischio dell’origine di una futura pandemia sono soprattutto quelle della Cina, dell’estremo oriente e dell’India, seguite poi da quelle dell’Africa sub sahariana e nella parte vicino alla costa nordoccidentale, dell’Europa e dell’America centrale e meridionale, nonché la regione orientale degli Stati Uniti. La mappa è stata realizzata sulla base di un banca dati sulle infezioni emergenti che contiene informazioni a partire dal 1940. “I motivi per cui le regioni asiatiche sono più intaccate”, spiega Cereseto, “sono sia di natura demografica, per l’alta densità della popolazione e per i cambiamenti nella sua distribuzione. Ma sono anche di natura economica, se pensiamo agli allevamenti intensivi – questo ovunque – sociale, legate a usi e tradizioni locali, come la macellazione e la vendita di animali selvatici. In realtà in qualsiasi parte del globo terrestre, e non solo in Asia, ci sono stati nuovi patogeni che in qualche momento hanno messo in pericolo la specie umana”.
Cosa fare per difenderci
“Dovremmo iniziare ad accettare il fatto che da sempre, e anche ora, le infezioni virali possono minacciare la nostra salute, come qualsiasi altra malattia”, sottolinea Cereseto, “e questa consapevolezza potrebbe aiutarci anche a mettere in atto tutte le risorse per proteggerci al meglio”. Le epidemie e le pandemie esistono e sono sempre esistite e non c’è ragione di pensare che nel mondo contemporaneo un virus non possa colpirci contagiando milioni di persone e causando centinaia di migliaia di decessi, come per il Sars-Cov-2. “Oltre a ripensare al nostro impatto sull’ambiente, potremmo migliorare aspetti pratici, come la gestione di una pandemia”, conclude la virologa. “A mio avviso, in molti casi è mancata una buona comunicazione fra ricercatori, come virologi ed epidemiologi, che fin dall’inizio dell’epidemia conoscevano il potenziale rischio pandemico, e le istituzioni e i governi. Questa comunicazione, infatti, avrebbe favorito una risposta e un’adozione ancora più tempestiva di tutte le misure e le strategie che stiamo mettendo in campo adesso e dunque avrebbe permesso di affrontare meglio l’epidemia”.
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