Indottrinamento e manipolazione: la “Pedagogia della resistenza” – di Giuseppe Gagliano
Particolare importanza riveste la riflessione del pedagogista Olivier Reboul (L’Endoctrinement – Paris, PUF, 1977) docente di Filosofia all’Università di Strasburgo secondo il quale esistono confini molto labili all’interno del rapporto tra pedagogia e ideologia e tra indottrinamento e manipolazione.
Infatti, se l’indottrinamento è una strategia sistematica e cosciente volta a plasmare la condotta umana, la manipolazione costituisce una sistematica distorsione delle capacità di azione.
Nello specifico – servirsi dell’insegnamento per costruire una dottrina faziosa abusando della propria autorità insegnando in base a forti pregiudizi e indicando nella propria dottrina l’unica possibile insegnando solo i fatti che confermano la propria dottrina o falsificarli o selezionare una parte del programma – costituiscono tutte tecniche che violano l’autonomia dell’individuo e che si collocano a metà strada tra l’indottrinamento e la manipolazione.
Ebbene, la pedagogia marxista durante gli anni sessanta e settanta in Francia e Italia, non ha fatto altro che servirsi dell’indottrinamento e della manipolazione con l’intento di eroderlo dall’interno attraverso un lento logoramento allo scopo di far sorgere nell’ambito formativo un processo rivoluzionario.
Un esempio illuminante è quello che ci offre la riflessione di Raffaele Mantegazza, docente di pedagogia generale all’Università Bicocca con il celebre saggio Pedagogia della Resistenza.
L’autore, alla luce delle influenze filosofiche esercitate dalla scuola di Francoforte e da Michel Foucault, ritiene che la pedagogia sia una scienza utopica che a partire dall’indagine attorno al campo esperienziale specifico mette in atto strategie di soggettivizzazione e, attorno alla teleologia specifica di tali strategie, studia, decifra e smaschera i dispositivi materiali e inconsci di una pratica di potere che permette la costituzione di una soggettività funzionale all’ordine sociale e che a partire da tale smascheramento cerca di giungere alla definizione di una nuova forma di soggettività.
Alla luce di questa definizione, risulta evidente l’intento dell’autore di denunciare, attraverso la filosofia dell’educazione – che denomina la pedagogia della resistenza – il dominio in tutte le sue forme smascherandone la meccanica oppressiva e autoritaria (secondo un’impostazione ampiamente teorizzata durante l’Ottocento).
Pedagogia della resistenza e manipolazione
Anche per l’autore – come per Riccardo Massa, docente di pedagogia alla Università Statale di Milano – l’educazione è una forma di potere e proprio per questo l’educazione libertaria deve porre al centro della sua attenzione lo studio del potere e quindi il suo smascheramento (soprattutto quello esercitato dall’educatore).
Infatti le pratiche educative non sono altro che un controllo e un condizionamento sia dei soggetti che di gruppi sociali dominanti che non a caso hanno attribuito all’educazione un ruolo fondamentale nel mantenimento dell’ordine sociale (risulta ovvia per l’autore la portata rivoluzionaria del ’68 che ha valorizzato una filosofia antiautoritaria e ha posto al centro della sua prassi rivoluzionaria l’autogestione come strumento di scoperta e di demistificazione).
Proprio allo scopo di opporsi alle pratiche educative correnti, l’autore valorizza sia la dimensione critica che utopica intendendole come fondamentali dimensioni di alterità.
In quest’ottica il cristianesimo sociale e soprattutto le riflessioni di Michel Foucault appaiono fondamentali almeno tanto quanto la riflessione sulla pedagogia di Basil Bernstein.
Se per il filosofo francese era fondamentale studiare la dimensione dell’addestramento e dell’assoggettamento che mette in campo dispositivi disciplinari, per il pedagogista italiano la filosofia dell’educazione deve essere un’opera di smascheramento del potere e nel contempo di costruzione di setting di contropotere.
A tale riguardo la centralità dell’autogestione come sistema educativo nel quale gli allievi decidono metodi e programmi di apprendimento viene sottolineata dall’autore tanto quanto la necessità – tipica della scuola pedagogica di descolarizzazione – di criticare la scuola come istituzione totale.
Ribaltamento delle figure simboliche
Anche le riflessioni di Paulo Freire e di Enrique Dussel costituiscono un punto di riferimento fondamentale per l’autore poiché hanno contribuito a reinterpretare la pedagogia come strumento di liberazione delle masse e a ridefinire il ruolo del docente come maestro poiché fa opera di liberazione (a tale riguardo la difesa da parte dell’autore della rivoluzione sandinista contro l’imperialismo occidentale appare di estrema rilevanza).
Insegnare il ribaltamento delle gerarchie simboliche e il sovvertimento delle istituzioni educative, significa trasformare la pedagogia in uno strumento di resistenza volto a emancipare l’individuo, volto a recuperare la dimensione utopica.
La centralità della dimensione utopica appare una costante nella riflessione del pedagogista italiano poiché essa aspira a cambiare il mondo, a smascherare le dinamiche di potere contro l’omologazione sociale anche attraverso la particolare enfasi posta sull’educazione estetica intesa in senso schilleriano-marcusiano, sulla dimensione non violenta della educazione poiché la nonviolenza possiede per l’autore una potenziale critico rilevante nei confronti dell’esistente in quanto questa valorizza l’obiezione di coscienza, il boicottaggio fiscale e la logica dell’autogestione.
Ora, al di là delle riflessioni strettamente filosofiche, come dovrebbe agire nella realtà sociale italiana attuale uno studente universitario (che rappresenta certamente l’utenza principale delle opere del filosofo lombardo) o perfino liceale secondo l’ottica indicata da Mantegazza?
Leggere il quotidiano il Manifesto, militare politicamente nell’Arci, simpatizzare (o tesserarsi) per la Cgil e votare per Sinistra italiana (alla cui fondazione partecipò nell’aprile del 2017). Tutta qui dunque la rivoluzione mantegazziana?
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