QUANDO IL FASCISMO TIRO' FUORI L'ITALIA DAI GUAI. IL PERIODO FASCISTA TRA "INVIDIE" E NOSTALGIE....
Nel libro di Vespa vengono analizzate in chiave attuale le misure che il Duce introdusse per tirare fuori il Paese dal baratro. Molte sarebbero d'esempio anche oggi
Poiché è stata la crisi del 2011-12 a suggerire l’idea di questo libro, e a fronte delle difficoltà incontrate dal governo Monti nel taglio della spesa pubblica, può essere interessante vedere come se la cavò Mussolini nell’altra Grande Crisi del secolo scorso. Come ogni regime dittatoriale, il fascismo spendeva grosse cifre per la difesa: all’inizio della crisi esse rappresentavano il 32 per cento del bilancio statale, contro il 14 degli stanziamenti per opere pubbliche. Ora, negli anni successivi al 1931, il bilancio della Difesa fu tagliato del 20 per cento, mentre lo stanziamento per opere pubbliche fu quasi raddoppiato. («Nei primi dieci anni del mio governo - amava puntualizzare il Duce- si è speso in opere pubbliche più di quanto abbiano speso i governi liberali nei primi sessant’anni dall’Unità d’Italia»). Il bilancio della polizia, altra posta strategica del regime, fu decurtato del 30 per cento, come quello della Giustizia, mentre gli stanziamenti per le Colonie furono ridotti quasi del 50 per cento. Colpisce, invece, che non sia stato tagliato di una sola lira il bilancio della Pubblica Istruzione. Nonostante la scuola fosse uno dei settori sui quali Mussolini puntava maggiormente (famoso lo slogan «Libro e moschetto»), l’istruzione non fu mai veramente «fascistizzata», perché tra gli stessi insegnanti fascisti erano pochi quelli che accettavano di svuotare la scuola della sua funzione culturale appiattendosi completamente sulle esigenze del regime. Furono ridotti del 20 per cento anche i servizi finanziari, malgrado i robusti interventi per salvare banche e imprese. Nella prima metà degli anni Trenta il bilancio dello Stato oscillò tra i 19 e i 21 miliardi di lire. Nell’esercizio finanziario 1930-31 il disavanzo fu limitato al 2,5 per cento, ma dall’anno successivo passò via via dal 20 al 35, per ridiscendere al 10 nel biennio 1934-35.
Per farvi fronte, non volendo rinunciare alla parità aurea nonostante la svalutazione del dollaro e della sterlina, Mussolini fu costretto in cinque anni a dimezzare le riserve d’oro della Banca d’Italia. Gli inasprimenti fiscali raggiunsero il picco nel 1934 con l’aggravio delle imposte sugli scambi e sulle successioni. Fu lì che il Duce disse «basta», con una frase che suonerebbe ancor oggi di notevole buonsenso: «La pressione fiscale è giunta al suo limite estremo e bisogna lasciare per un po’ di tempo assolutamente tranquillo il contribuente italiano e, se sarà possibile, bisognerà alleggerirlo, perché non ce lo troviamo schiacciato e defunto sotto il pesante fardello». (...) La diffusione delle biciclette e delle tramvie extraurbane aveva favorito il pendolarismo tra campagna e città, cosicché si formò una potenziale nuova classe lavoratrice che i sindacati cercarono di arginare, difendendo gli operai urbani. I sindacati fascisti chiesero la riduzione dell’orario lavorativo settimanale a 40 ore a parità di salario: l’Italia fu il primo paese al mondo a introdurre tale misura fin dal 1934, una scelta così avanzata che è ancora in vigore quasi ottant’anni dopo. (…)
Nel 1933 il regime modificò radicalmente il sistema assicurativo pubblico creando l’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale (Infps), dotato di gestione autonoma. Prima della fine del decennio, furono approntati diversi ammortizzatori sociali,come l’assicurazione contro la disoccupazione, gli assegni familiari e le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o a orario ridotto. Per compensare i sacrifici chiesti ai lavoratori e alle loro famiglie con le riduzioni salariali, il regime predispose «una serie di servizi sociali e di possibilità ricreative, sportive, culturali, sanitarie, individuali e collettive, sino allora sconosciute o quasi in Italia e che influenzarono largamente il loro atteggiamento verso il fascismo e soprattutto quello dei giovani che più ne usufruirono». (...) In un paese ancora povero, in cui pochissimi bambini potevano permettersi le vacanze al mare, fu provvidenziale l’istituzione delle colonie estive, i cui ospiti passarono da 150mila nel 1930 a 475mila nel 1934. Nel 1926, un anno dopo la sua costituzione, l’Opera nazionale dopolavoro contava 280mila iscritti, che un decennio più tardi erano saliti a 2 milioni 780mila, per raggiungere i 5 milioni alla vigilia della seconda guerra mondiale: quasi il 20 per cento dell’intera popolazione italiana. Gli aderenti godevano di alcune forme di assistenza sociale integrativa oltre a quella ordinaria, della possibilità di fruire di sconti e agevolazioni e, soprattutto, di partecipare a una lunga serie di attività sportive, ricreative e culturali.
Agli adulti la tessera del dopolavoro dava diritto a forti sconti su ogni tipo di svago: dai cinema ai teatri, dai viaggi alle balere, dagli abbonamenti ai giornali alle partite di calcio. Tutti, iscritti e non, avevano diritto se bisognosi- alla refezione scolastica, a libri e quaderni gratuiti,all’accesso a colonie marine, ai campeggi estivi e invernali, all’assistenza nei centri antitubercolari. (...) Rexford Tugwell, l’uomo più di sinistra dell’amministrazione americana, pur collocandosi ideologicamente agli antipodi del fascismo, riconosceva che il regime stava ricostruendo l’Italia «materialmente e in modo sistematico. Mussolini ha senza dubbio gli stessi oppositori di Roosevelt, ma controlla la stampa e così costoro non possono strillare le loro fandonie tutti i giorni. Governa un paese compatto e disciplinato, anche se con risorse insufficienti. Almeno in superficie, sembra aver compiuto un enorme progresso. Il fascismo è la macchina sociale più scorrevole e netta, la più efficiente che io abbia mai visto. E ne sono invidioso».