giovedì 8 ottobre 2020

Bill Gates e la minaccia del bioterrorismo: quali rischi ci sono davvero?

QUANDO NEL 2017 BILL GATES GIA' "PROFETIZZAVA" SU UN ATTACCO BIOTERRORISTICO E DI PANDEMIA. SIAMO NEL 2020: PROFEZIA AVVERATA, MA IL NOSTRO AGUZZINO HA GIA' PRONTO UN VACCINO DAL NUMERO DI BREVETTO SINISTRO "666"....

Un attacco bioterroristico o comunque una pandemia nei prossimi anni non è improbabile, dice Bill Gates. E in Italia siamo pronti?


immagine di DFID – UK Department for International Development (CC)

“La prossima epidemia potrebbe essere originata dallo schermo di un computer di un terrorista con l’intenzione di usare l’ingegneria genetica per creare una versione sintetica del virus del vaiolo… o un ceppo di influenza super contagiosa e mortale”. A dirlo non è un teorico cospirazionista e paranoico del bioterrorismo, ma uno che si intende sia di computer che di ricerca medica: Bill Gates.

Il co-fondatore di Microsoft è da anni impegnato a finanziare progetti internazionali riguardanti prevenzione e salute pubblica. Ma lo scorso sabato al convegno sulla sicurezza di Monaco (Germania), ha fatto agitare più di qualcuno. Bill Gates ha snocciolato cifre allarmanti: oltre trenta milioni di persone potrebbero essere uccise in un solo anno. Che la minaccia derivi dai terroristi o meno, c’è una ragionevole probabilità che il mondo possa affrontare un evento del genere nei prossimi dieci o quindici anni.

Sembrano dichiarazioni piuttosto agghiaccianti, che sono rimbalzate sui media come una pallina di un flipper. Ed effettivamente lo sono, ma non dovrebbero stupire più di tanto. Incrociando numerose variabili, dalle situazioni geopolitiche e climatiche, alle rilevazioni epidemiologiche, oggi sappiamo che il bioterrorismo è uno scenario possibile. I terroristi potrebbero sintetizzare in vitro virus o batteri e diffonderli. Quanto sia probabile però è difficile dirlo. “Da tempo esperti del settore hanno indicato proprio in un super bug la minaccia del futuro”, ci fa sapere Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica del polo ospedaliero Luigi Sacco di Milano.

Gismondo è chiamata a intervenire abitualmente come delegata italiana alle riunioni delle Nazioni unite per il disarmo biologico. Lì l’assunto è “sappiamo che potrà avvenire ma non sappiamo se e quando”.

L’Italia però è pronta in caso di attacco bioterroristico? “Sì, lo siamo”, rassicura Maria Rita Gismondo. “Abbiamo un ottimo sistema di medical intelligence e due centri pronti ad intervenire”. Non a caso quello di massimo livello di sicurezza è proprio il suo, il laboratorio BSL 4 dell’ospedale Sacco di Milano. L’altro è a Roma, il laboratorio BSL 3 dell’ospedale Spallanzani di Roma.

Se ogni scenario è diverso, esiste però un piano di bioemergenza preciso. “Si parte dalla rilevazione di un focolaio per poi arrivare ad un macrofenomeno”, spiega Gismondo. “Dopo alcune misure generali di contenimento ci sono le indagini di identificazione dell’agente causa”. Dalla sua natura dipende quindi il piano di intervento vero e proprio, legato ai meccanismi di trasmissione dell’infezione.

In teoria fare i bioterroristi negli ultimi anni è diventato meno difficile. Il miglioramento tecnico-scientifico soprattutto nell’ambito della biologia molecolare facilita il lavoro. Ma bisogna considerare due fattori: le capacità e le conoscenze adatte nonché laboratori calmi e tranquilli in cui operare. Condizioni che almeno nelle zone di conflitto non è banale trovare.

Bill Gates però ricorda che catastrofi epidemiologiche con decine di milioni di morti non arrivano necessariamente per mano dell’uomo. E soprattutto sono avvenute in epoca moderna. Meno di cento anni fa, nel 1918, ci fu la famosa Spagnola. Un ceppo particolarmente letale di influenza, infatti, uccise tra i cinquanta e cento milioni di persone. Circa il 3-5% della popolazione mondiale.

Bill Gates ha ricordato che le azioni principali per prevenire un’epidemia di origine naturale sono le stesse di un attacco biologico su larga scala. Però bisogna farle. “Dovremmo essere abbastanza saggi da considerare l’impatto sociale ed economico che potrebbe derivare da qualcosa di simile all’ebola nei nostri centri urbani”, precisa Gates.

Non basta quindi capire come le malattie si diffondono. Bisogna anche analizzare come le persone rispondono a situazioni di panico, e come poter fronteggiare sistemi di comunicazione intasati e strade bloccate. E la peggiore cosa che potremmo fare è chiudere i confini alle cooperazioni internazionali. Sia in campo diplomatico che, soprattutto, della ricerca.

Nessun commento: