di Domenico Airoma
(in esclusiva per questo sito *)
Le paranze dei camorristi bambini sciamano rumorose per i vicoli di Napoli. Sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ebbri di potere effimero, i baby boss vanno consapevoli verso l’inevitabile naufragio.
Scene da film.
Ed un film è stato fatto, immancabile. Perché il ragazzino in sella allo scooter, arma in pugno, che correndo va incontro alla morte, affascina. Va ripreso, va fatto vedere. In tutti i suoi dettagli noir. Non importa se altri giovani imiteranno quei centauri morituri. Non interessa chi e cosa naufraga assieme a quelle paranze. Perché è questo che andrebbe raccontato, senza ideologia né decadenti compiacimenti.
E’, innanzitutto, naufragato quel codice d’ “onore” che segnava l’adesione alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Un codice che imponeva il rispetto di determinati valori e principi riconosciuti come indispensabili per guadagnarsi il consenso della comunità che si pretendeva di governare; certamente un ossequio di facciata, un “inchino” finalizzato solo al consolidamento dell’egemonia della consorteria mafiosa, del “sistema”; ma pur sempre un “codice” da rispettare e da far rispettare e che, in quanto tale, contribuiva a tracciare i contenuti di un’identità forte –o almeno percepita come tale-, che esercitava un’indubbia forza attrattiva, soprattutto nei confronti delle giovani generazioni.
Ebbene, quel codice non c’è più.
E’ stato dilaniato dalla meccanica del circuito vizioso innescata dalla dissoluzione dei valori e dalla perversione sfrenata, che non poteva non colpire gli stessi sodalizi mafiosi, fra i principali motori di quel processo.
E’ finito, cioè, stritolato in quello stesso ingranaggio che la mentalità e gli interessi mafiosi hanno contribuito ad alimentare.
Si è chiusa, verosimilmente, un’epoca della criminalità organizzata o, almeno, stiamo assistendo al tramonto di uno “stile di vita” di mafioso che intendeva, ostentatamente, porsi in conflitto con un modo di vivere e di pensare “degenerato” e “lassista”.
Ed è proprio lo stile di vita criminale del minore inserito nei circuiti di tipo mafioso che fotografa, più di ogni altra circostanza, il cambiamento profondo che attraversa la criminalità organizzata.
Si tratta di una fase caratterizzata da un narcisismo aggressivo, dove la disgregazione di ogni codice ha lasciato il posto alla ostentata affermazione dei più violenti. Una ricerca di affermazione che costituisce la risposta, tragicamente miope, ad una domanda di identità che, non trovando risposta in un ambiente oramai senza alcuna identità, finisce per rivolgersi al surrogato di più rapida ed efficace impiego, il clan; una scelta di vita che è sentita come l’unica strada per emergere, in tempi brevi, da un buio anonimato o da una condizione di disperante assoggettamento.
Tutto ciò non è, tuttavia, senza conseguenze anche con riferimento ad un altro versante, forse poco esplorato, quello dei minori vittime delle consorterie mafiose.
E sul punto, mentre la mente va senz’altro ai tanti minorenni che cadono sul campo delle guerre fra clan oppure sotto il fuoco delle forze dell’ordine, non possiamo non registrare un dato per tanti aspetti nuovo, quello dello sfruttamento, anche sessuale, dei bambini.
Quante volte nel passato abbiamo assistito alla reazione, immediata, inesorabile, del clan nei confronti di coloro che si erano resi responsabili di crimini ritenuti lesivi di quel codice d’ “onore”; e fra questi, soprattutto, dei colpevoli degli abusi sessuali sui minori, considerati come “intoccabili”.
Quei “mostri” venivano giustiziati e tutti sapevano che erano stati giustiziati dai padrini, senza inutili processi e senza pietà alcuna. Era un modo con cui la consorteria mafiosa manifestava la propria omogeneità rispetto al “sistema” dei valori condivisi dalla comunità.
Oggi dobbiamo registrare una significativa, in quanto sempre più reiterata, assenza di reazione nei confronti di comportamenti di quel tipo. Il dato è verosimilmente sintomatico di un mutamento nella considerazione stessa di tali condotte: in un contesto, sociale e culturale, nel quale non vi è più la condivisione di qualsivoglia regola, nessuno avverte più la necessità di intervenire e di punire condotte “moralmente” ritenute non tollerabili.
Il consenso della comunità si guadagna diversamente; non c’è più ragione di presentarsi come inflessibili “giustizieri” dei comportamenti ritenuti un tempo travalicanti i confini della stessa tolleranza criminale, per la semplice ragione che confini più non ci sono.
Non si intende qui sminuire la portata dei diversi fattori che contribuiscono a spiegare l’attecchimento e la sistematicità di determinate condotte in pregiudizio dei minori.
Certo è che si assiste sempre di più alla combinazione di molteplici e convergenti condizioni che fanno sì che gli abusi su minori acquisiscano il carattere di pratiche diffuse e tollerate –se non proprio alimentate- dai sodalizi di tipo mafioso.
Da un lato la disgregazione dei legami familiari, l’assenza di qualsivoglia punto di riferimento protettivo dei minori, non supplito da altre istituzioni, spesso assenti in quartieri scolpiti a tavolino e riempiti con operazioni di deportazione.
Dall’altro il bambino come oggetto di divertimento dell’adulto, talora di divertimento organizzato, messo quindi a disposizione di una cerchia più o meno estesa di adulti; di un divertimento anche sublimato “culturalmente”, presentato comunque come una manifestazione di amore, di tipo “intergenerazionale”, all’insegna dello slogan “love is love”.
Non è un caso, pertanto, se in determinati quartieri, pur sottoposti a controllo della criminalità organizzata, si diffonda sempre più il modello del bambino “adultizzato”, pronto a replicare i comportamenti degli adulti, in campo criminale, come in quello sessuale.
La mafia, la camorra, la ‘ndrangheta –fa parte della loro storia- lucrano sfruttando i vizi; prima ancora del pizzo sulle attività commerciali, la criminalità organizzata ha da sempre tratto lauti guadagni imponendo la tassa sul soddisfacimento delle pulsioni viziose.
E’ accaduto sul traffico di sostanze stupefacenti, sulla prostituzione; ben può accadere sullo sfruttamento sessuale dei bambini. Soprattutto una volta che si è sfaldato quel codice comportamentale che metteva al bando determinate condotte viziose.
Di chi la colpa di tutto questo? Del camorrista che organizza il traffico?
Ancora una volta, occorre fare attenzione a non scambiare chi approfitta di un fenomeno, con le cause, certamente più profonde, culturali e sociali, del fenomeno stesso.
Un po’ come la questione del traffico dei rifiuti. La criminalità organizzata ha dato veste imprenditoriale ad una sistematica aggressione all’ambiente, mettendosi così in condizione di fare più vittime di tutte le guerre di mafia messe insieme. E tuttavia, i mafiosi non hanno fatto altro che rispondere ad una domanda; non hanno creato la domanda, né ne sono stati i primi interessati.
Lo stesso sta accadendo per i minori sfruttati, anche sessualmente.
Se vi è un interesse della criminalità organizzata, è perché vi è una domanda sempre più estesa (basti pensare alla diffusione della pedopornografia in ambienti sempre più “insospettabili”) e sempre più esigente; una domanda a cui ora viene data una risposta anche dalla criminalità organizzata.
Ed allora, se può essere senz’altro utile, anzi consigliabile, allontanare i minori abusati dal contesto familiare e sociale di riferimento e se può essere doveroso separare i figli dai genitori mafiosi per dar loro un futuro diverso, è però necessario interrogarsi su quali ideali e quali modelli di vita vengono poi proposti a quei giovani.
Perché quel che è naufragato assieme alle paranze è proprio quell’antropologia tutta relativistica che, da un lato, porta sul set cinematografico i baby boss, denunciandone la disperante condizione di destinati alla morte, e dall’altro sostiene la legalizzazione delle droghe in nome di un falso contrasto alle mafie, schiava di una concezione mortifera di una libertà senza limiti.
Il naufragio di quelle paranze è allora il naufragio di un mondo che ha voluto fare a meno di valori e principi oggettivi. Possiamo far finta che non sia il nostro mondo e riprenderlo, come un set cinematografico. Ma gli attori protagonisti non sono quei baby boss; sono, in realtà, coloro che li filmano.
Il naufragio non è ineluttabile.
Ma bisogna, innanzitutto, chiedere aiuto. E occorre che qualcuno risponda. Che qualcuno cioè abbia risposte.
Occorre agire per far in modo che questo nostro mondo, inselvatichitosi e resosi subumano, torni a recuperare l’umano; costruendo quinte di vivibilità alternative ai contesti criminali, favorendo la creazione di ambienti e occasioni di incontro, diffondendo modelli e punti di riferimento, rispondendo, insomma, a domande di senso, di ricerca di identità, prima e più che preoccuparsi –come pure è giusto- dei bisogni materiali. Per far questo, è necessario che vi siano persone che intendano non rassegnarsi a quell’inferno né far finta che sia un non-luogo, una città invisibile; è necessario scendere all’inferno, con l’obiettivo di tirarne fuori quanti, giovani in testa, sono stati condannati, senza colpa, ad una dannazione morale e sociale.
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