martedì 18 febbraio 2020

IL FONDAMENTO BIBLICO DEL CELIBATO SACERDOTALE

PER CHI FOSSE ASSALITO DAI DUBBI, QUESTI SONO I FONDAMENTI APOSTOLICI DEL CELIBATO SACERDOTALE. E' INDICATIVO COME PROPRIO DI QUESTI TEMPI "ULTIMI" LA DIATRIBA SUL CELIBATO DEI PRETI SIA TORNATA ALLA RIBALTA SUSCITANDO PIU' DI QUALCHE PERPLESSITA' TORNANDO A SEMINARE ZIZZANIA NELLA CHIESA CATTOLICA. MA A SOSTEGNO, OLTRE ALLE FONTI QUI CITATE, PUO' ESSERE UTILE UN'ULTERIORE RIFLESSIONE. LE ANTICHE RELIGIONI PAGANE TENEVANO IN SERIA CONSIDERAZIONE LA CASTITA' SACERDOTALE. BASTI PENSARE ALLE VESTALI DELL'ANTICA ROMA CHE, PER ESSERE DEGNE DI PRESTARE IL CULTO ALLE DIVINITA', DOVEVANO ESSERE RIGOROSAMENTE VERGINI. LE VESTALI, O VERGINI SACRE, ERANO SACERDOTESSE CONSACRATE ALLA DEA VESTA. SOLO DOPO 30 ANNI DI SERVIZIO POTEVANO SPOSARSI.

Risultato immagini per celibato preti bibbia

Questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l'Agnello dovunque va. Essi sono stati redenti tra gli uomini come primizie per Dio e per l'Agnello.
 
(Apocalisse 14,4)

Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio.

(Luca 20, 34:36)

Da diversi secoli viene discussa la questione se l’obbligo del celibato per i chierici degli Ordini maggiori (o almeno quello di vivere nella continenza per quanti erano sposati) sia di origine biblica oppure risalga soltanto a una tradizione ec­clesiastica, dal IV secolo in poi, perché fin da quel periodo, indubbiamente, esiste al riguardo una legislazione irrecusabile. La prima soluzione è stata recentemente presentata di nuovo con una straordinaria dovizia di materiali da C. Cochini: “Origini apostoliche del celibato sacerdotale”[1]. La posizione dell’autore, chiaramente espressa nel titolo, sembra che si possa e si debba mantenere, purché si tenga atten­tamente conto con lui, meglio forse che nel passato, della crescita della tradizione antica, punto sul quale hanno insistito anche A. M. Stickler nella sua prefazione[2] e H. Crouzel in una recensione[3]; in altri termini, si deve dire che l’obbligo della continenza (o del celibato) è diventato legge canonica soltanto nel IV secolo, ma che anteriormente, fin dal tempo apostolico, veniva già proposto ai ministri della Chiesa l’ideale di vivere nella continenza (o nel celibato); e che quell’ideale era già profondamente sentito e vissuto come una esigenza da parecchi (per esempio Tertulliano e Origene), ma che non era ancora imposto a tutti i chierici degli Ordini maggiori: era un principio vitale, una semente, chiaramente presente fin dal tempo degli apostoli, ma che doveva poi progressivamente svilupparsi fino alla legislazione ecclesiastica del IV secolo[4].

In questa medesima linea sembra orientarsi anche il recente Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1579), il quale, pru­dentemente, non menziona nemmeno la legge canonica del celibato, che pur esiste sempre nel diritto attuale della Chie­sa (CIC 277, § 1), ma indica soltanto le sue motivazioni bibliche: però, anche qui, non rimanda più (come spesso nel passato) all’Antico Testamento, cita solo due passi del Nuo­vo Testamento: quello di Mt 19,12, sul celibato “ per il Re­gno dei cieli ”, poi il testo paolino di 1 Cor 7,32, dove si parla di coloro che sono “chiamati a consacrarsi con cuore indivi­so al Signore e alle “sue cose”; e si aggiunge infine che, “abbracciato con cuore gioioso, esso (il celibato) annuncia in modo radioso il Regno di Dio”. Certo, si potrebbero an­cora citare qui altri passi del Nuovo Testamento a cui riman­dava, per esempio, Paolo VI nella sua Enciclica Sacerdotalis coelibatus (nn. 17‑35), per indicare le ragioni del sacro celi­bato (il suo significato cristologico, ecclesiologico ed escato­logico). Ma il problema è che questi diversi testi descrivono, come un ideale tipicamente cristiano, il valore teologico e spi­rituale del celibato in genere; questo ideale, però, vale anche per i religiosi e per le persone consacrate nel mondo; non in­dicano una connessione speciale con i ministeri nella Chiesa.

La domanda precisa che si pone quindi è questa: esistono nella Sacra Scrittura dei testi che indichino un nesso specifico tra celibato e sacerdozio? Sembra di sì. Ma si dovrebbero a que­sto scopo meglio valutare certi passi neotestamentari che stra­namente non vengono quasi più presi in considerazione nelle discussioni recenti: sono i testi in cui viene proposta la norma paolina (molto controversa, è vero) dell’ “unius uxoris vir ”[5], per l’analisi della quale anche C. Cochini ha portato recen­temente materiali nuovi. Questo principio, enunciato più volte nelle Lettere Pastorali, ha nel nostro caso un’importanza unica per due ragioni. La prima é, come hanno mostrato bene tan­to A. M. Stickler[6] quanto C. Cochini[7], che la clausola è una delle formule principali sulle quali si basava la Tradizione an­tica per rivendicare proprio l’origine apostolica della legge del celibato sacerdotale. Questo però era senza dubbio un enorme paradosso: come è possibile fondare il celibato dei sacerdoti partendo da testi che parlano di ministri sposati? Un tale ragionamento può avere qualche senso soltanto se si trova tra i due estremi (il matrimonio dei ministri e il celi­bato) un termine medio: è quello della continenza a cui si ob­bligavano proprio i ministri sposati. E probabilmente per­ché questo valore di mediazione della continenza non è stato più capito in seguito, che in tempi recenti la formula “unius uxoris vir” non è più stata usata nelle discussioni sul celiba­to. E’ molto opportuno oggi riesaminare attentamente quel­l’argomento tradizionale. L’altra ragione per cui questi testi sono specialmente importanti dal punto di vista strettamen­te biblico sta nel fatto che sono gli unici passi del Nuovo Te­stamento in cui viene emanata una norma identica per i tre gruppi dei ministri ordinati, e solo per loro: infatti, secondo le Lettere Pastorali, deve essere “ unius uxoris vir” sia l’epi­scopo (1 Tm 3,2), sia il presbitero (Tt 1,6), sia il diacono (1 Tm 3,12), mentre quella formula (tecnica a quanto sembra) non viene mai adoperata per gli altri cristiani. C’è qui dunque una esigenza specifica per l’esercizio del sacerdozio ministeriale in quanto tale. D’altra parte, si deve osservare anche che la formula complementare “unius viri uxor” (1Tm 5,9) viene usata soltanto per una vedova di almeno sessant’anni, ossia, non per una cristiana qualsiasi, ma per una donna anziana che esercitava anch’essa un ministero nella comunità (pos­siamo paragonarlo a quello delle diaconesse nella tradizione antica). Il carattere stereotipato di questa formula delle Pa­storali fa sospettare che doveva essere già radicata in una lunga tradizione biblica [8].

Che cosa significa dunque il fatto che il ministro della Chie­sa doveva essere “l’uomo di una sola donna”?

Nelle pagine seguenti vorremmo mostrare innanzi tutto che la formula “unius uxoris vir” fin dal IV secolo era intesa, come lo spiega bene A. M. Stickler, “ (nel) senso di un argo­mento biblico in favore del celibato d’ispirazione apostoli­ca: si interpretava infatti la norma paolina nel senso di una garanzia che permetteva di assicurare l’osservanza effettiva della continenza presso i ministri sposati prima della loro or­dinazione”[9]. Nella seconda parte faremo un passo in avan­ti: proporremo un approfondimento teologico della clausola paolina stessa, per mostrare che, già al livello del Nuovo Testamento, essa propone infatti, per il sacerdozio ministe­riale, il modello del rapporto sponsale tra Cristo‑Sposo e Chiesa‑Sposa, sulla base della mistica del matrimonio di cui Paolo parla più volte nelle sue lettere (cfr. 2Cor 11,2; Ef 5,22‑32)[10]; partendo da lì, apparirà abbastanza chiaro che, per i ministri sposati, la loro ordinazione implicava l’invito a vivere in seguito nella continenza.

La clausola “unius uxoris vir”: un argomento della tradizione antica per l’origine apostolica del celibato‑continenza

a) La legislazione ecclesiastica a partire dal IV secolo

C’è un accordo generale tra gli studiosi per dire che l’ob­bligo del celibato o almeno della continenza è diventato legge canonica fin dal IV secolo. Ripetutamente vengono citati qui diversi testi inconfutabili: tre decretali pontificie attorno al 385 (“ Decreta” e “ Cum in unum ” del papa Siricio, “Do­minus inter” di Siricio o di Damaso) e un canone del conci­lio di Cartagine del 390[11].

Ma è importante osservare che i legislatori del IV o V se­colo affermavano che questa disposizione canonica era fon­data su una tradizione apostolica. Diceva per esempio il con­cilio di Cartagine: conviene che quelli che sono al servizio dei divini sacramenti siano perfettamente continenti (conti­nentes esse in omnibus), “ affinché ciò che hanno insegnato gli apostoli e ha mantenuto l’antichità stessa, lo osserviamo anche noi”[12]. Fu poi votato all’unanimità il decreto stesso sull’obbligo della continenza: “Piace a tutti che il vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dall’unione coniugale con le loro spose (ab uxoribus se ab­stineant), affinché venga custodita la purezza perfetta di co­loro che servono all’altare”. Non viene esplicitamente citato qui l’“ unius uxoris vir ” paolino; ma il riferimento a quella clausola è implicito, perché vengono menzionati, come nelle Pastorali, i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Del resto, la cita­zione di 1Tm 3,2 è perfettamente esplicita in un testo un po’ anteriore, la decretale “Cum in unum” di Siricio stesso, che presentava le norme del concilio di Roma del 386; qui, il pa­pa formula prima una obiezione: l’espressione “unius uxo­ris vir” di 1Tm 3,2, dicevano alcuni, esprimerebbe per il ve­scovo proprio il diritto di usare del matrimonio dopo l’ordi­nazione sacra; Siricio risponde presentando la propria inter­pretazione della clausola: “Egli (Paolo) non ha parlato di un uomo che persisterebbe nel desiderio di generare (non per­manentem in desiderio generandi dixit); ha parlato in vista della continenza che avrebbero da osservare in futuro (prop­ter continentiam futuram)”. Questo testo fondamentale è stato ripetuto diverse volte in seguito[13]; viene commentato co­si da C. Cochini: “La monogamia, [ossia la legge dell'unius uxoris vir] è una condizione per accedere agli Ordini, per­ché la fedeltà [finora osservata] a una sola donna è la garan­zia per verificare che il candidato sarà capace [in futuro] di praticare la continenza perfetta che verrà chiesta da lui dopo l’ordinazione”[14]. E l’autore prosegue: “Questa esegesi del­le prescrizioni di san Paolo a Timoteo e a Tito è un anello essenziale col quale i vescovi del sinodo romano del 386 e il papa Siricio si situano in continuità con l’età “ apostolica”.

Ma questa esegesi, per la quale si rivendicava una tradi­zione apostolica, è veramente fondata? Non senza ragione alcuni lo mettono in dubbio[15]. Infatti si devono porre qui al­cune domande: non è un po’ strano scoprire nel comporta­mento passato del ministro sposato (cioè la sua fedeltà a una sola donna, anche nei rapporti sessuali) una sufficiente ga­ranzia per il suo comportamento futuro, ma diverso (ossia la continenza nelle relazioni coniugali con quella medesima donna, la sua legittima sposa?) I legislatori vedevano nel pas­sato una garanzia per il futuro, ma stavano operando allo stesso tempo un cambiamento di registro: dall’uso (legitti­mo) del matrimonio alla rinuncia a quello. Per legittimare quel doppio passaggio, dal passato al futuro e dai rapporti sessuali alla continenza coniugale, ci vuole un tertium quid che lo spieghi: una tale legittimazione sarà possibile soltanto se si presenta di questa formula stessa un’interpretazione che ne faccia vedere forse qualche aspetto nascosto che finora non si era visto. E’ ciò che cercheremo di fare nella seconda parte.


Ma vorremmo prima esaminare brevemente se non ci so­no, nella storia dell’esegesi e della legislazione canonica, de­gli elementi che aiutino a comprendere più profondamente la clausola paolina.

b) Motivazioni teologiche della continenza e del celibato dei sacerdoti


Dal tempo dei Padri fino a oggi ci troviamo confrontati con due interpretazioni diverse della formula paolina: per gli uni, la norma “unius uxoris vir” proibisce la poligamia suc­cessiva; per gli altri, soltanto la poligamia simultanea[16].

La prima soluzione è senz’altro la più tradizionale: l’espressione significa allora che i ministri sacri potevano, sì, essere uomini sposati. ma una volta soltanto; e se la moglie era mor­ta. Non potevano aver fatto un secondo matrimonio e non potevano risposarsi. Oggi ancora, questa interpretazione è la più comune tra gli esegeti cattolici. Secondo l’altra solu­zione, invece, “ unius uxoris vir ” significa soltanto l’interdi­zione di vivere contemporaneamente con diverse donne: sa­rebbe semplicemente la raccomandazione di osservare la mo­rale coniugale.

Ma nessuna delle due soluzioni è pienamente soddisfacen­te. Alla prima si obietta: se l’unione in cui viveva finora il ministro sposato era onesta, perché non avrebbe potuto es­serlo un secondo matrimonio, dopo la morte della consorte? E’ tanto più vero che l’Apostolo stesso da una parte richiede­va che la vedova anziana che serviva la comunità fosse stata “unius viri uxor” (1Tm 5,9), dall’altra consigliava alle gio­vani di risposarsi (1Tm 5,14).Ma l’altra soluzione fa ugual­mente difficoltà.: la fedeltà coniugale nella vita matrimonia­le è certamente richiesta da tutti i cristiani. Per quale motivo allora l’espressione “ unius uxoris vir ” (e analogamente “ unius viri uxor ”) viene usata unicamente per coloro che esercitano un ministero nella comunità?

Aggiungiamo che la seconda interpretazione non va oltre il semplice livello della morale generale: applicata ai ministri della Chiesa ha qualcosa di banale, di riduttivo. La prima ‑ l’interdizione di un secondo matrimonio ‑ è piuttosto di carattere disciplinare e canonico, ma non viene indicato il suo fondamento teologico. La stessa lacuna, del resto, si notava già per la legislazione canonica del secolo IV: papa Siricio e tanti altri dopo di lui leggevano nella clausola paolina l’ob­bligo alla continenza per il clero sposato. Davano, è vero, un argomento: la purezza richiesta per avvicinarsi all’altare. Ma bisogna riconoscere che di quello non si parla affatto nel testo delle Pastorali.


Alla fine della sua indagine storica, anche A. M. Stickler riconosceva che, in tutto questo problema del celibato sacer­dotale, si era rimasti troppo al livello giuridico[17]; in quella lunga storia é mancata la riflessione teologica sul senso pro­fondo del sacerdozio ministeriale, sulla motivazione del suo celibato e sul suo valore spirituale. Questo è particolarmente vero per l’uso canonico che si faceva della norma “ unius uxoris vir”, dal secolo IV in poi. Bisogna quindi cercare, nella tradizione patristica e canonica stessa, se venivano date tal­volta delle motivazioni teologiche, per fondare sulla clauso­la paolina l’obbligo disciplinare della continenza del clero.

Tre testimonianze sono qui significative.

In primo luogo quella di Tertulliano, all’inizio del III secolo. Egli ricorda che la monogamia non è solo una disciplina ecclesiastica, ma an­che un precetto dell’Apostolo[18]. Risale quindi al tempo apo­stolico. D’altra parte, insiste sul fatto che parecchi credenti, nella Chiesa, non sono sposati, vivono nella continenza, e che diversi di loro appartengono agli “ Ordini, ecclesiasti­ci ”[19]; ora, gli uomini e le donne che vivono così, prosegue Tertulliano, “ hanno preferito sposare Dio ” (Deo nubere ma­luerunt)[20]; a proposito delle vergini, egli precisa che sono “ spose di Cristo”[21]. Ma quale legame c’è tra il matrimonio monogamico da una parte e la continenza dall’altra? Tertul­liano non lo dice, ma porta qui l’esempio di Cristo che, se­condo la carne, non era sposato, viveva da celibe (non era quindi “un uomo di una sola donna”); però, nello spirito, “ aveva una sola sposa, la Chiesa ” (unam habens ecclesiam sponsam)[22]. Questa dottrina delle nozze spirituali di Cristo con la Chiesa, ispirata qui dal testo paolino di Ef 5,25‑32, era comune nel cristianesimo antico; Tertulliano vedeva in quelle nozze spirituali uno dei principali fondamenti teolo­gici della legge del matrimonio monogamico: “ perché uno è” il Cristo e una la sua Chiesa ” (unus enim Christus et una eius ecclesia)[23].Non risulta però che Tertulliano abbia già connesso questa dottrina con le formule “unius uxoris vir” o “unius viri uxor” delle Lettere Pastorali, dove si parla espli­citamente del matrimonio monogamico; è quella connessio­ne dei due temi che noi invece cercheremo di stabilire più avan­ti. Del resto, il ragionamento di Tertulliano, nell’ultimo te­sto citato, non era veramente fondato: il problema di Ef 5,25‑32 non era quello del matrimonio monogamico: era, in genere, il problema del rapporto di ogni matrimonio cristia­no con l’Alleanza; Paolo parla li di tutti gli sposi nella Chie­sa; quando l’Apostolo, con un riferimento a Gn 2,24, dice che l’uomo e la donna “ saranno una sola carne ” (v. 31), egli legittima per loro l’uso del matrimonio[24]; la formula “ unius uxoris vir ” delle Lettere Pastorali, invece, non viene usata per tutti gli sposi, ma unicamente per i ministri della Chiesa (questo fatto è stato troppo poco osservato); anzi, in seguito verrà considerata come la base biblica della legge della continenza per i chierici. Questo è il punto che rimane da chiarire.

Con sant’Agostino facciamo un passo avanti. Egli, che ave­va preso parte ai lavori dei sinodi africani, conosceva certa­mente la legge ecclesiastica della “continenza dei chierici”[25]. Ma come Agostino spiega allora la clausola “unius uxoris vir” che viene usata da Paolo per i chierici sposati? Nel De bono coniugali (verso il 420) egli ne propone una spiegazio­ne teologica, e si domanda perché la poligamia era accettata nell’Antico Testamento, mentre “nel nostro tempo, il sacra­mento è stato ridotto all’unione fra un solo uomo e una sola donna; e di conseguenza non è lecito ordinare ministro della Chiesa (Ecclesiae dispensatorem) se non un uomo che abbia avuto una sola moglie (unius uxoris virum)”; ed ecco la ri­sposta di Agostino: “Come le numerose mogli (plures uxo­res) degli antichi Padri simboleggiavano le nostre future chiese di tutte le genti soggette all’unico uomo Cristo (uni viro sub­ditas Christo), così la guida dei fedeli (noster antistes, il no­stro vescovo) che è l’uomo di una sola donna (unius uxoris­ vir) significa l’unità di tutte le genti soggette all’unico uomo Cristo (uni viro subditam. Christo)”[26]. In questo testo, do­ve troviamo la formula “unius uxoris vir” applicata al ve­scovo. Tutto l’accento cade sul fatto che lui, “l’uomo ”, nel­le relazioni con la sua “donna”, simboleggia il rapporto tra Cristo e la Chiesa. Un uso analogo dei termini uomo e don­na si trova in un passo del De continentia: “L’Apostolo ci invita a osservare per così dire tre coppie (copulas): Cristo e la Chiesa, il marito e la moglie, lo spirito e la carne”[27]. Il suggerimento fornitoci da questi testi per l’interpretazione del­la clausola “unius uxoris vir” applicata al ministro (sposa­to) del sacramento è che egli, come ministro, non rappresenta soltanto la seconda coppia (il marito e la moglie), ma an­che la prima: egli impersona ormai Cristo nel suo rapporto sponsale con la Chiesa. Abbiamo qui il fondamento della dot­trina che diventerà classica: “ Sacerdos alter Christus ”. Il sa­cerdote, come Cristo, è lo sposo della Chiesa.

Un’ultima parola ancora sulla legislazione canonica del Me­dioevo. Diverse volte, nei libri penitenziali, si dice che, per un chierico sposato, avere ancora, dopo l’ordinazione, dei rapporti coniugali con la propria moglie, rappresenterebbe un’infedeltà alla promessa fatta a Dio; anzi, sarebbe un adul­terium, perché, essendo quel ministro ormai sposo della Chie­sa, il suo rapporto con la propria sposa “appare come una violazione di un legame matrimoniale”[28]. Questa pesante ac­cusa a un uomo legittimamente sposato e onesto può soltan­to avere senso se si sottintende, come una cosa risaputa, che il ministro sacro, dal momento della sua ordinazione, vive ormai in un altro rapporto, anch’esso di tipo sponsale, quel­lo che unisce Cristo e la Chiesa, nel quale egli, il ministro, l’uomo (vir), rappresenta Cristo‑Sposo; con la propria spo­sa (uxor), quindi, “l’unione carnale deve (ormai) diventare spirituale”, come diceva san Leone Magno[29].

Con queste diverse premesse storiche e teologiche, abbia­mo raccolto abbastanza materiale per affrontare il proble­ma esegetico, cioè per fare un’analisi precisa della formula stessa “unius uxoris vir” delle Lettere Pastorali.

“Unius uxoris vir”: una formula di Alleanza

Abbiamo visto precedentemente che, delle due interpreta­zioni tradizionali della clausola, l’una (la più diffusa) era di tipo disciplinare, l’altra esclusivamente morale. Ma non ve­niva quasi mai indicato perché un ministro della Chiesa doveva essere “l’uomo di una sola donna”.Vorremmo mostrare adesso che la ragione di questa norma, il suo senso profondo e le sue implicazioni sono già presenti nel testo stesso, s si riesce ad analizzarlo bene. Bisogna anzitutto chiarire il problema della provenienza di questa formula misteriosa, il cui carattere fisso, tecnico, stereotipato, è innegabile. Diciamo lo subito: la clausola è in realtà una formula di Alleanza Questo diventa chiaro quando si tiene presente il parallelismo tra la formula delle Lettere Pastorali con il passo di 2Cor 11,2, dove Paolo presenta la Chiesa di Corinto come una donna, come una sposa, che egli ha presentato a Cristo come una vergine casta:

“Io sono geloso di voi della gelosia di Dio, perché vi ho fidanzati ad un solo uomo (uni viro), per presentarvi a Cristo come una vergine pura”.

Il contesto di questo brano è specialmente chiaro se connesso con 1Tm 5,9; la stessa formula “unus vir” viene usata per parlare dei rapporti sia della Chiesa, con Cristo, sia di quelli della vedova che ha avuto un solo uomo e che svolge un ministero nella comunità. In 2Cor 11,2, la sposa di Cri­sto e la Chiesa stessa.

Rileggiamo più attentamente il testo.

La gelosia di cui parla Paolo è una partecipazione alla “ge­losia ” di Dio per il suo popolo[30]: è lo zelo da cui è divorato l’Apostolo affinché i suoi cristiani rimangano fedeli all’Al­leanza fatta con Cristo, che è il loro vero e unico Sposo. Un altro dettaglio conferma questa lettura: la Chiesa‑Sposa vie­ne paradossalmente presentata a Cristo‑Sposo come “una ver­gine pura”; è un rimando alla Figlia di Síon, talvolta chia­mata dai profeti “vergine Sion”, “vergine Israele”[31], spe­cialmente quando viene invitata, dopo le infedeltà del passa­to, a essere di nuovo fedele all’Alleanza, al suo rapporto spon­sale con il suo unico Sposo.

L’altro passo decisivo del Nuovo Testamento è il testo classico di Ef 5,22‑33: l’uomo e la donna, uniti in matrimonio, sono l’immagine di Cristo e della Chiesa; ora il Cristo, lo Spo­so, ha offerto se stesso per la Chiesa, al fine di farsene una sposa gloriosa, santa e immacolata (cfr. vv. 26‑27).

Ma il fatto che l’espressione “ unius uxoris vir ” non venga usata qui nella lettera agli Efesini per tutti gli sposi cristiani, e sia riservata nelle Pastorali al ministro sposato, mostra che la formula fa direttamente riferimento al ministero sacerdo­tale e al rapporto Cristo‑Chiesa: il ministro deve essere co­me Cristo‑Sposo.

Sottolineiamo un’altra conseguenza importante del colle­gamento tra “unius uxoris vir” (o “unius viri uxor”) delle Pastorali con il passo di 2Cor 11,2: è il fatto che la Chiesa­-Sposa è chiamata “vergine pura”. L’amore sponsale tra il Cristo‑Sposo e la Chiesa‑Sposa rimane sempre un amore ver­ginale.

Per la Chiesa di Corinto (dove ovviamente la grande mag­gioranza dei cristiani era sposata), si trattava direttamente di ciò che Agostino chiama la virginitas fidei, la virginitas cordis, la fede incontaminata[32] , ben descritta anche da san Leone Magno: “ Discat Sponsa Verbi non alium virum nos­se quam Christum”[33]. Ma per i ministri sposati di cui par­lano le Lettere Pastorali, è normale che ‑ in quella visione mistica del loro ministero ‑ l’appello radicale alla virginitas cordis sia stato vissuto da loro anche come un appello alla virginitas carnis verso la propria moglie, ossia, quale appel­lo alla continenza, come è diventato chiaro nella Tradizio­ne, almeno dal secolo IV in poi. Non si tratta più, allora, di una prescrizione ecclesiastica, esteriore, bensì di una per­cezione interiore del fatto che l’ordinazione fa di lui, come ministro, un rappresentante di Cristo‑Sposo, in relazione con la Chiesa, Sposa e Vergine, e che non può quindi vivere con un’altra sposa.

Il rapporto decisivo dell’“ unius uxoris vir ” delle Pastora­li con la “vergine pura” di 2Cor 11, 2 è stato sottolineato anche molto bene da E. Tauzin: gli uomini che sono consacrati a Dio, dice, “devono rappresentare Cristo: ora, lui è soltanto lo Sposo di una sola Sposa, la Chiesa: “Virginem castam exhibere Christo””[34]. E applica poi questo principio alla parabola di Mt 25,1‑13, dove le dieci “vergini”, che sono (al plurale) le spose di Cristo, rappresentano in realtà la sua unic sposa: “Esteriormente, c’è molteplicità, interiormente l’unità. La migliore immagine esteriore dell’unità interiore non è forse la verginità? ”.

Questa argomentazione sacramentale e spirituali dell’“unius uxoris vir”, fondata sulla teologia dell’Alleanza, emerge nella Tradizione occidentale già con Tertulliano, poi con sant’Agostino e san Leone Magno. La troviamo ben compendiata da san Tommaso, nel suo commento di 1Tm 3,2 (“Oportet ergo episcopum… esse, unius uxoris virum”): “Questo si fa, non solo per evitare l’incontinenza, ma per rappresentare il sacramento, perché lo Sposo della Chiesa è Cristo, e la Chiesa è una: “Una est columba mea” (Cant 6,9)”[35]. Ma san Tommaso non fa ancora il confronto con il testo di 2Cor 11,2, che parla della Sposa‑Vergine; perciò non aggiunge che il valore di rappresentanza del sacerdozio monogamico comporta anche per il ministro sposato l’ap­pello alla continenza e, conseguentemente, per coloro che non sono sposati, l’appello al celibato.

Conclusione

Per comprendere bene il modo in cui abbiamo cercato di indicare il fondamento biblico del celibato sacerdotale, è im­portante distinguere celibato e continenza. Nella Chiesa antica molti sacerdoti erano sposati. Questo spiega il fatto che, proprio per parlare dei ministri della Chiesa, venisse usata la formula “unius uxoris vir”; spiega inoltre il grande inte­resse dei Padri per il matrimonio monogamico (cfr. per esem­pio Tertulliano: De monogamia). Ma è diventato sempre più chiaro nella Tradizione che per un ministro della Chiesa, unito una sola volta in matrimonio con una donna, l’accettazione del ministero portasse come conseguenza che egli in seguito avrebbe dovuto vivere nella continenza.

In tempi più recenti è stata introdotta la separazione tra sa­cerdozio e matrimonio. Pertanto la formula “ unius uxoris vir ”, intesa alla lettera e materialmente, non è più di applicazione immediata per i sacerdoti di oggi, i quali non sono sposati. Ma, proprio qui, paradossalmente, sta ancora l’interesse della for­mula. Bisogna partire dal fatto che, nella Chiesa apostolica, veniva usata solo per i chierici; prendeva cosi, oltre il senso im­mediato dei rapporti coniugali, un senso nuovo, mistico, un collegamento diretto con le nozze spirituali di Cristo e della Chiesa questo lo insinuava già Paolo; per lui, “unius uxo­ris vir” era una formula di Alleanza: introduceva il ministro sposato nella relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa; per Pao­lo, la Chiesa era una “vergine pura”, era la “Sposa” di Cristo. Ma questo collegamento tra il ministro e Cristo, essendo dovuto al sacramento dell’ordinazione, non richiede più og­gi, come supporto umano del simbolismo, un vero matrimo­nio del ministro; perciò la formula vale tuttora per i sacerdoti della Chiesa, benché non siano sposati; quindi, ciò che nel pas­sato era la continenza per i ministri sposati diventa nel nostro tempo il celibato di quelli che non lo sono. Però il senso sim­bolico e spirituale dell’espressione “ unius uxoris vir ” rimane sempre lo stesso. Anzi, poiché contiene un riferimento diret­to all’Alleanza, ossia al rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa, ci invita a dare oggi, molto più che nel passato, una grande im­portanza al fatto che il ministro della Chiesa rappresenta Cristo‑Sposo di fronte alla Chiesa‑Sposa. In questo senso, il sacerdote deve essere “l’uomo di una sola donna”; ma quel­l’unica donna, la sua sposa, è per lui la Chiesa che, come Maria la sposa di Cristo.

E’ proprio così che si esprime diverse volte Giovanni Pao­lo Il nella sua lettera post‑sinodale Pastores dabo vobis.


A mo’ di conclusione, ne citiamo alcuni passi più significativi.

Al n. 12, dopo aver ricordato che, per l’identità del presbitero, non è prioritario il riferimento alla Chiesa, bensì il riferimento a Cristo, il papa continua: “In quanto mistero infatti, la Chiesa è essenzialmente relativa a Gesù Cristo: Lui, infatti, è la pienezza, il corpo, la sposa ( … ). Il presbitero trova la verità piena della sua identità nell’essere una derivazione, una partecipazione specifica e una continuazione di Cristo stesso, sommo e unico sacerdote della nuova ed eter­na Alleanza: egli è un’immagine viva e trasparente di Cristo sacerdote. Il sacerdozio di Cristo, espressione della sua as­soluta “novità” nella storia della salvezza, costituisce la fonte unica e il paradigma insostituibile del sacerdozio del cristia­no e, in specie, del presbitero. Il riferimento a Cristo è allora la chiave assolutamente necessaria per la comprensione delle realtà sacerdotali”.

Sulla base di questa strettissima unità tra il presbitero e Cri­sto, si comprende meglio la ragione teologica profonda del celibato.


Il n. 22 è intitolato: “Testimone dell’amore sponsale di Cri­sto”. Più avanti: “Il sacerdote è chiamato a essere immagine viva di Gesù Cristo Sposo della Chiesa ”. Cita poi una pro­posizione del sinodo: “ In quanto ripresenta Cristo capo, pa­store e sposo della Chiesa, il sacerdote si pone non solo nella Chiesa ma anche di fronte alla Chiesa ”.

Al n. 29, proprio nel paragrafo dove parla della verginità e del celibato, il Santo Padre cita per intero la propositio 11 del sinodo su questo argomento; poi, per spiegare la “moti­vazione teologica della legge ecclesiastica sul celibato ”, scrive: “ La volontà della Chiesa trova la sua ultima motivazio­ne nel legame che il celibato ha con l’Ordinazione sacra, che configura il sacerdote e Gesù Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa, come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere ama­ta dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata ”.


[1] Ch.Cochini, Origines apostoliques du célibat sacerdtal (Le Sycomore), Cul­ture et vérité, Lethielleux/Namur, Paris 1981.Sul problema molto discusso oggi del celibato nella Chiesa, si può consultare un numero speciale della rivista Conci­lium: Le Célibat du Sacerdoce catholique, in Concilium 78 (1972).

[2] A. M. Stickler, in Origines apostoliques du célibat sacerdotal, op. ci. Préface, p. 6.

[3] H. Crouzel, Une nouvelle étude sur les origines du célibat ecclésiastique, in Bull. De Litt. Eccl., 83 (1982) 293-297

[4] Cfr. anche due studi di canonisti: P. Pampaloni, Continenza e celibato del clero. Leggi e motivi delle fonti canoniche dei secoli IV e V, in Studia Patavina 17 (1970) 5‑59; J. Coriden, Célibat. Droit canonique et Synode 1971, in Concilium 78 (1972) 101‑114.

[5] Cfr. il nostro articolo “ Mari d’une seule femme ”.Le sens théologique d’une formule paulinienne, in Paul de Tarse, ap&re du (lege: de) notre temps (a cura di L. De Lorenzi), Roma 1979, 619‑638. Nel presente studio parliamo solo della tra­dizione latina, poiché, come si sa, esiste un’altra disciplina nelle Chiese orientali.

[6] A. M. StickIer, L’évolution de la discipline du célibat dans l’Eglise en Occi­dent de la fin de l’age patristique au Concile de Trente, in Sacerdoce et célibat. Etudès historiques et théologiques (éd. J. Coppens), Gembloux‑Louvain 1971, pp. 373‑442.

[7] Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 5‑6.

[8] Cfr. il nostro studio Mari d’une seule femme, op. cit., p. 635, n. 64, dove mo­striamo che la formula “ unius uxoris vir ” (1 Tm 3,2) esprime la relazione sponsale dell’Alleanza tra Dio e il suo popolo, tra Cristo‑Sposo e la Chiesa‑Sposa; inoltre, la somiglianza della formula di lTm 3,2 con quella, vicina, di lTm 2,5: “ unus Deus, unus… homo Christus Iesus” permette di fare l’aggancio col tema profetico del­l’Alleanza, e di scoprire un legame con l’AT; cfr. specialmente Mal 2,14 (LXX): “ la donna della tua alleanza ”; 2, 10: “ l’alleanza dei nostri padri ”.
[9] A. M. Stickler, Préface, in Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 5‑6 (corsivo nostro).

[10] Cfr. il nostro articolo La struttura di alleanza del sacerdozio ministeriale, in Communio 112 (luglio‑ agosto 1990) 102‑114, dove riprendiamo sinteticamente i ri­sultati dello studio anteriore: Mari dune seule femme, op. cit., per farne poi una applicazione specifica sia al caso del celibato sacerdotale sia a quello del sacerdozio degli uomini (non delle donne).

[11] Per questa parte storica, si vedano i testi in Ch. Cochini, Origines apostoli­ques, op. cit., pp. 19‑26.


[12] Il testo (ripreso da CCL 149, 13) si trova nell’originale latino con una versio­ne francese in Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 25‑26.

[13] Per la decretale “ Cum in unum ” di papa Siricio, cfr. Ep. V, e. 9 (PL 13, 1161 A); si trova anche nel concilio africano di Telepte (418): Conc. Thelense (CCL 149,62): trad. francese: Cochiní, Origines apostoliques, op. cit., p. 32; si vedano inoltre le due lettere di papa Innocenzo 1 (404‑405) ai vescovi Vittricio di Rouen ed Esuperio di To­losa: Ep. I I, (PL 20, 476 A. 497 B; Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 284‑286). Sulla via tracciata dai papi si orientano così l’Africa, la Spagna e le Gallie.

[14] Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., p. 33 (il corsivo è nostro).

[15] Per P. Pampaloni, per esempio, (art. cit., 41‑42) si tratterebbe “ di una for­zatura nella lettura dell’Apostolo ”; egli concede però che, secondo le fonti dell’e­poca, quella interpretazione probabilmente era ritenuta valida: anche H. Crouzel (art. cit., 294) osserva giustamente: se fosse vero, come pensano questi Padri, che l’Apostolo vedeva nella “monogamia” una garanzia di idoneità alla continenza. allora si dovrebbe supporre che, per Paolo, era conosciuto “ che la sposa era morta oppure che il candidato doveva vivere con ella come con una sorella: ciò che di­sgraziatamente il testo paolino non precisa ”. Questo è vero. Ma il testo paolino contiene un contatto letterario con 2Cor 11,2 (cfr. infra), il che permette di ritrova­re indirettamente il tema della continenza che è un tema di Alleanza.

[16] Cfr i1 nostro articolo Mari d’une seule femme, art. cit.: “ I. Histoire de l’e­xégèse ” (pp. 620‑623); “ II. Insuffisance des deux interprétations en présence ” (pp. 624‑628).

[17] A. M. Stickler, L’évolution de la discipline du célibat, op. cit., pp. 441‑442.

[18] Cfr. Ad uxorem, 1,7,4 (CCL 1, 381); il rimando si fa qui a 1Trn 3,2.12; Tt 1,6; si veda anche De exhort. cast, 7,2 (CCL 2,1024).

[19] De exhort. cast, 13,4 (CCL 2, 1035): su questo passo si può vedere il com­mento di Ch. Cochini, Origines apostoliques, op. cit., pp. 168‑171.

[20] Ibid.,; cfr. Ad uxorem, 1,4,4, parlando delle donne che, invece di scegliere un marito hanno preferito una vita verginale: “ Malunt enim Deo nubere. Deo spe­ciosae, Deo sunt puellae ” (CCL 1, 377).

[21] De virg. vel., 16,4: “ Nupsisti enim Christo, illi tradidisti carnem tuam, illi sponsasti maturitatem tuam ” (CCL 2, 1225); De res., 61, 6: “ virgines Christi mari­tae” (CCL 2, 1010).

Dr. Gifford-Jones: le persone muoiono inutilmente di coronavirus. Fondamentale la vitamina C


Di coronavirus non dobbiamo soccombere, è importante produrre anche questo pensiero… ma certo è altrettanto utile scoprire e conoscere vie naturali per affrontare o prevenire questo virus, come proposte dal medico autore dell’articolo che di seguito traduco: il dr. Ken Walker Gifford-Jones. La sua biografia online ci dice che si è laureato alla Università di Toronto e alla Harvard Medical School. Poi ha fatto pratica di chirurgia allo Strong Memorial Hospital, University of Rochester, Montreal General Hospital, McGill University ed anche in Ginecologia ad Harvard. E’ anche stato medico del servizio nazionale, chirurgo sulle navi e medico di hotel.

Perché delle morti “inutili” a causa di questo virus minaccioso? Perché i medici, le autorità sanitarie, gli amministratori degli ospedali ed i politici, non hanno letto la storia. E nemmeno i Cinesi!

In questa settimana, a molti membri della Orthomolecular Medicine News Service (OMNS) è stato chiesto: “come trattereste il coronavirus?”


Nel seguire opinioni di esperti che studiano il potenziale degli integratori per combattere la malattia. Il dr. Andrew W. Saul, un esperto internazionale della terapia vitaminica, dice: “Il coronavirus può essere grandemente rallentato o completamente fermato con un diffuso ed immediato uso della vitamina C ad alte dosi. Livelli di vit C tollerati dall’intestino, suddivisi in dosi durante il giorno, sono l’antivirale senza eguali, clinicamente provato”.

Saul aggiunge: “Il dr. Robert F. Cathcart, che ha ampia esperienza nel trattare malattie virali, ha sottolineato: ’Non ho visto influenza che non sia stata curata o marcatamente migliorata, da forti dosi di vitamina”.

Il prof. Victor Marcial-Vega della Caribe School of Medicine risponde: “Dato il grado relativamente alto di successo della vit C somministrata per endovena nelle malattie virali e la mia osservazione sul miglioramento clinico entro 2 o 3 ore dal trattamento, credo fermamente che sarebbe la mia prima raccomandazione nella gestione del coronavirus”. Poi aggiunge: “Da 24 anni uso la vit C per endovena anche per trattare pazienti con influenza, la febbre di dengue e il chikungunya”.

Il dr. Jeffery Allyn Ruterbusch, Associate Professor al Central Michigan University, dice: “Credo che tutti noi siamo d’accordo sugli ampi benefici della vitamina C, quando le persone sono poste in condizioni molto stressanti”

Il dr. Damien Downing, ex redattore del Journal of Nutritional and Environmental Medicine, scrive: “L’influenza suina, l’aviaria, la SARS, si sono tutte sviluppate in Cina, carente di selenio. Quando ai pazienti abbiamo dato selenio, sono diminuiti i tassi di mutazione virale e l’immunità è migliorata”

Molte altre autorità si sono trovate concordi sul fatto che alte dosi di vitamina C insieme alla vit D 3000 IU e 20 mg di zinco, erano una buona combinazione per aiutare a combattere le malattie virali.

E la dr.sa Carolyn Dean e il dr Thomas Levy, entrambi autorità mondiali sul magnesio, hanno sottolineato che il minerale è coinvolto in 1000 reazioni metaboliche e che mantenere adeguati livelli, migliora l’immunità. Un’altra opinione prevalente è stata che poche persone sanno che alte dosi di vit C aumentano l’immunità e distruggono malattie virali.

Questa informazione non è nuova. Durante la grande epidemia della polio del 1949-1950, il dr Frederick R. Klenner, un medico di famiglia nel North Carolina, trattò 60 pazienti di polio con alte dosi di vit C, per endovena. Nessuno di loro sviluppò paralisi. Questa scoperta avrebbe dovuto creare titoli sui giornali in tutto il mondo, ma le notizie del dr Klenner finirono su sordi.

Successivamente, Klenner dimostrò che alte dosi di vit C potevano essere efficaci anche come trattamenti per meningite, polmonite, morbillo, epatite ed altre malattie virali e batteriche. Persino il morso di un serpente a sonagli. Ma di nuovo solo derisione da parte della classe medica.

Che significa questo in America del Nord? Ai pazienti con una diagnosi di coronavirus dovrebbe essere somministrata vit C per endovena e questo salverà le loro vite. Il problema è che la maggior parte dei medici ancora si rifiuta di credere che la vit C sia efficace.

Non sono il vostro medico. Ma i miei amici e famigliari sanno come far visita in una erboristeria o negozio che vende integratori, per fare la scorta di Medi C Plus, una forma in polvere di vit C che io ho sviluppato, che consente di assumere alte dosi facilmente e che contiene la lisina necessaria e il magnesio.

Anche le pasticche di vit C funzionano, ma bisogna ingoiarne molte. Cominciate con il prendere 2 gr (2000 mg) 2 volte al giorno, per costruire immunità. Se poi si sviluppano sintomi di influenza, prendere 2 gr ogni ora fino a che l’intestino la tollera e cercate il vostro medico.


Grandi dosi di vit C possono creare diarrea. Ma meglio stare seduti sul water che dentro una bara.


Fonte: 



«Il coronavirus è un’arma biologica» dice il professore americano del Bioweapon Act


In un’intervista esplosiva, il Dr. Francis Boyle, che ha redatto il Biological Weapons Act, ha rilasciato una dichiarazione dettagliata ammettendo che il Wuhan Coronavirus del 2019 è un’arma offensiva di guerra biologica e che l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) già lo sa.

Francis Boyle è professore di diritto internazionale presso il College of Law dell’Università dell’Illinois. È noto soprattutto per aver redatto la legislazione nazionale di attuazione degli Stati Uniti per la Convenzione sulle armi biologiche, nota come Legge sull’antiterrorismo per le armi biologiche del 1989 (Bioweapon Act), che è stata approvata all’unanimità da entrambe le Camere del Congresso degli Stati Uniti e firmata in legge dal Presidente George H.W. Bush.

In un‘intervista esclusiva rilasciata a Geopolitics and Empire, il Dr. Boyle discute dell’epidemia di coronavirus a Wuhana e del laboratorio di livello 4 di sicurezza biologica (BSL-4) da cui crede che la malattia infettiva sia fuggita. Egli ritiene che il virus sia potenzialmente letale e sia un’arma di guerra biologica offensiva o un agente di armi biologiche a doppio uso geneticamente modificato per ottenere un guadagno di proprietà funzionali, motivo per cui il governo cinese originariamente ha cercato di coprirlo e ora sta adottando misure drastiche per contenerlo.


Il laboratorio Wuhan BSL-4 è anche un laboratorio di ricerca dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) appositamente progettato e il Dr. Boyle sostiene che l’OMS sappia perfettamente cosa sta succedendo.
La posizione del Dr. Boyle è in netto contrasto con la narrativa dei media mainstream sul virus originato dal mercato del pesce, che viene sempre più messo in discussione da molti esperti, riporta il sito GreatGameIndia.


Di recente, il senatore americano Tom Cotton (Arkansas) ha pure lui smantellato la narrativa dei media mainstream secondo cui lo scoppio del coronavirus è avvenuto su un mercato che vende animali morti e vivi. In un video che accompagna il suo post, Cotton ha spiegato che il mercato di Wuhan è stato dimostrato dagli esperti non essere la fonte del contagio mortale.


Cotton ha fatto riferimento a uno studio di Lancet che ha dimostrato che molti dei primi casi del nuovo coronavirus, incluso il paziente zero, non avevano alcun legame con il mercato animale, minando in modo devastante le affermazioni dei media mainstream.


«Come ha detto un epidemiologo: “Quel virus è entrato nel mercato dei frutti di mare prima che uscisse dal mercato dei frutti di mare” (…) Non sappiamo ancora da dove provenga», ha detto Cotton.


«Vorrei notare che Wuhan ha anche l’unico super laboratorio cinese di bio-sicurezza livello 4 che lavora con i patogeni più mortali del mondo per includere, sì, il coronavirus».
Tali preoccupazioni sono state sollevate anche da J.R. Nyquist, il noto autore dei libri Origins of the Fourth World War e The Fool and His Enemy, nonché coautore di The New Tactics of Global War. Nel suo approfondito articolo ha pubblicato discorsi segreti dati ai quadri di alto livello del Partito Comunista dal Ministro della Difesa cinese Chi Haotian, spiegando un piano a lungo termine per garantire un rinascimento nazionale cinese, il catalizzatore del quale sarebbe il piano segreto della Cina per armare i virus.
«Dobbiamo indagare sull’epidemia di Wuhan. I cinesi devono garantire al mondo totale trasparenza. La verità deve venire fuori. Se i funzionari cinesi sono innocenti, non hanno nulla da nascondere. Se sono colpevoli, si rifiuteranno di collaborare» dice Nyquist.

«La vera preoccupazione qui è se il resto del mondo ha il coraggio di chiedere un’indagine reale e approfondita. Dobbiamo essere impavidi in questa domanda e non permettere agli “interessi economici” di giocare un timido e disonesto gioco di diniego. Abbiamo bisogno di un’indagine onesta. Ne abbiamo bisogno adesso».


http://www.renovatio21.com/il-coronavirus-e-unarma-biologica-dice-il-professore-americano-del-bioweapon-act/?fbclid=IwAR0sBPFoiSvgMbz9TqaV_gyNDV2aRNWY7-xKeJ5U-XEhvOTVadK0b_IbgAM

I bambini geneticamente modificati dallo scienziato cinese He Jankui sarebbero tre

QUEGLI ESPERIMENTI ABERRANTI CHE IL GOVERNO CINESE INCORAGGIA E FINANZIA....

Nel momento della condanna a tre anni di carcere dello scienziato He Jiankui è emerso che oltre alle due gemelline geneticamente modificate nate nel 2018, lo scorso anno è nato un terzo bambino con Crispr.


Sono tre i bambini nati in Cina con la tecnica di editing genetico Crispr. Dopo le due gemelline venute alla luce nel 2018, a rendere ufficiale la nascita di un terzo bambino, probabilmente nato tra giugno e luglio scorsi, è stata l’agenzia di stampa statale cinese Xinhua. L’agenzia, infatti, ha confermato che He Jiankui, il ricercatore responsabile dell’esperimento nel quale sono stati creati i primi neonati geneticamente modificati per resistere all’hiv, è stato condannato a tre anni di carcere con l’accusa di aver condotto pratiche mediche illegali tramite esperimenti “in cui sono nati tre bambini geneticamente modificati”. Finora, tuttavia, non sono state riportate altre informazioni sul terzo bambino.

Ma ripercorriamo la vicenda. Lo scienziato della Southern University of Science and Technology di Shenzhen (Cina) He Jiankui, appena condannato a tre anni di carcere e che dovrà pagare una multa di 3 milioni di yuan (circa 385mila euro), aveva annunciato a novembre 2018 di aver condotto un esperimento nel quale era riuscito a far nascere una coppia di gemelle cinesi (Lulu e Nana) geneticamente modificate con Crispr/Cas9, in modo tale da renderle immuni dall’infezione da hiv. Grazie alla disattivazione di un gene, il Ccr5, che codifica per una proteina di membrana che si ritiene costituisca la porta di accesso dell’hiv alle cellule. In altre parole, quindi, se viene disattivato questo specifico gene, l’infezione non dovrebbe aver luogo.

Tuttavia, durante l’annuncio della nascita delle due gemelline che sconvolse il mondo intero, He si era lasciato sfuggire che anche un’altra donna era incinta di un embrione geneticamente modificato. A gennaio scorso, infatti, il bioeticista dell’Università di Stanford William Hurlbut aveva riferito all’agenzia di stampa Agence France-Presse di aver parlato a lungo con lo scienziato cinese di questo terzo bambino e che a quel tempo la donna era probabilmente incinta da circa 12/14 settimane e che quindi avrebbe dovuto partorire tra giugno e luglio 2019.

A luglio scorso, tuttavia, non è stata diffusa alcuna notizia della nascita del bambino geneticamente modificato. Ma ora, nel momento in cui è giunta la condanna per He Jiankui, la Cina ne conferma la nascita, riferendo che lo scienziato è stato condannato per i suoi esperimenti “in cui sono nati tre bambini geneticamente modificati”, come riporta Xinhua. Il rapporto, tuttavia, non include ulteriori informazioni sul bambino. Non sappiamo niente del suo sesso, dello stato di salute, se la nascita abbia comportato complicazioni, o se, addirittura, il bambino sia ancora ancora vivo. Finora sappiamo solamente che questo bambino è nato lo scorso anno, facendo quindi salire il numero di esseri umani geneticamente modificati da due a tre.

Chernobyl: nel reattore nucleare cresce un fungo che resiste alle radiazioni e sembra "nutrirsi" di esse

DALLA NATURA IL RIMEDIO PER RIPULIRE IL PIANETA DAI RIFIUTI TOSSICI E RADIOATTIVI?.... 

Nel lontano 1991, quando erano trascorsi solo pochi anni dal disastro nucleare di Chernobyl (1986), il più famoso della storia, i ricercatori rimasero piuttosto colpiti nel trovare un organismo vivente che sembrava proliferare sulle pareti del reattore. Si trattava di un fungo scuro – il Cryptococcus neoformans – che appariva totalmente a suo agio un ambiente estremo, caratterizzato da livelli altissimi di radiazioni.

Da quel momento sono trascorsi alcuni decenni durante i quali i ricercatori hanno svolto numerose rilevazioni e ricerche, grazie alle quali si è arrivati ad una conclusione interessante: non solo il fungo sopravvive in ambienti radioattivi, ma sembra essere addirittura attratto da essi.


Le ricerche su questo organismo vivente hanno rilevato una massiccia presenza di melanina, il pigmento che si trova anche nella pelle umana. Come molti di noi sanno, questo pigmento riesce ad assorbire la luce dissipando le radiazioni ultraviolette che colpiscono la pelle, proteggendola dai raggi del Sole. Nel caso del fungo, oltre alla funzione di protezione, sembra esserci anche una funzione nutritiva: esso sembra prendere dalle radiazioni anche una qualche forma di energia chimica utile alla sua crescita.


La conclusione ha fin da subito destato molto scalpore, perché si presterebbe a molti campi di ricerca diversi. Studiando i meccanismi di difesa e di crescita del fungo si potrebbero creare tecnologie in grado di proteggere uomini e animali in maniera efficace negli ambienti altamente radioattivi; oppure, se si "coltivasse" nello spazio, il fungo potrebbe diventare una fonte extra di energia durante le missioni; e sempre in tema di energia, potrebbe aiutarci ad aprire nuove frontiere per il nucleare, aumentando la sicurezza delle centrali e permettendoci di ridurre ulteriormente la dipendenza dal fossile.


Inoltre, il fungo dimostrerebbe anche che possono esistere organismi che sopravvivono in ambienti ad altissima concentrazione di radiazioni, aprendo nuovi scenari nella ricerca di forme di vita extraterresti.
Source:


Coronavirus, non solo Li Wenliang: altri cinque medici arrestati in Cina



Li Wenliang, l’oftalmologo di Wuhan tra i primi a parlare dell’epidemia di coronavirus in Cina, è morto nella notte. La sua storia ha fatto il giro del mondo perché ha messo a nudo l’inadeguatezza e l’ideologia del Partito comunista, che l’ha costretto a ritrattare la notizia, comunicata ai colleghi, su una strana polmonite «simile alla Sars». Li Wenliang ha poi contratto il virus e nella notte è morto, lasciando sola la moglie incinta.

XI LANCIA LA «GUERRA DEL POPOLO»

La storia di Li ha scatenato la rabbia dei cinesi contro il governo. Centinaia di utenti si sono riversati sui social media per denunciare il governo, che per bocca di Xi Jinping ha appena lanciato la «guerra del popolo» contro il coronavirus. Li Wenliang è morto perché il regime credeva, mantenendo segreta la notizia sull’epidemia, di poter preservare se stesso e la propria immagine. Ha clamorosamente sbagliato. Ma un governo che mette al primo posto, nella scala della priorità, la stabilità invece che il benessere della popolazione, non poteva che agire in questo modo. E infatti il caso di Li non è isolato.

ALTRI CINQUE MEDICI ARRESTATI

Come riportato oggi da ifeng.com, costola del network cinese Phoenix tv, a Wenshan, città di 450 mila abitanti a 1.700 km da Wuhan, nello Yunnan, sono stati arrestati cinque medici per aver «diffuso informazioni sull’epidemia». L’ufficio di pubblica sicurezza di Wenshan ha condannato i cinque dottori a 10 giorni di detenzione e a pagare una multa da 500 yuan. La loro colpa è di aver causato un «cattivo impatto sociale».

La notizia conferma che nonostante il mea culpa per «l’inadeguatezza e le mancanze» fatto dal Comitato permanente del Politburo, in Cina non è cambiato niente. Nonostante la Corte suprema abbia criticato la polizia per aver messo a tacere «le voci» sull’epidemia, tutto continua come prima. Il governo non ha imparato nulla dal caso di Li Wenliang e continua ad avere più a cuore la propria immagine, gravemente compromessa agli occhi di tutto il mondo, che la salute del popolo che ha appena chiamato alle armi contro il virus. Salvo arrestarli appena le utilizzano.

WUHAN: CHI PARLA RISCHIA GROSSO

WUHAN: CHI PARLA SCOMPARE (Giornalisti desaparecidos)

Scomparso dal 6 Febbraio scorso, il blogger denunciava un “disastro sanitario”. Le autorità cinesi affermano che è stato “messo in quarantena” per aver trascorso troppo tempo negli ospedali di Wuhan.

“Davanti a me c’è il virus. Dietro di me c’è il potere legale e amministrativo della Cina”. In uno dei suoi ultimi video diffusi in rete Chen Qiushi lanciava l’anatema dopo aver visitato quasi tutti i punti caldi di quello che denunciava essere un “disastro sanitario”: ospedali, supermercati, pompe funebri, famiglie delle vittime, taxi di volontari. Infaticabile, il blogger si aggirava per la città, con smartphone e stabilizzatore in mano, per documentare tutto quello che accadeva nella Wuhan colpita dall’epidemia. “Mancano le maschere – raccontava – gli indumenti protettivi, le attrezzature e, soprattutto, i kit diagnostici. Senza questi kit, non c’è modo di controllare che tu abbia il virus, puoi solo metterti in quarantena a casa”. Nel suo ultimo video Chen Qiuschi, visibilmente provato, appariva con vistose occhiaie”. “Ho paura”, diceva. 

Di chi, di cosa?

Dal 6 febbraio, Chen Qiushi è scomparso. I parenti, che hanno accesso al suo account Twitter, hanno pubblicato un video di sua madre che chiede aiuto. “Stasera, Qiushi ha detto che andava in un ospedale da campo. Dalle 19.00 alle 20.00. Da allora non risponde più. Vi chiedo di aiutarci a trovarlo, grazie”. Dopo l’appello su Twitter, le autorità cinesi si sono messe immediatamente in contatto con la madre di Chen Qiushi spiegandole che il blogger è stato “messo in quarantena”, presumibilmente perché aveva trascorso troppo tempo in ospedale. Questa la motivazione ufficiale, ma amici e colleghi sospettano si tratti di una vera e propria detenzione in isolamento per porre fine alle sue video-inchieste. Allo stato attuale, afferma il suo entourage, Chen Qiusci è sprovvisto infatti di qualsiasi mezzo per comunicare con l’esterno ed è completamente isolato. Genitori ed amici di Chen Qiushi si sono detti essere “preoccupati ed ansiosi per la sorte di Chen”.

L’avvocato, diventato un famoso giornalista freelance, aveva già confessato alla famiglia di aver subito pressioni da parte della polizia da quando aveva iniziato a pubblicare le sue video-inchieste sull’emergenza sanitaria a Wuhan. Dopo la pubblicazione del suo primo video su WeChat, il più importante social network cinese, il suo account è stato sospeso per oltre un mese. Per rappresaglia le autorità hanno cominciato a sospendere anche gli account di tutti coloro che menzionano il suo nome o che condividono i suoi video su WeChat o Weibo, il Twitter cinese. Ma non c’è solo Chen Qiusci. Le autorità locali hanno agitato lo spauracchio della quarantena a diversi giornalisti stranieri, un vero e proprio strumento di censura più che una misura di prevenzione sanitaria dal momento che è stata data loro la possibilità di scegliere se restare in quarantena, dove stavano indagando, o ritornarsene a Pechino o a Shanghai con il primo aereo.


Piccola considerazione finale....

Quello che succede in Cina lo sappiamo bene: la censura dell'informazione è più virale del coronavirus. La libertà di opinione e di stampa vengono fortemente represse. La dittatura comunista censura chiunque tenti di dire la verità a proposito del coronavirus e, nel peggiore dei casi, uccide i trasgressori.
Tuttavia, nel resto del mondo, i giganti del web chiudono canali e account di chiunque non si dimostri prono al pensiero unico dominante. Alcuni canali italiani, tra cui "Informal TV" che ha pubblicato il video sopra dei giornalisti scomparsi, subisce la stessa censura già da un po', e non è l'unico. Allora, siamo ancora convinti che i metodi comunisti siano solo un problema cinese?



lunedì 17 febbraio 2020

Coronavirus e “selezione” degli individui: scienza o arroganza?



Il Coronavirus, il progetto neo eugenetico e sovrappopolazione mondiale



Chi ha stabilito, poi, che la sola probabilità (così come la certezza) di contrarre una malattia in età adulta sia un buon motivo per essere “scartati” dall’avventura della vita? Forse i “sani” hanno più diritti umani dei “difettosi”? E chi avrebbe il diritto di stabilire quale debba essere l’altezza considerata accettabile per un soggetto, oppure il grado di intelligenza che lo abilita alla prosecuzione della sua crescita? E con quali criteri di misura si dovrebbe effettuare questa valutazione? Nient’altro che riferimenti convenzionali, stabiliti da “chi ha voce in capitolo” (specifici ruoli? alte cariche? maggioranza?), che ricadono lesivamente sulla dignità e la vita stessa di altri soggetti inermi ed incapaci di reazione. Vogliamo davvero migliorare la specie umana?


“Genomic prediction”, è il nome di una start-up statunitense che si occupa di… “eugenetica 2.0”!
Beh, conoscevamo già il significato del termine “eugenetica”, con riferimento alla disciplina sorta verso fine Ottocento, avente come obiettivo (in prospettiva futura) il miglioramento della specie umana, da ottenere sulla base di considerazioni genetiche e con l’applicazione degli stessi metodi di selezione usati per animali e piante.
Adesso (anche se, in verità, aveva iniziato già da un paio d’anni), la Genomic prediction ne promuove una sorta di “upgrade”, tecnicamente più spinto e ambizioso, una versione “2.0” per l’appunto. D’accordo, ma per fare cosa? Con quali obiettivi concreti?
Stando a quanto riportato qualche giorno fa dalla rivista MIT Technology Review (edita dal Massachusetts Institute of Technology di Cambridge, negli Usa), la Genomic Prediction ha iniziato a diffondere sul mercato un nuovo test genetico, messo a punto nei suoi laboratori, che permetterebbe di individuare e selezionare fra diversi embrioni (ovviamente formati con tecniche di fecondazione in vitro) quello a minor rischio di alcune malattie; il test, inoltre, darebbe anche indicazioni sul grado d’intelligenza e sull’altezza probabilmente raggiungibili dal nuovo soggetto in età adulta.

In concreto, il test analizza il Dna dell’embrione confrontandolo con quello dei genitori, per generare un “punteggio” che indica la probabilità di contrarre 11 malattie (dal diabete ad alcuni tipi di tumore all’ipercolesterolemia).

Inoltre, esso sarebbe in grado di offrire una valutazione dell’altezza e del quoziente intellettivo probabili; dati che però vengono segnalati alle famiglie solo qualora l’embrione risultasse inferiore al secondo percentile, ovvero risultasse teoricamente così basso o poco intelligente da configurare una condizione patologica. Attualmente, questo tipo di analisi genetica può essere effettuata soltanto in 12 cliniche nel mondo (di cui 6 negli Usa). Non è invece permessa in Italia, dove la legge 40/2004 consente la diagnosi pre-impianto soltanto in presenza di malattie genetiche dei genitori.
A prescindere però dalla normativa vigente nei vari Paesi, la descrizione delle procedure di questo test e la loro finalità non lascia molti dubbi: più che di eugenetica, senza infingimenti, qui bisogna parlare di “eugenismo”! Ovvero di quella interpretazione estrema e strumentale dell’eugenetica, che non teme di assoggettare il singolo essere umano – sottoponendolo a valutazioni e misurazioni arbitrarie – ad un ipotetico “bene” della specie umana nel suo complesso. In parole più semplici, siamo di fronte ad un approccio di fatto orientato verso una vera e propria “selezione” degli individui (in questo caso, embrioni prodotti in vitro), alla luce di un pregiudizio aberrante: chi è ritenuto “biologicamente difettoso” o anche soltanto rischia di esserlo… non è degno di continuare a vivere e deve cedere il passo agli individui “sani”. Persino se il presunto “difetto” riguardasse caratteristiche secondarie, come una bassa statura o un’intelligenza ritenuta poco brillante. Insomma, sembra proprio che gli scenari fantascientifici già preconizzati nel film “Gattaca, la porta dell’universo” (1997) siano adesso divenuti realtà!

Ora, a prescindere dal fatto che buona parte della comunità scientifica ha già espresso seri e fondati dubbi sulla reale capacità del test di produrre informazioni affidabili, dal punto di vista etico siamo di fronte ad un vero e proprio atto di arroganza e di spregiudicata discriminazione, che attenta alla vita personale e, per di più, perpetrato su soggetti (embrioni) incapaci di esprimere qualunque volontà o opposizione.

E chi ha stabilito, poi, che la sola probabilità (così come la certezza) di contrarre una malattia in età adulta sia un buon motivo per essere “scartati” dall’avventura della vita? Forse i “sani” hanno più diritti umani dei “difettosi”? E chi avrebbe il diritto di stabilire quale debba essere l’altezza considerata accettabile per un soggetto, oppure il grado di intelligenza che lo abilita alla prosecuzione della sua crescita? E con quali criteri di misura si dovrebbe effettuare questa valutazione? Nient’altro che riferimenti convenzionali, stabiliti da “chi ha voce in capitolo” (specifici ruoli? alte cariche? maggioranza?), che ricadono lesivamente sulla dignità e la vita stessa di altri soggetti inermi ed incapaci di reazione. Vogliamo davvero migliorare la specie umana? Forse dovremmo allora cominciare col rispettare, fin dal suo inizio vitale, ogni singola persona e la sua dignità, a prescindere dalle sue condizioni di salute o dalle sue caratteristiche bio-psichiche. E la scienza autentica dovrebbe continuare nel suo meritorio sforzo per contrastare ogni condizione patologica che provoca sofferenza negli esseri umani. Altro che “eugenetica 2.0”!

L'eugenetica o eugenica è lo strumento della progenie del serpente (elite massonica/Illuminati) per decimare la stirpe messianica? 

(Per approfondire consiglio questa interessante lettura: "Il segreto della Genesi: la stirpe messianica e la stirpe del serpente" che trovate qui: http://www.lulu.com/spotlight/cinziapalmacciautrice123).   


Che cos'è l'Eugenica o Eugenetica?

(XIV, p. 560)

Termine introdotto da F. Galton (1822-1911) nel 1883 nel libro Inquiries into the human faculty, per indicare il programma di miglioramento della specie umana attraverso matrimoni selettivi. Per Galton "i processi dell'evoluzione sono in attività costante e spontanea, alcuni sono negativi, altri positivi. Il nostro ruolo è di fare attenzione alle opportunità di intervenire per controllare i primi e dare libero gioco ai secondi" (1892).

Rimasta a lungo una curiosità accademica, l'eugenetica prese grande vigore nei primi anni del 20° secolo, dopo la nascita della genetica con la riscoperta delle leggi di Mendel. Queste sembravano offrire la possibilità di isolare singoli fattori (''caratteri unitari''), con note leggi di trasmissione che potevano essere comprese e quindi controllate.

Nella prima metà del 20° secolo, gli obiettivi eugenici si fusero con riduttive e schematiche interpretazioni della genetica, producendo misure restrittive di stampo razzista, sino alle misure sociali crudelmente oppressive del regime nazista. Questo portò praticamente all'abbandono del programma eugenico. Negli ultimi decenni il discorso, anche se non il termine stesso, ha ripreso vigore, nei dibattiti sulle basi genetiche dell'intelligenza, sulla sociobiologia, su alcune applicazioni pratiche dell'ingegneria genetica, e soprattutto nell'ambito delle iniziative (consultori genetici) per diminuire la morbilità causata da fattori ereditari.

Sviluppo storico − L'eugenetica era nata in stretto legame con la pratica e se ne era subito cominciata a intravedere una possibile applicazione al miglioramento delle specie vegetali e animali. Le osservazioni sulla determinazione genetica di alcune malattie metaboliche e quelle sull'ereditarietà mendeliana dei gruppi sanguigni A-B-O, oltre a generalizzare anche all'uomo le leggi mendeliane, facevano supporre di poter intervenire sul patrimonio ereditario della specie umana (data la conoscenza dettagliata delle leggi che la regolano) per poter costruire popolazioni umane ''migliori'', diminuendo la frequenza dei caratteri considerati negativi e aumentando quella dei caratteri positivi.

Nel 1904 la Carnegie Institution of Washington costruì a Cold Spring Harbor una stazione per lo studio sperimentale dell'evoluzione affidandone la direzione a Ch. B. Davenport (1866-1944). Il metodo di lavoro consisteva nel raccogliere vasti alberi genealogici (family record).

L'idea di base era di rintracciare singoli alleli mendeliani alla base di molte anormalità e malattie, ma anche di caratteristiche mentali e comportamentali, come l'alcolismo, l'epilessia, la criminalità e, soprattutto, la feeblemindedness, un termine che indicava un largo spettro di stati di deficienza mentale. Successivamente, nel 1910, lo stesso Davenport riuscì a far finanziare la costruzione, sempre a Cold Spring Harbor, di un laboratorio esplicitamente dedicato a ricerche di e., l'Eugenics Record Office, di cui fu egualmente direttore con la stretta collaborazione di H. H. Laughlin, che sarebbe diventato uno dei più accesi sostenitori del nuovo programma di ''controllo razziale''.

Con l'introduzione in Francia (1912) dei test sul quoziente d'intelligenza (QI) gli eugenisti ritennero di avere uno strumento quantitativo e affidabile per individuare le persone intellettualmente superiori. L'attribuzione di tale quoziente a un singolo gene mendeliano sembrava dare la possibilità d'intervenire per migliorare l'intelligenza della popolazione nel suo complesso.

Il movimento eugenetico si espanse notevolmente fra il 1910 e il 1940, soprattutto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Germania. Molti scienziati di grande valore, direttamente o indirettamente, vi aderirono e lo sostennero, almeno per un certo periodo; fra questi, con differenti impostazioni, W. E. Castle, T. H. Morgan, H. J. Muller ed E. G. Conklin. Il movimento eugenetico tenne tre congressi internazionali, il primo a Londra nel 1912, il secondo e il terzo a New York nel 1921 e nel 1932. I programmi eugenetici erano di due tipi diversi, chiamati rispettivamente e. negativa e positiva. La prima intendeva limitare e addirittura proibire i matrimoni che avrebbero potuto portare a individui con caratteri genetici non desiderabili. L'e. positiva tendeva invece a far aumentare nella popolazione la frequenza dei geni considerati positivi, favorendo il matrimonio fra individui portatori di geni ''validi''.

Con una non chiara distinzione fra specie e razze biologiche, in questo primo periodo s'insisté particolarmente sui pericoli che sarebbero potuti derivare dal mescolamento delle razze. Come scrisse Castle in un libro divulgativo che ebbe notevole successo, Genetics and eugenics (1916), "una particolare combinazione di qualità rende utile un cavallo da corsa e una differente combinazione rende utile un cavallo da tiro... l'incrocio fra i due non produrrà né un tipo né l'altro... per questa ragione, ampi incroci razziali nell'uomo sembrano nel complesso non desiderabili". Il mescolamento delle razze era considerato altrettanto negativo della perdita della purezza delle linee ottenute da allevatori e coltivatori; permettere alla gente ''inferiore'' d'incrociarsi con la gente ''superiore'' era considerato un ''suicidio razziale'', in quanto avrebbe portato a un deterioramento genetico della razza.

Molti dei problemi sociali, come la povertà o il disadattamento, erano considerati il risultato di deficienze genetiche; per eliminarli occorreva quindi impedire la procreazione a quanti non fossero sufficientemente integrati nella società. La genetica sembrava così fornire una base scientifica a dei valori sociali e a una struttura economica preesistente e, com'era accaduto per il socialdarwinismo alla fine dell'Ottocento, la scienza sembrava fornire giustificazioni biologiche alle diseguaglianze sociali.

Soprattutto per l'azione di H. Laughlin, gli eugenisti svolsero un ruolo decisivo nell'approvazione del Johnson Act del 1924, che limitava fortemente l'immigrazione. Anche più vasta fu la campagna portata avanti dagli eugenetisti a favore di leggi per la sterilizzazione forzata delle persone considerate socialmente indesiderabili, gli internati nei manicomi, i colpevoli di reati sessuali, gli epilettici, le persone con basso QI e le persone ''moralmente degenerate''. Nel 1935 ben 26 stati negli USA avevano approvato una legge di questo tipo e sulla base di queste leggi furono sterilizzate 20.000 persone, di cui 12.000 nella sola California. Queste misure erano largamente condivise dall'opinione pubblica: un'indagine demoscopica del 1937 rivelò che il 63% della popolazione statunitense era a favore della sterilizzazione dei criminali abituali e il 66% era favorevole a quella dei ritardati mentali. In Inghilterra la campagna a favore della sterilizzazione fu condotta soprattutto dalla Eugenics Society, e anche la rivista scientifica Nature pubblicò articoli su questo tema. In Inghilterra, in Francia, in Italia e nei paesi scandinavi le relative proposte di legge incontrarono una resistenza molto più vasta e non passarono. In Germania la sterilizzazione ebbe un'applicazione su vasta scala. Anche durante la repubblica di Weimar il movimento eugenetico tedesco, guidato dalla Gesellschaft für Rassenhygiene (Società per l'igiene razziale), aveva avuto uno sviluppo notevole ed era diffusa l'opinione che i problemi sociali ed economici del dopoguerra fossero basati sulla degenerazione genetica di una parte della popolazione. Anche se sino al 1933 ciò non era direttamente legato alla persecuzione contro gli ebrei, dato che la stessa società per l'igiene razziale considerava gli ebrei tedeschi parte della razza ariana, dopo il 1933 le parti più degenerate della popolazione alle quali applicare le misure eugenetiche divennero gli ebrei e i comunisti. Nel 1933, dopo l'ascesa al potere di Hitler, fu promulgata una legge per la sterilizzazione eugenetica, molto più rigida di quella statunitense, che colpiva i deboli di mente, i ciechi, gli schizofrenici, gli epilettici, gli alcolizzati e i portatori di deficienze fisiche. I medici erano obbligati per legge a segnalare a un'apposita commissione le persone ''disadatte''. In tre anni furono sterilizzate 250.000 persone, la metà delle quali per ''debolezza mentale''. Nel 1935 furono poi approvate le leggi di Nurenberg per la sterilizzazione dei ''geneticamente inadatti'' e per impedire il matrimonio fra ariani ed ebrei.

Negli ambienti scientifici l'opposizione al movimento eugenetico aumentò dopo il 1920, ma solo dopo il 1930 e soprattutto quando si cominciò a conoscere come l'eugenetica veniva applicata nella Germania nazista, questa opposizione divenne sufficientemente forte. Molti genetisti consideravano gli enunciati eugenetici non affidabili e inaccurati e proprio per questa ragione T. H. Morgan negli anni Trenta si dimise dalla American Breeders' Association perché la rivista dell'associazione, il Journal of Heredity, pubblicava molta propaganda a favore dell'eugenetica. Figure principali dell'opposizione scientifica all'eugenetica in questa fase possono essere considerate J. B. S. Haldane e J. Huxley in Inghilterra, e H. J. Muller e H. S. Jennings negli USA.

H. Muller, che era stato da sempre sostenitore dell'intervento dell'uomo sulla propria evoluzione, e che avrebbe ripreso con coraggio intellettuale queste posizioni negli anni Cinquanta, si fece portatore delle critiche più severe. Egli partecipò polemicamente al congresso di e. del 1932, al quale per altro parteciparono non più di 100 persone, presentando una relazione dal titolo ''Il dominio dell'economia sull'eugenetica'', per condannare l'uso strumentale della genetica da parte di ben individuati circoli economici e politici. Nel 1934 giudicò l'eugenetica ormai trasformata in una pseudoscienza di facciata "per i sostenitori dei pregiudizi razziali e di classe, i difensori degli interessi costituiti della Chiesa e dello Stato, fascisti, hitleriani e i reazionari in genere".

Le posizioni eugenetiche avevano nel frattempo perso tutti i fondamenti scientifici. La genetica aveva mostrato che anche caratteri fenotipici relativamente semplici, come il colore degli occhi o le dimensioni corporee, potevano essere determinati dall'interazione di un numero molto elevato di geni differenti. Inoltre, molti geni ''negativi'' potrebbero rimanere non visibili per molte generazioni e ricomparire solo in determinate condizioni. Grazie all'opera, in Inghilterra, di L. Penrose e della sua scuola, quello che era stato il centro dell'attenzione degli eugenetisti, la ''debolezza mentale'', si sfaldò rapidamente. Questo termine infatti indicava uno spettro molto ampio di disturbi e incapacità mentali, la maggior parte dei quali erano poco noti e poco studiati. Inoltre, molti sembravano determinati non da fattori ereditari ma da scarsità alimentare o da malattie, e in nessun caso era possibile stabilire una determinazione ereditaria di una di queste forme.

Lo sviluppo della genetica di popolazione, facendo uso di modelli matematici, dimostrò come l'eliminazione dal patrimonio genetico di una popolazione di un gene recessivo era un processo molto lento, anche in presenza di forti pressioni selettive, e come solo ridurne la frequenza avrebbe richiesto un numero molto alto di generazioni e migliaia di anni. In questo modo veniva vanificata la base scientifica stessa su cui poggiava lo scopo finale del programma eugenetico. A partire dal 1930 il numero di articoli e libri dedicati ad argomenti eugenetici diminuì rapidamente e infine l'impressione suscitata dall'applicazione delle misure eugeniche in Germania spinse la Carnegie Institution a chiedere le dimissioni di Laughlin e a chiudere l'Eugenics Record Office alla fine del 1939.

La fine del movimento eugenetico non pose termine tuttavia ad alcune delle posizioni che ne erano state alla base, in particolare la possibilità e per molti la necessità d'intervenire sul patrimonio genetico delle popolazioni umane. Il rifiuto delle basi sociali ed economiche del movimento eugenetico non impediva la possibilità di usare le conoscenze genetiche per un miglioramento delle condizioni sanitarie e delle prospettive delle generazioni successive, scopo indicato da Muller come "la direzione sociale conscia dell'evoluzione biologica umana". Dopo un lungo silenzio, dovuto principalmente alle conseguenze negative prodotte dal movimento eugenetico, queste posizioni furono ripresentate a partire dagli anni Cinquanta, all'inizio dell'era atomica, e in un ambito scientifico, sociale e morale molto diverso. Si assistette alla contrapposizione fra due posizioni diverse.

Da una parte Muller sensibilizzava l'opinione pubblica sul pericolo che l'aumento drastico delle radiazioni prodotte dalle esplosioni nucleari potesse aumentare in misura drammatica il ''carico genetico'' di mutazioni negative; mutazioni che, in assenza della selezione naturale, non vengono eliminate. L'argomentazione di Muller era fondata sul fatto che il genoma di ogni singolo individuo è costantemente soggetto alle mutazioni, che possono essere spontanee oppure prodotte dalle radiazioni o da mutageni chimici. Muller stesso aveva dimostrato nei suoi studi precedenti che la maggior parte delle mutazioni sono deleterie e che questo punto doveva essere preso in considerazione dopo l'inizio dell'era atomica. Con calcoli matematici Muller mostrò che il carico genetico medio era di otto mutazioni deleterie per ogni persona. L'accumulo graduale di queste mutazioni, in genere recessive, che si diffondono nell'intera popolazione grazie agli incroci, costituisce il ''carico genetico'' della specie umana, definito come il numero totale di geni potenzialmente letali nel pool genico umano. Secondo Muller il carico genetico era in grado di ridurre la fitness evolutiva. In una situazione di libero gioco della selezione naturale, le nuove mutazioni venivano bilanciate dall'eliminazione di quelle esistenti per la morte degli individui che ne erano portatori. Ma a partire dalla preistoria lo sviluppo della medicina e il miglioramento delle condizioni di vita ridussero drasticamente gli effetti della selezione naturale, e con il venir meno di questo bilancio le mutazioni si sono accumulate. Inoltre, lo sviluppo della società industriale, e la connessa abbondanza di mutageni, aumenta la frequenza delle mutazioni. La crescita del carico genetico, argomentava Muller, poteva raggiungere un punto di non tolleranza da parte del genoma e portare alla ''morte genetica'' delle popolazioni umane. Inoltre, data la parziale dominanza di tutte le mutazioni, le mutazioni deleterie si sarebbero in ogni caso manifestate con un indebolimento generale e un abbassamento dell'attesa di vita.

La soluzione intravista da Muller era quella del controllo eugenetico della riproduzione, basato sulla scelta volontaria, una ''scelta germinale'', distinguendo chiaramente gli aspetti sessuali da quelli riproduttivi. Muller propose di costituire una vera e propria ''banca del seme'', al fine di giungere a una selezione del valore genetico degli individui fornitori, in modo da controllare il pool genico delle popolazioni future. Anche se Muller non approvò il progetto, considerandolo troppo frettoloso, esso andò effettivamente in porto e si sono avute molte fecondazioni artificiali utilizzando questa banca.

Opposti a questa visione erano i genetisti di popolazione, in particolare T. Dobzhansky, che sottolineavano invece come la dimensione biologica da difendere non è quella dei singoli individui, per avere 1000 Galileo o 1000 Pasteur, ma la popolazione, con la sua intrinseca variabilità biologica. Lo scopo da raggiungere dovrebbe essere il massimo di variabilità e lo spostamento di tale variabilità verso stati di attività maggiore, dal punto di vista intellettuale e fisico. Entrambe queste posizioni, come ha fatto notare R. Lewontin, sono egualmente ''biologistiche'', in quanto ritengono che la natura della società umana sia fortemente influenzata dalla distribuzione dei genotipi, mentre la variazione genetica è irrilevante per il presente e il futuro delle istituzioni umane, e che l'unica caratteristica della natura biologica dell'uomo è che egli non è vincolato da essa.

L'eugenica e la genetica di popolazioni − Lo sviluppo della genetica di popolazione, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, ha minato le fondamenta delle posizioni eugeniche tradizionali. Anzitutto è stato definitivamente superato il legame con il razzismo: non c'è alcuna base genetica che possa indurre a ritenere che una razza sia geneticamente superiore a un'altra; le variazioni fra le razze possono essere per molti caratteri minori di quelle che si riscontrano all'interno di una razza. Di conseguenza, privo com'è di qualsiasi base genetica, non è compito del genetista prendere in esame il razzismo che rimane un fenomeno sociale, economico e culturale.

In secondo luogo la speranza di produrre modificazioni genetiche mediante una politica sociale (negativa o positiva che sia) cade. Data la struttura delle popolazioni umane, infatti, non è ipotizzabile un cambiamento significativo del patrimonio genetico nei tempi prevedibili da un'azione sociale mirata a questo scopo. Oltre al fatto che il giudizio sulla ''positività'' del carattere selezionato può cambiare anche nel corso di poche generazioni, facendo negativo ciò che pochi decenni prima era considerato positivo, da un'analisi matematica anche semplice si deduce che è poco probabile che ci siano risultati positivi in poche generazioni.

Se un gene letale recessivo ha una frequenza del 10% sarebbero necessarie circa 10 generazioni di selezione molto rigida, cioè 300 anni, per ridurne la frequenza al 5%. Se la frequenza iniziale è più bassa, il tempo necessario per dimezzarla è molto maggiore (il tempo in generazioni è l'inverso della frequenza genica iniziale). Una frequenza dell'1% richiederebbe 100 generazioni, ossia 3000 anni, per essere dimezzata dalla selezione. Allo stesso modo, se si mette in condizione un omozigote malato di riprodursi come gli individui normali, e la frequenza di questo gene è ancora l'1%, occorreranno 3000 anni (100 generazioni) perché questa frequenza diventi del 2%.

La prevenzione della riproduzione delle persone malate non ha praticamente alcun effetto disgenico a livello della popolazione, se ci riferiamo alla nostra scala temporale.

L'eugenica come problema di sanità pubblica − A partire dagli anni Sessanta si è verificato un notevole cambiamento in questo ambito, quando la comunità medica internazionale si è posta come obiettivo la diminuzione della morbilità causata da malattie ereditarie. L'applicazione della genetica umana alla sanità pubblica è stata delineata dall'OMS nel 1968 (Human genetics and public health). Un programma di sanità pubblica ha per obiettivi la riduzione della mortalità causata dalla malattia e la prevenzione della malattia stessa. Quest'ultimo obiettivo viene considerato il più importante, dato che sanità pubblica dovrebbe essere sinonimo di prevenzione. L'applicazione delle conoscenze della genetica umana al trattamento e alla prevenzione delle malattie ereditarie come misura di medicina preventiva per diminuire l'incidenza delle malattie ereditarie può essere considerata un caso particolare della pianificazione familiare. A differenza dell'e. classica, essa si limita al trattamento dei caratteri patologici, non alla ricerca dei caratteri ''migliori'', e solo di quelli che hanno modalità di trasmissione ereditaria chiaramente definite. L'aumento del ruolo del consultorio genetico in questo ambito è stato determinato dal cambiamento delle frequenze delle malattie ereditarie, provocato dalla diminuzione dell'incidenza delle malattie infettive e parassitarie, che conferisce sempre maggiore importanza alla morbilità a componente genetica. Di conseguenza si assiste in percentuale a una crescita dell'incidenza delle malattie ereditarie.

Le priorità per gli interventi di prevenzione contro le malattie a determinazione genetica sono stabilite prendendo in esame la prevalenza di una malattia, la sua gravità e il periodo di tempo in cui è clinicamente attiva. Questo ha portato ad accentrare l'attenzione soprattutto sulle anemie congenite (in particolare anemia falciforme e talassemie) e sulla mucoviscidosi.

Le restrizioni, non forzate ma volontarie, nei matrimoni o nella procreazione nei casi di difetti genetici gravi, vengono considerate una misura eugenetica accettabile. Lo strumento principale per questo è la diagnosi prenatale precoce per individuare eventuali portatori (v. genetica medica, in questa Appendice). Questa prospettiva richiede un'analisi di massa per individuare i portatori dei geni recessivi potenzialmente pericolosi (come quelli per la talassemia), insieme a una vasta educazione per sensibilizzare i portatori. L'ambulatorio genetico è divenuto altrettanto diffuso quanto gli altri ambulatori per la medicina preventiva; consultori genetici sono stati installati in molti ospedali, rendendo generalmente diffuso e accettato questo tipo d'intervento eugenetico.

Tale obiettivo non è d'altronde molto diverso, dal punto di vista delle conseguenze evolutive, rispetto a quanto le società umane hanno praticato nei fatti, mediante l'accoppiamento preferenziale per molte generazioni sulla base dei costumi, dei livelli sociali e culturali. Le modificazioni delle popolazioni umane dovute alla politica della popolazione e alla pianificazione familiare mediante l'uso di metodi contraccettivi, di fatto significano una riproduzione selettiva (come quella intravista dagli eugenetisti decenni prima), che, anche se lasciata a se stessa, modifica in profondità la struttura genetica delle popolazioni.

Preoccupazioni in tal senso sono aumentate dalla messa a punto di tecniche per la procreazione medicalmente assistita (fecondazione artificiale, trapianti ovulari, ecc.) che di fatto sembrano fornire la possibilità di scelta dei caratteri del nascituro, e non solo al livello dell'eliminazione delle patologie di natura genetica. In questo ambito si sottolinea quindi la necessità di effettuare le diagnosi prenatali e la procreazione medicalmente assistita in centri autorizzati, al di fuori dei circuiti commerciali, utilizzando solo la diagnosi delle malattie genetiche gravi, la cui presenza renderebbe plausibile un'interruzione della gravidanza oppure la messa in opera di idonee misure preventive o terapeutiche. La lista dei test autorizzati, che deve cambiare con i progressi della medicina e della ricerca biologica, dovrebbe essere stabilita con una normativa di legge. I test diagnostici a disposizione dei genitori non dovrebbero essere utilizzati per determinare le caratteristiche non legate a gravi anomalie (come il colore degli occhi o il sesso).

L'eugenica e il linkage genetico − Nuovi metodi di studio (linkage analysis, analisi dell'associazione genetica) stanno aprendo una nuova era nella genetica umana e al tempo stesso sollevano molte implicazioni sociali ed etiche. La tecnica si basa sul fatto che il genoma umano contiene delle regioni ripetitive altamente variabili, che possono, mediante l'uso di enzimi specifici, essere tagliate in punti particolari, producendo frammenti di lunghezza diversa.

Questi frammenti ipervariabili di DNA sono specifici e stabili geneticamente, segregando in modo mendeliano; essi sono quindi utilizzabili come ''impronte genetiche'' di un individuo per accertare le sue relazioni con altri individui (per es. la paternità) oppure come marcatori della presenza di un certo gene ad essi vicino, ''segnali'' per quel gene la cui presenza non può essere individuata altrimenti. Per di più, la reazione chiamata PCR (Polymerase Chain Reaction) rende possibile la produzione in vitro di grandi quantità di un frammento specifico di DNA di lunghezza e sequenza definita, a partire anche da piccole quantità di template (stampo), aumentando di molto la capacità di analisi sperimentale. Si ha così a disposizione un nuovo metodo per ottenere in laboratorio informazione genetica utile per la diagnosi prenatale, per individuare gli adulti portatori di un determinato gene e malattie a determinazione genetica, anche in assenza di manifestazioni fenotipiche, cioè di un quadro sintomatico preciso. Questa tecnica è stata già utilizzata con successo per la diagnosi prenatale della talassemia, della fenilchetonuria e della corea di Huntington.

È a questo punto che sorgono problemi etici e sociali importanti, anche rispetto alle tecniche tradizionali di diagnosi prenatale, che permettevano d'individuare anomalie cromosomiche o presenza di determinati difetti enzimatici. Un aspetto riguarda ciò che consegue alla determinazione di malattie a insorgenza ritardata e alla predisposizione a particolari malattie. Cosa fare quando la malattia non ha cura? Nel contesto della genetica medica la diffusione dell'informazione, che è quasi un imperativo etico in ogni altro tipo di patologia, richiede invece molta cautela. L'informazione è uno strumento che deve servire a uno scopo, non è un fine in sé. Normalmente la diffusione d'informazione produce risultati positivi, e ''dire la verità al malato'' è la soluzione migliore, ma non è sempre così, automaticamente. Prendiamo per es. la corea di Huntington, una delle malattie ereditarie più misteriose, che provoca la morte programmata di uno specifico sottoinsieme di cellule cerebrali e comincia a manifestarsi dopo i quarant'anni. La consapevolezza, anche quando si è giovani e sani, del fatto che a una certa età si sarà colpiti da una degenerazione implacabile e incurabile del sistema nervoso può essere traumatica e provocare stati di grave ansia, sino al suicidio, senza che questa consapevolezza possa in qualche modo portare a comportamenti capaci di modificare l'evolversi della malattia, cosa invece possibile in caso di predisposizione genetica al diabete o a determinate malattie circolatorie.

In questo ambito si è molto rivalutato il ''modello medico'', cioè l'applicazione di una metodologia dipendente dal caso singolo, centrato sul singolo paziente, con un'analisi ragionata del rapporto rischi/benefici e un'accurata analisi delle conseguenze derivanti dall'intervento o dal non intervento, dall'informazione o dalla non informazione, a livello non solo del singolo paziente ma a quello dell'intera società.

Le impronte genetiche. − Data la grande variabilità genetica, nessun essere umano, a parte i gemelli identici, ha un'identica sequenza di DNA (la macromolecola portatrice dell'informazione ereditaria) e il polimorfismo di una popolazione (le differenze genetiche rilevabili all'interno di essa, che permettono di dividerla in gruppi, come per es. Rh+ e Rh- o altri gruppi sanguigni) è rilevabile direttamente al livello di questa macromolecola e non solo nelle sue manifestazioni a livello fenotipico. Una serie di tecniche permette una valutazione quantitativa di questa variabilità e quindi di stabilire con sufficiente certezza se due campioni di DNA appartengono o no allo stesso individuo, esattamente come si fa da tempo con le impronte digitali (per questa ragione si parla di DNA fingerprints).

Queste tecniche di analisi sono divenute uno strumento potente per la diagnosi prenatale di disordini genetici, per l'individuazione di portatori e per la determinazione della suscettibilità a date malattie, come quelle cardiovascolari. Ma il loro uso solleva molti problemi etici, gli stessi tradizionalmente connessi all'analisi genetica, insieme ad altri nuovi. Fra gli altri, quelli della confidenzialità dei dati sui legami familiari, l'accertamento della non-paternità, l'uso di questi dati per la diagnosi precoce di malattie ereditarie o anche della sola suscettibilità ereditaria a particolari malattie. La tecnica più diffusa è basata sull'uso degli enzimi di restrizione, che tagliano le catene di DNA in punti precisi. Se ci sono variazioni nella sequenza, i punti di attacco di questi enzimi possono risultare spostati, sicché si otterranno pezzi di DNA diversi per lunghezza. La lunghezza dei vari frammenti può essere misurata quantitativamente mediante elettroforesi, cioè sottoponendo i campioni a un campo elettrico, che li sposterà più o meno in un gel a seconda della loro carica elettrica e della loro massa. Si procede poi all'ibridazione della catena sconosciuta con campioni standard che contengono loci noti, per individuare le sequenze.

Sono stati studiati in questo modo circa 3000 ''pezzi'' di DNA, alcuni dei quali altamente polimorfici, ed è estremamente improbabile, data la grande variabilità naturale, che il DNA di due individui diversi mostri lo stesso pattern, la stessa distribuzione della lunghezza dei pezzi di DNA prodotti dagli enzimi di restrizione.

Eugenica, bioetica e legislazione. − Lo svilupparsi delle tecniche d'ingegneria genetica e delle biotecnologie in genere, che fanno intravedere la possibilità di conoscere nella sua integrità il genoma umano e d'intervenire direttamente su di esso, con tecniche chirurgiche (per es. per sostituire un gene ritenuto dannoso), ha riaperto un vasto dibattito sulla liceità di questo tipo di interventi. Alcuni punti chiari sono emersi: avanza in primo luogo l'enunciato etico fondamentale che la possibilità di agire e intervenire nel testo genetico dev'essere usata solo per liberare quello che, nel suo ''linguaggio'', rende possibile il massimo di creatività e di libertà, per quanto risulti poi difficile definire cosa questo significhi caso per caso.

La complessità e l'urgenza dei problemi sopra accennati ha reso evidente la necessità che gli stati si dotino di appositi strumenti legislativi. La prima indicazione in questo senso riguarda la messa in opera di una legislazione su problemi come la procreazione medicalmente assistita, le diagnosi prenatali, l'ingegneria genetica e la sperimentazione medica, che di fatto mettono in opera un'e. non socialmente programmata. Si sottolinea, accanto al diritto alla libertà dell'individuo o della coppia, la necessità di una dimensione sociale di questi problemi per eliminare l'illusione del ''consenso'' che finisce per far pesare sul singolo scelte che sono invece sociali, e per portare in un ambito collettivo tutte le decisioni che possono incidere sulla struttura delle popolazioni umane. Queste scelte sociali devono essere chiaramente espresse prima di ogni tipo di legiferazione, e devono essere indicati quali sono gli interventi legittimi, soprattutto nel campo dei test genetici, e quali le condizioni in cui questi devono essere condotti.