mercoledì 6 marzo 2019

BUONANOTTE BIMBI

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GLI INNOCENTI CADUTI NELL’INFERNO DELLE SETTE




Bambini e adolescenti finiscono in gruppi dove subiscono abusi di ogni tipo, come dimostrano le drammatiche testimonianze che abbiamo raccolto. Ma quasi nessuno parla e quando lo fa di norma non viene creduto. Pubblichiamo un estratto dell'inchiesta uscita su Famiglia Cristiana n.26 del 1°luglio 2018.

Don Aldo Buonaiuto e il vicequestore Francesca Romana Capaldo sono in prima linea nella lotta contro le sette. «Le indagini sono sempre molto difficili, ma noi siamo sempre più preparati. Il contributo di chi sa qualcosa resta però fondamentale».


Le due storie che leggerete sono molto edulcorate. Non solo per preservare la riservatezza di chi ce le ha raccontate, ma perché le vicende vissute dai minori finiti nell’abisso delle sette sono così sconvolgenti che conoscerle fino in fondo creerebbe solo repulsione. D’altra parte è proprio questa indicibilità che fa sì che gran parte di questi casi non venga mai alla luce, anche se sono molto più frequenti di quanto si pensi.


«La cultura prevalente è negazionista», spiega lo psicoterapeuta Claudio Foti, già giudice onorario al Tribunale dei minori di Torino, direttore del Centro studi Hansel e Gretel, collaboratore del Gruppo Abele e coautore del recente saggio Curare i bambini abusati. «La realtà che questi piccoli raccontano o disegnano è così raccapricciante che gli operatori, dalle forze dell’ordine ai magistrati, agli stessi psicologi, fanno molta fatica ad accettarla». Eppure, proprio qui in Italia, in provincia di Varese, ha operato tra il 1998 e il 2004 una delle sette più spietate, le Bestie di Satana, responsabile della morte di quattro ragazzi, tra cui il sedicenne Fabio Tollis. Due persone seguite dal dottor Foti, sotto la garanzia dell’anonimato, hanno accettato di raccontarci la loro storia, entrambe motivate dal desiderio di rompere questo muro di omertà e di incredulità.



Giuseppe, papà di un bambino finito in una setta, di spalle, con il dottor Claudio Foti


Un padre separato racconta come il suo bambino sia finito in una setta. E la sua battaglia per tirarlo fuori dall’incubo.

Giuseppe arriva dal Veneto nella sede del Centro studi Hansel e Gretel, alle porte di Torino. È abituato a viaggiare perché fa il camionista. «Ora sono tranquillo perché so che Matteo è a casa, al sicuro. Ma mi tormenta sempre il pensiero di non essere stato presente quando aveva bisogno di me…».

Il dottor Foti gli porta un caffè e lui inizia il suo racconto della separazione dalla moglie avvenuta nel 2013, quando il bambino aveva cinque anni. «I giudici lo affidarono a lei, che però fece di tutto per non farmelo vedere. Così, anche a causa del mio lavoro, solo dopo sei mesi sono riuscito ad averlo un weekend tutto per me. Al momento di tornare dalla mamma, si mise a piangere disperato perché non voleva lasciarmi. Diceva che io lo coccolavo di più. Ero dispiaciuto, ma ovviamente non potevo accontentarlo. Solo che, da allora, ogni volta al ritorno la scena si ripeteva».

Al momento delle vacanze estive Giuseppe ottiene di stare con Matteo per 15 giorni: «Andammo da mia madre in Sicilia e un giorno lui le raccontò di strani balletti che le faceva fare la mamma, in cui lui doveva abbassarsi le mutandine alla presenza di uomini che poi lo toccavano». Sconvolto, Giuseppe torna al suo paese e va dai carabinieri. «Il maresciallo mi ascoltò, mi disse che avrebbe convocato mia moglie per interrogarla e che poi tutto sarebbe passato alla magistratura». Da quel momento, però, non accade nulla. «Matteo continuò a stare con sua madre. Io ero preoccupato, ma ripetevo anche che forse si era inventato tutto per poter stare con me. O che la mamma gli aveva fatto vedere un film dove c’era una scena di ballo paurosa e lui credeva di averla vissuta davvero...».

Arriva così l’estate del 2015 e Matteo torna con il papà dalla nonna. «Quando la sera la mamma lo chiamava, scoppiava a piangere. Finché, il giorno prima della partenza, non ce l’ha fatta più..». Giuseppe fa un lungo sospiro e riprende: «Ci ha raccontato che ogni tanto con un furgone veniva portato con altri bambini in una casa buia, illuminata solo da alcune candele nere. Lì c’erano degli uomini con delle maschere da lupo. Loro su un tavolo dovevano ballare mentre quegli uomini facevano delle cose strane prima alla mamma e poi ai bambini, lui compreso. Mia madre a quel punto ha avuto la prontezza di chiedergli se riusciva a disegnare quello che aveva detto».

Giuseppe tira fuori un foglio che a vederlo lascia sgomenti. Matteo, con una lucidità impressionante, ha raffigurato l’orrore che ha subìto, indicando anche i nomi dei bambini e delle bambine che erano con lui. In cima al foglio c’è la madre, pure lei mascherata. Più in basso, c’è lui che piange. In fondo, c’è una frase che strazia il cuore: «Avevo quattro anni».

Giuseppe riprende il suo racconto: «Tornati in Veneto, con Matteo siamo subito stati ricevuti dal pubblico ministero, alla presenza di una psicologa. Matteo ha ripetuto tutto, ha mostrato il disegno e alla fine il Pm ha emesso un provvedimento di affido esclusivo a me. La madre avrebbe potuto vederlo solo in una struttura protetta, con i tempi indicati dal bambino, che però si è sempre rifiutato». Nel frattempo, Matteo dalla psicologa continua a parlare e a disegnare. Giuseppe tira fuori un altro foglio. Anche questo descrive con precisione sconcertante cosa avveniva all’interno della setta dove la madre lo aveva introdotto.

Spicca un particolare: un uomo che riprende tutto con una telecamera. «Tra gli scopi di queste organizzazioni c’è il tornaconto economico che deriva dalla diffusione di materiale pedopornografico», spiega il dottor Foti. Eppure presto Giuseppe comprende che la psicologa ha un orientamento preciso: «Capivo che non mirava a indagare su cosa era successo al bambino, ma a fargli capire che la mamma in fondo gli voleva bene. Con me è arrivata a insinuare che forse i disegni erano il frutto di un mio condizionamento per metterla in cattiva luce. Allo stesso tempo, però, ha stabilito che mia moglie ha una personalità gravemente disturbata. Alla fine ha prodotto una relazione sulla base della quale il magistrato ha deciso di archiviare il caso. Con il mio legale ci siamo opposti».

«Questo racconto presenta due elementi tipici di questi casi», commenta il dottor Foti. «Da un lato le indagini sono difficilissime perché le sette hanno una grande capacità di nascondere le tracce della loro attività; dall’altro c’è il totem della bigenitorialità dominante nella psicologia forense, secondo il quale mantenere un rapporto sia con la mamma che con il papà è un valore superiore a ogni altro».

E così, dopo oltre tre anni Matteo ha da poco rivisto in una struttura protetta la madre: «È tornato a casa piangendo e mi ha detto che “la signora” – non l’ha chiamata “mamma” – lo voleva abbracciare, ma lui non ha voluto. Il grande errore che con il mio avvocato abbiamo commesso è stato non aver prodotto una perizia di parte, oltre a quella della psicologa incaricata dalla Procura. Ma ora c’è il dottor Foti».

Il quale precisa: «Noi ci batteremo per far riaprire il caso, prima di tutto per Matteo. La mente umana aspira sempre alla verità, tanto più quella di un bambino. Se questo non accadrà, Matteo rischia di perdere per sempre la fiducia negli altri».

Poi Foti si rivolge a Giuseppe: «So che per lei è dura sentirselo dire, ma lei è stato fortunato perché suo figlio è un bambino molto forte, che ha trovato il coraggio di parlare. E poi ha trovato un maresciallo, un magistrato e una psicologa che almeno hanno avuto il forte dubbio che i racconti e i disegni fossero veri e quindi Matteo è stato affidato a lei. Di norma, non accade così: i bambini non parlano e quando lo fanno non vengono creduti».


Il quadro Lo sguardo sull'orrore della pittrice Eva Strazzullo, ispirato alla sua esperienza vissuta da piccola in una setta satanica

Oggi è una donna sposata con figli. Ma la terribile esperienza vissuta da piccola continua a condizionare la sua vita

Appena incontriamo Lorenza, le porgiamo la mano per stringere la sua. Ma lei fa finta di niente. Dopo capiremo perché. Per ora, si siede mantenendo una certa distanza e dice solo: «Mi viene da piangere prima ancora di iniziare». Accanto a lei c’è lo psicoterapeuta Claudio Foti che con una collega la segue da quasi dieci anni: «Lorenza è una sopravvissuta. Sta compiendo un percorso molto coraggioso. In casi simili, di solito le persone si perdono per sempre».

Siamo a casa sua, in una città pugliese. Lorenza inizia il suo racconto: «Sono nata da una relazione extraconiugale di mia madre, che aveva già due figli. Lei era sempre concentrata su sé stessa, mentre per me c’erano solo botte. La vedevo come la matrigna di Biancaneve».

A 11 anni, la madre le presenta un uomo, dicendole che è suo zio. «Era molto conosciuto in città. Abbiamo iniziato a vederci spesso, finché un giorno mi ha detto: “Se ancora non l’hai capito, io sono tuo padre”. Io mi misi a piangere e quando ci lasciò a casa, gli dissi per la prima volta: “Ciao, papà”». Un papà che però presto rivela il suo vero volto: «Mentre eravamo in macchina noi tre, iniziò a toccarmi e mia madre non disse nulla ». È solo l’inizio: «Da quel momento ogni sabato mi veniva a prendere e ogni incontro si concludeva con un abuso. E quando si arrabbiava, faceva un gesto che mi terrorizzava: univa le dita delle mani a formare una croce e poi la rovesciava».

Questo rapporto va avanti dagli 11 ai 17 anni. «Dopo iniziammo a vederci sempre meno, perché io ero cresciuta e lui si era ammalato di cuore. Finché, dopo qualche anno, morì». Lorenza, così, inizia faticosamente a costruirsi una vita. Trova un lavoro, si sposa e ha due bambini. Ma capisce che i conti con il suo passato non sono chiusi, anzi. «Non sapevo spiegarmi perché mentre con mia figlia ero affettuosa, con mio figlio no: mi costava fatica avere un contatto fisico con lui. Allora iniziai a cercare uno psicoterapeuta».

Entra in scena così il dottor Foti. Grazie a lui, Lorenza ha scoperto che l’abisso di orrore in cui era cresciuta ne nascondeva un altro, ancora più atroce: «Pian piano nella mia mente sono emersi delle immagini di quando avevo 4 o 5 anni. Ero con mio padre in un palazzo antico. Entravamo in un salone con un gruppo di uomini. E dopo un po’ arrivava il loro capo, io lo chiamavo “il cerimoniere”. Portava un vestito nero con dei bottoncini rossi. Mi faceva tanta paura...». Lo psichiatra interviene per chiederle come sta, per domandarle se se la sente di proseguire.

Allora Lorenza chiude gli occhi e quello che accade mette davvero i brividi. La sua voce cambia, diventa quella di una bambina: nella sua mente è tornata a essere una piccola indifesa, sprofondata all’inferno. «Accendevano delle candele e vedevo altri bambini come me, solo che stavano chiusi in una specie di gabbia. Io cercavo di prendere la mano di mio padre, ma lui non voleva e mi rimproverava: “Non devi avere paura!”».

Dalla mente di Lorenza affiora un altro ricordo: «C’era un altare e un bambino con i capelli corti stava disteso lì sopra. Gli uomini passavano intorno, sentivo dei rumori e dopo ogni rumore il bambino urlava. Anche mio padre si è avvicinato e così ho notato che tutti nelle mani avevano come degli artigli che usavano per graffiarlo. Mio padre ha costretto anche me a fargli male. Poi tutti si passavano un calice che conteneva un liquido scuro e lo bevevano».

Il dottor Foti interviene di nuovo: «Ciò che Lorenza racconta è tipico delle sette sataniche: c’è il rovesciamento della Comunione cristiana. Al posto del corpo e del sangue di Gesù c’è il corpo di un bambino inerme su cui esercitare violenza. E le vittime non possono limitarsi ad assistere al rito, ma devono parteciparvi per poter diventare a loro volta devoti di Satana». Lorenza non ha subìto la stessa sorte del bambino. Ma sull’altare c’è stata pure lei: «Ci legavano e poi a turno venivamo violentati. Non bisognava mai piangere, perché altrimenti si scatenavano ancora di più, specie il cerimoniere. Allora in quei momenti per resistere immaginavo di essere da un’altra parte o fissavo alcuni buchi sul muro…».

Basta così. Lentamente, Lorenza riapre gli occhi e ascolta il dottor Foti: «Cosa fa un essere umano, e a maggior ragione un bambino, quando subisce qualcosa che oltrepassa la capacità di sopportazione? Si dissocia. Una parte di sé resta legata a quel ricordo terribile, ma un’altra ha bisogno di distanziarsi per riuscire a sopravvivere. Grazie a questa parte dissociata, Lorenza non ha riconosciuto suo padre quando si è rifatto vivo quando aveva 11 anni». «Dai miei ricordi, credo di essere stata nella setta per almeno 3 anni», aggiunge lei.

Adesso va molto meglio, tranne nei periodi delle principali feste religiose: «Specie durante la Quaresima, mi viene di tutto: problemi ai reni, agli occhi, coliche. Passata la Pasqua, sto benissimo». «Gli incontri della setta avvenivano proprio in quei giorni e quindi in lei scatta una riattivazione traumatica», spiega lo psichiatra.

Lorenza non ha denunciato quanto ha subìto perché suo padre ormai è morto e non vuole sconvolgere la vita ai familiari, a cui ha raccontato solo degli abusi subìti da lui e non della setta. «Ora so che anche prima di iniziare la psicoterapia sapevo dentro di me quello che mi era successo. Ma sentivo che non potevo parlare perché ero legata a un patto con la setta. E ho capito che il taglio profondo che ho sulla mano è il simbolo di questo patto».

E aggiunge: «Ho accettato di parlare con voi per un solo motivo: chi è vittima di una setta o sa qualcosa, vada subito dalla polizia».

SETTE SATANICHE:«VITTIME E TESTIMONI, NON ABBIATE PAURA DI DENUNCIARE»



Don Aldo Buonaiuto e il vicequestore Francesca Romana Capaldo sono in prima linea nella lotta contro le sette. «Le indagini sono sempre molto difficili, ma noi siamo sempre più preparati. Il contributo di chi sa qualcosa resta però fondamentale».

Sette sataniche:«Vittime e testimoni, non abbiate paura di denunciare»

Don Aldo Buonaiuto e il vicequestore Francesca Romana Capaldo sono in prima linea nella lotta contro le sette. «Le indagini sono sempre molto difficili, ma noi siamo sempre più preparati. Il contributo di chi sa qualcosa resta però fondamentale».


Il vicequestore Francesca Romana Capaldo, a capo della Squadra Antisette della Polizia. E' stata premiata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per aver guidato l'indagine che ha portato all'arresto dei responsabili degli stupri di Rimini dell'estate 2017

Don Aldo Buonaiuto lo ripete più volte nel corso dell’intervista: «Mi raccomando, citate il nostro numero verde. I minori sono sempre più esposti a finire nella rete delle sette. Per questo, chiunque abbia il minimo sospetto, è bene che sappia a chi rivolgersi».

Ecco allora il numero verde, 800228866, del Servizio antisette della Comunità Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi e coordinato da don Aldo. «Riceviamo in media 15 telefonate al giorno e parecchie sono di genitori preoccupati per i propri figli». Soprattutto adolescenti: «È la fascia d’età in cui è più facile subire il fascino dell’occultismo. E Internet e i social network sono diventati dei canali formidabili di reclutamento per le sette. Altre nascono intorno a giovani che si riuniscono per suonare o ascoltare un tipo di musica heavy metal chiamato brutal death».

In particolare, don Aldo segnala un fenomeno sempre più diffuso: «Il satanismo acido, ossia l’uso di droghe sintetiche da parte di giovani che, nella simbologia esoterica, equivalgono alla comunione con Satana. Per queste microsette, la morte psichica è più importante della morte fisica. E dietro questi ragazzi quasi sempre ci sono adulti che li manipolano. Per questo parliamo di psicosette».

Ma quando in un genitore, in un insegnante, in un educatore deve scattare un campanello d’allarme? «Se un ragazzo da un giorno all’altro cambia gli amici, il modo di vestirsi, di comportarsi, manifestando una predilezione per l’oscuro, il macabro, qualche domanda bisogna farsela e non invece banalizzare, come purtroppo spesso capita». Chi telefona al Servizio antisette, il più delle volte lo fa perché ha paura a rivolgersi alle forze dell’ordine o semplicemente si vergogna a farlo: «Si fa fatica a parlare di questo fenomeno perché non lo si conosce. Diciamo la verità: sono molto più numerosi i difensori delle sette, che cercano di ridicolizzare quelli che come noi le contrastano. Siamo a disposizione per raccogliere le richieste d’aiuto, a indirizzare le persone verso psichiatri qualificati, e se dai racconti ipotizziamo l’esistenza di reati, li segnaliamo alle forze dell’ordine e in particolare alla Squadra antisette della Polizia con cui collaboriamo da molti anni».

È una sezione del Servizio centrale operativo (Sco) diretta dal vicequestore aggiunto Francesca Romana Capaldo: «Ciò che accomuna le vittime è la loro fragilità. Nel caso dei minori, nella simbologia ritualistica c’è in più l’attrattiva della loro ”purezza”». Ma come si fa a finire dentro una setta? Il vicequestore racconta un caso recente seguito dalla Squadra mobile di Torino: «Una ragazza, quando era ancora minorenne, è stata introdotta dall’ex fidanzato e dalla madre di lui in una setta dove ha subìto abusi sessuali in un contesto di riti esoterici. Per convincerla a continuare, hanno realizzato dei video che usavano come strumento di ricatto, un elemento tipico di queste organizzazioni. Ma lei ha trovato il coraggio di parlare con un centro antiviolenza e da lì abbiamo attivato un’indagine che ha portato allo smantellamento della setta».

Le inchieste sono molto difficili perché i guru sono davvero abili a nascondere le prove della loro attività. «Per questo è necessaria un’alta specializzazione da parte di chi, noi per primi, contrasta questo fenomeno. A tal fine, abbiamo costituito una task force a livello nazionale: con i colleghi della mia sezione collaborano altri di grande esperienza delle Squadre mobili di varie città. Per questo voglio lanciare un messaggio di speranza ai genitori e ai ragazzi. Stiamo maturando una sensibilità e una competenza molto forti in questa materia: per cui non temete di venire a denunciare, non abbiate paura di essere giudicati o di non essere creduti».

LA RIVINCITA SOCIAL DEI FIGLI: QUANDO LA LEGGE DIFENDE I MINORI DAL NARCISISMO 2.0 DEI LORO GENITORI


Nell’ultimo anno si sono verificati i primi casi di denunce da parte dei figli verso i propri genitori a causa della pubblicazione sui Social di loro dati personali visibili a tutti e senza il loro consenso. Si tratta per lo più di foto intime ma anche di informazioni private che vengono diffuse in Rete dove parenti ma anche solo semplici conoscenti o addirittura sconosciuti possono vederle. Questa violazione della privacy del minore è una conseguenza della SOCIAL-izzazione che sta degenerando sempre di più tra i genitori di nuova generazione, ma anche tra quelli che hanno scoperto da poco il mondo dei social network e che sembrano non poter fare a meno di esporre pubblicamente la loro vita privata. Ad essere coinvolte in questa pratica ossessiva di pubblicazione di immagini personali e private sono anche le persone che stanno più vicino a questi giovani genitori: i partner ma soprattutto i figli. Se è vero che il marito o la moglie possono avere pochi problemi a mostrare la propria immagine su internet nella loro quotidianità, più problematico è il discorso quando si tratta di informazioni o foto più intime di figli minorenni.

Sempre più infatti la Rete è invasa da foto di bambini messi su Facebook o Instagram, senza censure, anche nudi, come a rendere partecipi i “followers” o gli “amici di Facebook” della gioia di vivere con un pargolo al proprio fianco.

La pubblicazione compulsiva di questi dati personali può essere un problema nel momento in cui il bambino, diventato ragazzo, comincerà a diventare consapevole della propria intimità e identità e quindi inizierà a preoccuparsi della sua privacy e della sua reputazione online oltre che nella vita reale. Da qui è nata l’esigenza di molti ragazzi di sentirsi tutelati nella propria immagine fino a minacciare i propri genitori di querela se essi non avessero rimosso i dati compromettenti dalle loro pagine Social.

Nell’ultimo anno si è passati ai fatti.

Lo scorso dicembre il Tribunale di Roma ha emesso un’ordinanza che ha obbligato una madre a rimuovere le foto di suo figlio 16enne postate su Facebook e Instagram oltre a tutte le informazioni private legate a lui che la donna diffondeva sulla sua pagina personale. Questo ragazzo in seguito alla separazione dei genitori era stato affidato ad un tutore in quanto madre e padre erano stati entrambi sospesi dalla responsabilità genitoriale “per condotte gravemente pregiudizievoli verso il minore”. Da lì sono cominciate le richieste insistenti da parte del giovane (turbato dalla diffusione delle sue informazioni personali, tra cui anche accuse di essere un “malato di mente”) di rimuovere tutti i post pubblicati dalla madre che avevano lui come soggetto; i suoi compagni erano infatti a conoscenza delle vicende familiari che lo riguardavano grazie all’uso sistematico dei social network da parte della donna, tanto da costringerlo a voler proseguire gli studi all’estero, manifestando il “desiderio di stare lontano dall’attuale contesto sociale”.

Queste lamentele numerose e inascoltate hanno portato il tutore alla richiesta legale di tutela dell’immagine del minore, facendo valere le norme penali e civili sul consenso alla diffusione dei dati personali (art. 96 sul diritto d’autore che vieta la pubblicazione di fotografie senza consenso della persona ritratta), sui diritti dei minori (art. 16 Convenzione sui diritti del fanciullo 1989) e sui doveri genitoriali (art. 147 e 357 cod. civ.). Il procedimento ha portato, oltre alla richiesta di rimozione di quanto pubblicato in precedenza, anche al divieto di diffondere ulteriori informazioni personali del minore (sia in forma di immagine che scritta) con tanto di sanzione pecuniaria di 10 mila euro in caso di inottemperanza all’ordine di rimozione o al divieto di pubblicazione. Ciò ha creato un importante precedente nella giurisprudenza italiana.

Un secondo caso è accaduto invece in Austria, dove una ragazza di 18 anni ha denunciato i genitori dopo il loro rifiuto a rimuovere sue foto personali e intime di quando era bambina dalle loro pagine social. La ragazza si è accorta di quelle immagini (in cui era anche nuda sul lettino o seduta sul vasino) quando a 14 anni aprì anche lei un profilo su Facebook e si accorse che erano visibili a circa 700 contatti, amici dei rispettivi profili della coppia. La richiesta della ragazza di eliminare le immagini dai profili venne ignorata, così al compimento dei 18 anni di età decise di rivolgersi ad un avvocato, dichiarando: “Sono estremamente arrabbiata e furiosa. Ne ho abbastanza di non essere presa sul serio dai miei genitori. Non vedo altra possibilità, ora che ho 18 anni, di citarli in giudizio”.

La crescente attenzione sul tema dei diritti dei minori legata alla dilagante pedo-pornografia online ha portato molti avvocati a specializzarsi in questo ambito giuridico e a difendere molti ragazzi minori o appena maggiorenni dall’abuso della loro immagine diffusa su internet, andando a ledere la loro privacy e la loro dignità in un’età in cui sono molto a rischio sia dal punto di vista individuale, sia da quello dell’utilizzo che si può fare delle loro immagini in Rete.

Questa esigenza di gestione delle informazioni dei figli su internet sta entrando inoltre nelle pratiche di separazione in cui i genitori possono mettersi d’accordo sull’utilizzo delle foto dei figli minorenni nei loro profili Social, sia riguardo la pubblicazione di foto che sull’utilizzo di esse come immagini del profilo di Whatsapp. Dunque in caso di separazione giudiziale il giudice potrà far valere i diritti dei figli minori, tutelandone la riservatezza. In ogni caso il tribunale potrà ordinare l’eliminazione delle foto o la disattivazione del profilo del minore, sostituendosi al genitore che ha dimostrato di trascurare i profili educativi legati al corretto utilizzo delle nuove tecnologie.

Nel 2014 la Cassazione infatti aveva definito i social come “luoghi aperti al pubblico, potenzialmente pregiudizievoli per i minori che potrebbero essere taggati o avvicinati da malintenzionati” (sentenza 37596). Bisognerebbe spiegarlo a certe madri o padri che, nel nome di un narcisismo 2.0, espongono alla mercé della Rete i loro figli minorenni. E fa molto riflettere il fatto che ci sia la necessità da parte dei tribunali di vicariare la responsabilità genitoriale a causa di un’incapacità dei veri genitori di difendere i diritti e la sicurezza dei loro figli.



VIOLENZA SULLE DONNE E FEMMINICIDIO: COME PREVENIRE E PROTEGGERE CHI DENUNCIA


Secondo l’ultimo Rapporto Eures sui femminicidi nel 2017 sono state 114 le donne vittime di omicidio e il 77% è avvenuto in ambito familiare (la maggior parte di questi attuati dai partner o ex compagni). Col termine “femminicidio” si indica una forma di violenza esercitata sistematicamente su una donna che degenera nell’uccisione della stessa, dovuta ad una reazione impulsiva maschile e ad una ideologia di matrice patriarcale che considera la donna come oggetto di proprietà dell’uomo. Si calcola che 1 omicidio su 4 in Italia sia classificato come femminicidio.

I dati su questo fenomeno non possono dunque essere ignorati. Sono state più di 3000 le denunce per atti di violenza sessuale a fronte di un aumento delle denunce per stalking del 40% rispetto agli anni passati (da 9000 nel 2011 a 13000 circa nell’ultimo anno). I dati più inquietanti però riguardano gli aspetti processuali: 1 denuncia su 4 per maltrattamento o molestie nei confronti di donne viene archiviata e la percentuale di assoluzioni non è omogenea; infatti al sud sono molte di più che al nord (per esempio a Trento il 12% dei processi di questo tipo finisce con l’assoluzione, a Caltanissetta addirittura il 43%). Tutto questo deve far riflettere.

Viene calcolato inoltre che 7 milioni di italiane (1 donna su 3) siano state vittima di violenza fisica e sessuale o di molestie, ma solo l’11% di esse si rivolge a centri anti-violenza. Inoltre le poche denunce spesso rimangono inascoltate come dimostra il fatto che la metà delle donne uccise dal partner o da un familiare aveva già sporto denuncia per violenze subite.

Come fare dunque a prevenire l’aumento delle vittime di un fenomeno che non accenna a diminuire?

Occorre innanzitutto comprendere le cause della mancata denuncia, evitando di colpevolizzare le vittime e provando ad analizzare la cultura nella quale si sviluppa questo fenomeno.

Le donne soggette a questi maltrattamenti si trovano spesso in uno stato relazionale di dipendenza psicologica dal partner, solitamente un soggetto con tratti narcisistici ed impulsivi e con una concezione possessiva della loro compagna e degli eventuali figli. Queste donne tendono a giustificare il comportamento del compagno spinte da un sentimento di protezione che le porta a vedere solo la parte sofferente dell’uomo e a sottovalutare il comportamento violento, illudendosi di poterlo controllare. La sfiducia in se stesse, la solitudine, la paura in cui vivono a seguito delle azioni di minaccia e di ricatto dell’uomo le portano a restare in una situazione passiva. Alcune di loro sanno di essere assoggettate dalla personalità forte del compagno e si auto-definiscono “deboli” o “vittime della sua personalità”, ma finiscono per convincersi di essere “ancora innamorate di lui” perdonano qualsiasi azione violenta, fisica e verbale subita. La capacità di manipolazione di un uomo di questo tipo riesce spesso a convincere le ragazze che cambierà, che non le picchierà più, che vuole farsi aiutare, ma il risultato rimane sempre lo stesso.

Come il caso di Lidia, donna palermitana massacrata dal compagno Isidoro a colpi di padella di ghisa, di forbici e di botte, scampata per miracolo alla morte in seguito ad un’ aggressione avvenuta una notte del 2012 in cui, per l’ennesima volta, lei lo aveva perdonato e accolto nuovamente in casa sua, nonostante i ripetuti episodi di violenza ai suoi danni.

La cultura maschilista conduce all’idea che la donna sia di proprietà dell’uomo e che sia lui a decidere come debba comportarsi, chi frequentare, a chi scrivere e se uscire di casa. Una cultura che si rispecchia più o meno consapevolmente anche tra chi dovrebbe occuparsi di proteggere queste donne nel momento in cui denunciano una violenza, delle minacce o delle molestie.

Infatti molte denunce frequentemente non vengono prese in considerazione nonostante i precedenti di violenze e le continue lamentele di stalking. Oltre alla carenza di procedure tutelanti e all’incompetenza di chi prende in carico la denuncia, agisce anche una sottovalutazione dei casi specifici dovuta a questa cultura pregiudizievole verso le donne.

Come nel caso di Anna Rosa, donna di Matera uccisa dall’ex compagno di fronte al figlio, nonostante le sue ripetute chiamate a polizia e carabinieri. Proprio qualche ora prima di essere denunciata aveva denunciato il fatto che quell’uomo la stesse inseguendo nonostante un ordine di restrizione a 300 metri da lei. Gli agenti arrivarono solo a delitto compiuto, dopo diverse altre chiamate da parte del figlio che stava assistendo alla scena (gli audio delle telefonate sono stati diffusi dalle Iene in un loro servizio su questo caso). Il muro opposto all’empatia da parte degli agenti che quel giorno risposero al telefono lascia basiti: l’assassino era già stato condannato per tentato omicidio qualche anno prima, sempre ai danni di Anna Rosa, quindi avrebbe dovuto risultare evidente la situazione di estremo pericolo che la donna stava correndo al momento delle prime chiamate al 113. Una maggiore attenzione e un pronto intervento della polizia fin dalla prima chiamata avrebbero sicuramente evitato la morte della donna, una morte chiaramente preannunciata.

Così come sarebbe stato essenziale un intervento dei carabinieri di Latina nei confronti di Luigi Capasso, il carabiniere che poche settimane fa si è tolto la vita dopo aver sparato alla moglie Antonietta (ferendola gravemente) e alle due figlie (uccidendole). Anche in questo caso Antonietta aveva denunciato le violenze ai colleghi e ai superiori del marito da cui si stava separando, ma la questura fece sapere che la situazione non rappresentava una situazione di minaccia o di pericolo. Per questo Capasso aveva ancora con sé la pistola di ordinanza.

Ed è proprio il momento post-denuncia quello più delicato e pericoloso per queste donne, infatti esse faticano a denunciare sia per il legame distorto con i loro carnefici sia per la paura di essere ulteriormente perseguitate o peggio uccise dall’ex. Le stesse sopravvissute ad aggressioni violente dei loro partner evidenziano il fatto che non ci sia nessuno a proteggerle una volta denunciate le violenze subite: infatti una volta in libertà l’uomo potrebbe avvicinarle in qualsiasi momento e far loro del male.



La giudice Paola Di Nicola ha rimarcato il fatto che la responsabilità di tutto ciò è sia socio-culturale che giuridica. Innanzitutto bisognerebbe formare chi viene a contatto professionalmente con queste situazioni per imparare ad identificare i “reati-spia”, cioè i primi segni di violenza, anche non volutamente denunciati, per far sì che possa avviarsi un’indagine tenendo conto di altri elementi indiziari (precedenti dell’uomo, testimonianze, ecc…). Inoltre gli ordini restrittivi e le misure di carcerazione cautelare non sono abbastanza severe, tanto che molti femminicidi avvengono nonostante condanne già emesse. Spiega la Di Nicola: “Abbiamo tra le leggi più avanzate in Europa ma non abbiamo un codice unico che le metta insieme per tutelare le donne vittime di violenza”. Mancano una serie di direttive che permetterebbero a infermieri, medici, forze dell’Ordine, servizi sociali e magistrati di comunicare tra loro costantemente, evitando di trascurare qualsiasi segno di possibile maltrattamento sin dall’inizio, e tutelando maggiormente l’incolumità delle vittime. Inoltre andrebbe avviata un’azione di prevenzione primaria fin dalla scuola nei confronti di tutta la popolazione, educando al rispetto per gli altri, alla parità di genere, a cosa sia la violenza e a come prevenirla. Solo così le donne potrebbero aumentare la fiducia nelle istituzioni e potrebbero essere aiutate a comprendere la gravità di certi gesti ricevuti, venendo così invogliate a denunciare di più e sentendosi maggiormente protette.

Oggi le donne che denunciano non ricevono tutele di alcun tipo: in seguito alla denuncia, le donne vengono lasciate in balia di uomini pieni di rabbia per la separazione, per il divieto di vedere i figli o per i mesi di carcere che hanno dovuto scontare. Così commenta la sua situazione Lidia Vivoli, la palermitana scampata alla morte e che ora ha 2 figli con un altro uomo: “Quale può essere la colpa di una donna per essersi innamorata dell’uomo sbagliato? Io so che lui mi ucciderà non appena uscirà di galera, io mi sento già morta. Nessuno mi protegge.”

ABUSO SESSUALE, PERIZIE, CTP, DIRITTI DEI BAMBINI

VISITA IL SITO: http://www.cshg.it/consulenze-tecniche-di-parte 


Che Cos’è la consulenza tecnica?

Uno degli ambiti applicativi della disciplina psicologica è la consulenza tecnica che può essere prestata nei riguardi del Giudice o di una parte nel corso di un procedimento giudiziario.
Tecnicamente, si parla di “Consulenza Tecnica” nel caso in cui lo psicologo operi in ambito civile, e di “Perizia” nel caso in cui operi in ambito penale. Lo psicologo giuridico viene quindi nominato dal Giudice, e viene indicato come Perito in ambito penale e come “Consulente Tecnico d’Ufficio” (CTU) in ambito civile.
Se nominato non dal Giudice, ma dal privato cittadino, mentre sia nel civile che nel penale, l’esperto è indicato come “Consulente Tecnico di Parte” (CTP).
In qualità di Perito o di Consulente Tecnico di Ufficio lo psicologo ha il compito di acquisire informazioni sulle condizioni psicologiche e sulle risorse personali, familiari, sociali e ambientali del soggetto o dei soggetti, al fine di fornire al Giudice elementi ulteriori su cui basare la propria decisione.
Ciascuna delle parti in causa, una volta nominato dal Giudice un CTU, ha diritto di nominare un proprio Consulente Tecnico di Parte, il cui ruolo è quello di assistere il cliente valutando la correttezza metodologica dell’operato del CTU, producendo ulteriore documentazione clinica ed elaborando osservazioni critiche da porgere all’attenzione del Giudice.

Che cos’è la Consulenza Tecnica di Parte (CTP)

In un procedimento giudiziario (sia civile che penale), ognuna delle parti può avvalersi di un consulente (CTP), nominato dall’avvocato.
L’articolo n° 201 del Codice di Procedura Civile dispone che, con lo stesso provvedimento di nomina del Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU), il giudice assegna alle parti il termine per la nomina del loro Consulente Tecnico di Parte (CTP).
Va ricordato che il Consulente Tecnico di Parte può essere nominato soltanto se il Giudice ha nominato un suo Consulente Tecnico d’Ufficio. Se il Giudice decide di non avvalersi di un suo consulente e dunque non nomina un CTU, qualunque delle parti in causa ha comunque la possibilità di produrre in causa perizie stragiudiziali redatte da un consulente tecnico a supporto di una delle parti.
La dichiarazione di nomina, viene effettuata dall’avvocato di una parte, indicando il nome e il recapito del Consulente Tecnico di Parte prescelto, in modo che il Cancelliere possa fare a sua volta le comunicazioni previste dalla Legge.

Differenze tra CTU e CTP

Il Consulente Tecnico di Parte (CTP) non deve necessariamente essere iscritto a particolari albi.
Se una delle parti è professionalmente competente in merito alla materia oggetto di consulenza tecnica, può egli stesso svolgere la funzione di consulente tecnico di parte nel proprio interesse.
Mentre il C.T.U. in sede di nomina deve prestare formale giuramento il Consulente Tecnico di Parte al contrario non deve fare alcun giuramento.
Il Consulente Tecnico di Parte assume una funzione di controllo tecnico sull’operato del consulente tecnico d’ufficio, cercando di dare ai fatti l’interpretazione maggiormente conveniente per il proprio cliente che lo ha scelto.
Il CTP risponde solo al suo cliente del mandato ricevuto.

La Consulenza Tecnica in ambito civile

La richiesta di consulenze tecniche in ambito civile riguarda prevalentemente questioni di diritto di famiglia e di diritto del lavoro: lo psicologo è per lo più chiamato ad offrire le sue competenze in relazione all’affidamento dei figli in casi di separazione e divorzio, ad affidamenti extrafamiliari, alla valutazione dell’idoneità genitoriale, ma anche a questioni relative al risarcimento di danno psichico ed esistenziale ed a situazioni in cui si richiede la riattribuzione chirurgica del sesso.
Volendo scendere un po’ più nello specifico, generalmente nei casi di affido il giudice può chiedere al consulente psicologo una valutazione dell’idoneità genitoriale e/o un quadro globale delle dinamiche di coppia e di quelle tra genitori e figli; può necessitare inoltre di indicazioni circa eventuali percorsi da far intraprendere ai soggetti nel tentativo di far migliorare i loro rapporti o, ancora, di notizie circa il livello di benessere del minore, l’ambiente in cui vive o la volontà del minore stesso in merito al suo affidamento.

La Consulenza Tecnica in ambito penale

Per quanto concerne l’ambito penale, il lavoro dello psicologo giuridico è in questo caso inerente per lo più la valutazione della capacità di intendere e di volere del soggetto in questione e quindi l’imputabilità, la pericolosità sociale, la capacità di rendere testimonianza e l’attendibilità della stessa. Un intervento di questo tipo può essere richiesto anche in ambito penale minorile, nei casi di maltrattamento ed abuso ad esempio; sempre per i minori può essere poi richiesta una consulenza in una prospettiva futura, con l’obiettivo di valutare le misure penali più adeguate da prendere, il reinserimento del minore in società o eventuali interventi preventivi.

Chi Siamo

Il Centro Studi Hansel e Gretel lavora in ambito forense quotidianamente, grazie a professionisti formati e specializzati.



Claudio FOTI

psicoterapeuta, psicodrammatista,  fondatore e direttore scientifico del Centro Studi Hansel e Gretel, ha elaborato una metodologia formativa fondata sul rispetto di tutte  le emozioni e delle emozioni di tutti, dirige Master con la Facoltà Pontifica Auxilium in diverse città italiane,  supervisore di équipe psicosociali in contesti pubblici e privati, direttore di progetti di trattamento di sex offenders, autore di pubblicazioni, giudice onorario presso il TM di Torino dal 1980 al 1993, già componente dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia e l’adolescenza

Lorenza CHINAGLIA 

laureata in Psicologia Criminologica e Forense. È interessata all’ambito evolutivo ed in particolar modo al lavoro con minori che vivono in situazioni pregiudizievoli. Di qui la scelta di un  percorso di studi che integrasse l’ambito psicologico con quello giuridico. Svolge il ruolo di collaboratrice del Centro Studi Hansel e Gretel, scelto per convogliare nella sua pratica i miei interessi. Membro del direttivo nazionale di Rompere il silenzio. La voce dei bambini
Sarah TESTA, psicologa e psicoterapeuta. Tirocinio prolungato per 7 anni nel servizio di NPI di Nichelino. Tirocinio di specialità presso il reparto di psico-oncologia dell’ospedale Molinette (psicoterapie con donne affette da tumore alla mammella). Tre anni fa con grande entusiasmo è entrata nell’equipe del CSHG. Si occupa sia di psicoterapie per eventi traumatici, sia di progetti nelle scuole (appassionata di educazione all’affettività e alla sessualità). Da qualche mese lavora presso il Centro La Cura, di Bibbiano. Ha frequentato il master in Sviluppo e gestione delle risorse emotive (2016) e il master sulla cura del trauma.
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SETTE SATANICHE E ABUSI SU MINORI: L’OMERTÀ DEVE FINIRE


Finalmente il silenzio sulle sette sataniche e sugli abusi rituali a danno di minori si rompe e qualcuno ne parla. A farlo è Don Aldo Buonaiuto, esorcista e coordinatore del numero anti sette: “troppa omertà sugli abusi rituali. Chi sa parli. Il contrasto delle istituzioni alle violenze rituali non funziona, mancano formazione e coordinamento tra i vari operatori”.


Don Buonaiuto, in un’intervista di Giacomo Galeazzi, mette in luce come il fenomeno delle sette sataniche in Italia sia allarmante: “E’ molto più diffuso di quanto sono riuscite finora a portare a galla le forze dell’ordine e la magistratura” ma identificarle non è semplice.
Sono decenni che, in tutto il mondo, bambini di diverse età e diverse provenienze narrano di aver subito abusi e violenze all’interno di rituali satanici: tuttavia, soprattutto in Italia, non solo non si riesce a credere alle loro parole ma le loro storie non riescono nemmeno a trovare ascolto.
Perché è così difficile credere ai bambini abusati?
“Verificare le loro esternazioni è straziante – afferma don Bonaiuto –  I loro racconti sono talmente orribili che spesso chi raccoglie le loro parole ha la tendenza a non volerci credere. Per autodifesa inconscia si è portati a non credere a simili aberrazioni. Ricevere i racconti dei bambini abusati è un dramma. Siamo molto indietro […] bisogna fare molto di più. Formazione e coordinamenti non sono adeguati alla gravità dell’emergenza”.  La conseguenza di queste “inconsce difese” degli adulti porta a generare silenzio e solitudine attorno a quei bambini che hanno vissuto episodi così dolorosi che si porteranno con sé per il resto della propria esistenza. A causa dell’incredulità che si genera nella società di fronte a questi drammi i bambini vengono ritenuti inattendibili, non credibili, bugiardi persino nelle aule di tribunale. Come ha affermato Claudio Foti “i bambini sono testimoni sconvolti, fragilissimi, facilmente non credibili e quindi indifendibili: l’impunità dei colpevoli è assicurata. In sintesi, sappiamo che il fenomeno c’è, ne abbiamo le prove documentali e ne vediamo i danni nell’attività clinica. Eppure ciò che è inimmaginabile vince sulla realtà e il riconoscimento sociale è per ora impensabile” (cfr. l’inchiesta di Andrea Malaguti “I bambini abusati e le sette sataniche”. 
L’incredulità alimenta il rifiuto sociale ed istituzionale di riconoscere l’esistenza del problema. L’incredulità favorisce la difficoltà di acquisire informazioni sociali sulla consistenza del fenomeno e la difficoltà di acquisire informazioni impedisce di attivare una responsabilità istituzionale  nel contrasto e nella repressione del fenomeno.
Continua don Bonaiuto: “C’è una diffusa mentalità che porta a banalizzare i contesti rituali. Incidono l’ignoranza e una forma di difesa nel non voler accettare che ci si possa organizzare e incontrare per raggiungere obiettivi aberranti utilizzando innocenti. È una realtà disumana, orrenda spietata che anche le forze dell’ordine e la magistratura fanno fatica ad accettare. Sono crimini così pesanti che rendere difficile persino chiamarli per nome. E invece non deve esistere alcuna giustificazione. Bisogna parlare e uscire da un sistema omertoso. Sono reati da perseguire senza coprire nessuno. Chi sa deve parlare. Sono centinaia le famiglie distrutte dagli abusi rituali delle sette sataniche”.
Eppure nessuno parla.
“C’è l’urgenza di soccorrere innocenti persi nei meandri misteriosi, anomali, inimmaginabili. I guri, i leader delle sette sataniche, sono persone insospettabili che di giorno hanno vite stimabili e rispettabili” e, forse, questo rende il tutto ancor meno credibile, ancor meno pensabile. Chi sarebbe disposto a credere che il proprio vicino di casa, di giorno insegnante in una scuola elementare, di notte si trasformi in un “sacerdote del male” pronto a mettere in scena i più macabri riti sui piccoli corpi di bambini innocenti?
E cosa ne sarà, poi, di quelle piccole vittime? “Non saranno mai risarciti né compresi interamente. Le ferite rimangono per tutta la vita e non ci sarò neppure un risarcimento morale perché nessuno ne parlerà mai abbastanza. Sono persone che restano isolate, invisibili. Sono famiglie distrutte, isolate e abbandonate anche dalle istituzioni che non comprendono o non hanno strumenti per agire”.
Le ferite che tutto ciò crea sono profonde e irreversibili, tanto più quanto il responsabile di esse ha con la vittima un rapporto di fiducia o un dovere di cura nei suoi confronti: “Chi è stato tradito e abusato da una persona cara, cioè da chi doveva garantire sicurezza, vive sempre nell’insicurezza. È la sua caratteristica. Continui stati di ansia, incubi, paura di entrare in realtà aggregative e associative. Sono persone condannate a vivere nel terrore”.
E a condannarle siamo noi, con la nostra incapacità di ascoltare le loro parole perché fanno male, perché narrano episodi che non possiamo contenere nella nostra mente senza farci travolgere da tutto il male che portano con sè: eppure la vera ferita la portano addosso le vittime e il coraggio che ci viene chiesto per portare questo fenomeno alla luce non solo è irrisorio in confronto al loro, ma è decisamente dovuto.

Fonti: