Bambini e adolescenti finiscono in gruppi dove subiscono abusi di ogni tipo, come dimostrano le drammatiche testimonianze che abbiamo raccolto. Ma quasi nessuno parla e quando lo fa di norma non viene creduto. Pubblichiamo un estratto dell'inchiesta uscita su Famiglia Cristiana n.26 del 1°luglio 2018.
Don Aldo Buonaiuto e il vicequestore Francesca Romana Capaldo sono in prima linea nella lotta contro le sette. «Le indagini sono sempre molto difficili, ma noi siamo sempre più preparati. Il contributo di chi sa qualcosa resta però fondamentale».
Le due storie che leggerete sono molto edulcorate. Non solo per preservare la riservatezza di chi ce le ha raccontate, ma perché le vicende vissute dai minori finiti nell’abisso delle sette sono così sconvolgenti che conoscerle fino in fondo creerebbe solo repulsione. D’altra parte è proprio questa indicibilità che fa sì che gran parte di questi casi non venga mai alla luce, anche se sono molto più frequenti di quanto si pensi.
«La cultura prevalente è negazionista», spiega lo psicoterapeuta Claudio Foti, già giudice onorario al Tribunale dei minori di Torino, direttore del Centro studi Hansel e Gretel, collaboratore del Gruppo Abele e coautore del recente saggio Curare i bambini abusati. «La realtà che questi piccoli raccontano o disegnano è così raccapricciante che gli operatori, dalle forze dell’ordine ai magistrati, agli stessi psicologi, fanno molta fatica ad accettarla». Eppure, proprio qui in Italia, in provincia di Varese, ha operato tra il 1998 e il 2004 una delle sette più spietate, le Bestie di Satana, responsabile della morte di quattro ragazzi, tra cui il sedicenne Fabio Tollis. Due persone seguite dal dottor Foti, sotto la garanzia dell’anonimato, hanno accettato di raccontarci la loro storia, entrambe motivate dal desiderio di rompere questo muro di omertà e di incredulità.
Giuseppe, papà di un bambino finito in una setta, di spalle, con il dottor Claudio Foti
Un padre separato racconta come il suo bambino sia finito in una setta. E la sua battaglia per tirarlo fuori dall’incubo.
Giuseppe arriva dal Veneto nella sede del Centro studi Hansel e Gretel, alle porte di Torino. È abituato a viaggiare perché fa il camionista. «Ora sono tranquillo perché so che Matteo è a casa, al sicuro. Ma mi tormenta sempre il pensiero di non essere stato presente quando aveva bisogno di me…».
Il dottor Foti gli porta un caffè e lui inizia il suo racconto della separazione dalla moglie avvenuta nel 2013, quando il bambino aveva cinque anni. «I giudici lo affidarono a lei, che però fece di tutto per non farmelo vedere. Così, anche a causa del mio lavoro, solo dopo sei mesi sono riuscito ad averlo un weekend tutto per me. Al momento di tornare dalla mamma, si mise a piangere disperato perché non voleva lasciarmi. Diceva che io lo coccolavo di più. Ero dispiaciuto, ma ovviamente non potevo accontentarlo. Solo che, da allora, ogni volta al ritorno la scena si ripeteva».
Al momento delle vacanze estive Giuseppe ottiene di stare con Matteo per 15 giorni: «Andammo da mia madre in Sicilia e un giorno lui le raccontò di strani balletti che le faceva fare la mamma, in cui lui doveva abbassarsi le mutandine alla presenza di uomini che poi lo toccavano». Sconvolto, Giuseppe torna al suo paese e va dai carabinieri. «Il maresciallo mi ascoltò, mi disse che avrebbe convocato mia moglie per interrogarla e che poi tutto sarebbe passato alla magistratura». Da quel momento, però, non accade nulla. «Matteo continuò a stare con sua madre. Io ero preoccupato, ma ripetevo anche che forse si era inventato tutto per poter stare con me. O che la mamma gli aveva fatto vedere un film dove c’era una scena di ballo paurosa e lui credeva di averla vissuta davvero...».
Arriva così l’estate del 2015 e Matteo torna con il papà dalla nonna. «Quando la sera la mamma lo chiamava, scoppiava a piangere. Finché, il giorno prima della partenza, non ce l’ha fatta più..». Giuseppe fa un lungo sospiro e riprende: «Ci ha raccontato che ogni tanto con un furgone veniva portato con altri bambini in una casa buia, illuminata solo da alcune candele nere. Lì c’erano degli uomini con delle maschere da lupo. Loro su un tavolo dovevano ballare mentre quegli uomini facevano delle cose strane prima alla mamma e poi ai bambini, lui compreso. Mia madre a quel punto ha avuto la prontezza di chiedergli se riusciva a disegnare quello che aveva detto».
Giuseppe tira fuori un foglio che a vederlo lascia sgomenti. Matteo, con una lucidità impressionante, ha raffigurato l’orrore che ha subìto, indicando anche i nomi dei bambini e delle bambine che erano con lui. In cima al foglio c’è la madre, pure lei mascherata. Più in basso, c’è lui che piange. In fondo, c’è una frase che strazia il cuore: «Avevo quattro anni».
Giuseppe riprende il suo racconto: «Tornati in Veneto, con Matteo siamo subito stati ricevuti dal pubblico ministero, alla presenza di una psicologa. Matteo ha ripetuto tutto, ha mostrato il disegno e alla fine il Pm ha emesso un provvedimento di affido esclusivo a me. La madre avrebbe potuto vederlo solo in una struttura protetta, con i tempi indicati dal bambino, che però si è sempre rifiutato». Nel frattempo, Matteo dalla psicologa continua a parlare e a disegnare. Giuseppe tira fuori un altro foglio. Anche questo descrive con precisione sconcertante cosa avveniva all’interno della setta dove la madre lo aveva introdotto.
Spicca un particolare: un uomo che riprende tutto con una telecamera. «Tra gli scopi di queste organizzazioni c’è il tornaconto economico che deriva dalla diffusione di materiale pedopornografico», spiega il dottor Foti. Eppure presto Giuseppe comprende che la psicologa ha un orientamento preciso: «Capivo che non mirava a indagare su cosa era successo al bambino, ma a fargli capire che la mamma in fondo gli voleva bene. Con me è arrivata a insinuare che forse i disegni erano il frutto di un mio condizionamento per metterla in cattiva luce. Allo stesso tempo, però, ha stabilito che mia moglie ha una personalità gravemente disturbata. Alla fine ha prodotto una relazione sulla base della quale il magistrato ha deciso di archiviare il caso. Con il mio legale ci siamo opposti».
«Questo racconto presenta due elementi tipici di questi casi», commenta il dottor Foti. «Da un lato le indagini sono difficilissime perché le sette hanno una grande capacità di nascondere le tracce della loro attività; dall’altro c’è il totem della bigenitorialità dominante nella psicologia forense, secondo il quale mantenere un rapporto sia con la mamma che con il papà è un valore superiore a ogni altro».
E così, dopo oltre tre anni Matteo ha da poco rivisto in una struttura protetta la madre: «È tornato a casa piangendo e mi ha detto che “la signora” – non l’ha chiamata “mamma” – lo voleva abbracciare, ma lui non ha voluto. Il grande errore che con il mio avvocato abbiamo commesso è stato non aver prodotto una perizia di parte, oltre a quella della psicologa incaricata dalla Procura. Ma ora c’è il dottor Foti».
Il quale precisa: «Noi ci batteremo per far riaprire il caso, prima di tutto per Matteo. La mente umana aspira sempre alla verità, tanto più quella di un bambino. Se questo non accadrà, Matteo rischia di perdere per sempre la fiducia negli altri».
Poi Foti si rivolge a Giuseppe: «So che per lei è dura sentirselo dire, ma lei è stato fortunato perché suo figlio è un bambino molto forte, che ha trovato il coraggio di parlare. E poi ha trovato un maresciallo, un magistrato e una psicologa che almeno hanno avuto il forte dubbio che i racconti e i disegni fossero veri e quindi Matteo è stato affidato a lei. Di norma, non accade così: i bambini non parlano e quando lo fanno non vengono creduti».
Il quadro Lo sguardo sull'orrore della pittrice Eva Strazzullo, ispirato alla sua esperienza vissuta da piccola in una setta satanica
Oggi è una donna sposata con figli. Ma la terribile esperienza vissuta da piccola continua a condizionare la sua vita
Appena incontriamo Lorenza, le porgiamo la mano per stringere la sua. Ma lei fa finta di niente. Dopo capiremo perché. Per ora, si siede mantenendo una certa distanza e dice solo: «Mi viene da piangere prima ancora di iniziare». Accanto a lei c’è lo psicoterapeuta Claudio Foti che con una collega la segue da quasi dieci anni: «Lorenza è una sopravvissuta. Sta compiendo un percorso molto coraggioso. In casi simili, di solito le persone si perdono per sempre».
Siamo a casa sua, in una città pugliese. Lorenza inizia il suo racconto: «Sono nata da una relazione extraconiugale di mia madre, che aveva già due figli. Lei era sempre concentrata su sé stessa, mentre per me c’erano solo botte. La vedevo come la matrigna di Biancaneve».
A 11 anni, la madre le presenta un uomo, dicendole che è suo zio. «Era molto conosciuto in città. Abbiamo iniziato a vederci spesso, finché un giorno mi ha detto: “Se ancora non l’hai capito, io sono tuo padre”. Io mi misi a piangere e quando ci lasciò a casa, gli dissi per la prima volta: “Ciao, papà”». Un papà che però presto rivela il suo vero volto: «Mentre eravamo in macchina noi tre, iniziò a toccarmi e mia madre non disse nulla ». È solo l’inizio: «Da quel momento ogni sabato mi veniva a prendere e ogni incontro si concludeva con un abuso. E quando si arrabbiava, faceva un gesto che mi terrorizzava: univa le dita delle mani a formare una croce e poi la rovesciava».
Questo rapporto va avanti dagli 11 ai 17 anni. «Dopo iniziammo a vederci sempre meno, perché io ero cresciuta e lui si era ammalato di cuore. Finché, dopo qualche anno, morì». Lorenza, così, inizia faticosamente a costruirsi una vita. Trova un lavoro, si sposa e ha due bambini. Ma capisce che i conti con il suo passato non sono chiusi, anzi. «Non sapevo spiegarmi perché mentre con mia figlia ero affettuosa, con mio figlio no: mi costava fatica avere un contatto fisico con lui. Allora iniziai a cercare uno psicoterapeuta».
Entra in scena così il dottor Foti. Grazie a lui, Lorenza ha scoperto che l’abisso di orrore in cui era cresciuta ne nascondeva un altro, ancora più atroce: «Pian piano nella mia mente sono emersi delle immagini di quando avevo 4 o 5 anni. Ero con mio padre in un palazzo antico. Entravamo in un salone con un gruppo di uomini. E dopo un po’ arrivava il loro capo, io lo chiamavo “il cerimoniere”. Portava un vestito nero con dei bottoncini rossi. Mi faceva tanta paura...». Lo psichiatra interviene per chiederle come sta, per domandarle se se la sente di proseguire.
Allora Lorenza chiude gli occhi e quello che accade mette davvero i brividi. La sua voce cambia, diventa quella di una bambina: nella sua mente è tornata a essere una piccola indifesa, sprofondata all’inferno. «Accendevano delle candele e vedevo altri bambini come me, solo che stavano chiusi in una specie di gabbia. Io cercavo di prendere la mano di mio padre, ma lui non voleva e mi rimproverava: “Non devi avere paura!”».
Dalla mente di Lorenza affiora un altro ricordo: «C’era un altare e un bambino con i capelli corti stava disteso lì sopra. Gli uomini passavano intorno, sentivo dei rumori e dopo ogni rumore il bambino urlava. Anche mio padre si è avvicinato e così ho notato che tutti nelle mani avevano come degli artigli che usavano per graffiarlo. Mio padre ha costretto anche me a fargli male. Poi tutti si passavano un calice che conteneva un liquido scuro e lo bevevano».
Il dottor Foti interviene di nuovo: «Ciò che Lorenza racconta è tipico delle sette sataniche: c’è il rovesciamento della Comunione cristiana. Al posto del corpo e del sangue di Gesù c’è il corpo di un bambino inerme su cui esercitare violenza. E le vittime non possono limitarsi ad assistere al rito, ma devono parteciparvi per poter diventare a loro volta devoti di Satana». Lorenza non ha subìto la stessa sorte del bambino. Ma sull’altare c’è stata pure lei: «Ci legavano e poi a turno venivamo violentati. Non bisognava mai piangere, perché altrimenti si scatenavano ancora di più, specie il cerimoniere. Allora in quei momenti per resistere immaginavo di essere da un’altra parte o fissavo alcuni buchi sul muro…».
Basta così. Lentamente, Lorenza riapre gli occhi e ascolta il dottor Foti: «Cosa fa un essere umano, e a maggior ragione un bambino, quando subisce qualcosa che oltrepassa la capacità di sopportazione? Si dissocia. Una parte di sé resta legata a quel ricordo terribile, ma un’altra ha bisogno di distanziarsi per riuscire a sopravvivere. Grazie a questa parte dissociata, Lorenza non ha riconosciuto suo padre quando si è rifatto vivo quando aveva 11 anni». «Dai miei ricordi, credo di essere stata nella setta per almeno 3 anni», aggiunge lei.
Adesso va molto meglio, tranne nei periodi delle principali feste religiose: «Specie durante la Quaresima, mi viene di tutto: problemi ai reni, agli occhi, coliche. Passata la Pasqua, sto benissimo». «Gli incontri della setta avvenivano proprio in quei giorni e quindi in lei scatta una riattivazione traumatica», spiega lo psichiatra.
Lorenza non ha denunciato quanto ha subìto perché suo padre ormai è morto e non vuole sconvolgere la vita ai familiari, a cui ha raccontato solo degli abusi subìti da lui e non della setta. «Ora so che anche prima di iniziare la psicoterapia sapevo dentro di me quello che mi era successo. Ma sentivo che non potevo parlare perché ero legata a un patto con la setta. E ho capito che il taglio profondo che ho sulla mano è il simbolo di questo patto».
E aggiunge: «Ho accettato di parlare con voi per un solo motivo: chi è vittima di una setta o sa qualcosa, vada subito dalla polizia».
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