mercoledì 6 marzo 2019

VIOLENZA SULLE DONNE E FEMMINICIDIO: COME PREVENIRE E PROTEGGERE CHI DENUNCIA


Secondo l’ultimo Rapporto Eures sui femminicidi nel 2017 sono state 114 le donne vittime di omicidio e il 77% è avvenuto in ambito familiare (la maggior parte di questi attuati dai partner o ex compagni). Col termine “femminicidio” si indica una forma di violenza esercitata sistematicamente su una donna che degenera nell’uccisione della stessa, dovuta ad una reazione impulsiva maschile e ad una ideologia di matrice patriarcale che considera la donna come oggetto di proprietà dell’uomo. Si calcola che 1 omicidio su 4 in Italia sia classificato come femminicidio.

I dati su questo fenomeno non possono dunque essere ignorati. Sono state più di 3000 le denunce per atti di violenza sessuale a fronte di un aumento delle denunce per stalking del 40% rispetto agli anni passati (da 9000 nel 2011 a 13000 circa nell’ultimo anno). I dati più inquietanti però riguardano gli aspetti processuali: 1 denuncia su 4 per maltrattamento o molestie nei confronti di donne viene archiviata e la percentuale di assoluzioni non è omogenea; infatti al sud sono molte di più che al nord (per esempio a Trento il 12% dei processi di questo tipo finisce con l’assoluzione, a Caltanissetta addirittura il 43%). Tutto questo deve far riflettere.

Viene calcolato inoltre che 7 milioni di italiane (1 donna su 3) siano state vittima di violenza fisica e sessuale o di molestie, ma solo l’11% di esse si rivolge a centri anti-violenza. Inoltre le poche denunce spesso rimangono inascoltate come dimostra il fatto che la metà delle donne uccise dal partner o da un familiare aveva già sporto denuncia per violenze subite.

Come fare dunque a prevenire l’aumento delle vittime di un fenomeno che non accenna a diminuire?

Occorre innanzitutto comprendere le cause della mancata denuncia, evitando di colpevolizzare le vittime e provando ad analizzare la cultura nella quale si sviluppa questo fenomeno.

Le donne soggette a questi maltrattamenti si trovano spesso in uno stato relazionale di dipendenza psicologica dal partner, solitamente un soggetto con tratti narcisistici ed impulsivi e con una concezione possessiva della loro compagna e degli eventuali figli. Queste donne tendono a giustificare il comportamento del compagno spinte da un sentimento di protezione che le porta a vedere solo la parte sofferente dell’uomo e a sottovalutare il comportamento violento, illudendosi di poterlo controllare. La sfiducia in se stesse, la solitudine, la paura in cui vivono a seguito delle azioni di minaccia e di ricatto dell’uomo le portano a restare in una situazione passiva. Alcune di loro sanno di essere assoggettate dalla personalità forte del compagno e si auto-definiscono “deboli” o “vittime della sua personalità”, ma finiscono per convincersi di essere “ancora innamorate di lui” perdonano qualsiasi azione violenta, fisica e verbale subita. La capacità di manipolazione di un uomo di questo tipo riesce spesso a convincere le ragazze che cambierà, che non le picchierà più, che vuole farsi aiutare, ma il risultato rimane sempre lo stesso.

Come il caso di Lidia, donna palermitana massacrata dal compagno Isidoro a colpi di padella di ghisa, di forbici e di botte, scampata per miracolo alla morte in seguito ad un’ aggressione avvenuta una notte del 2012 in cui, per l’ennesima volta, lei lo aveva perdonato e accolto nuovamente in casa sua, nonostante i ripetuti episodi di violenza ai suoi danni.

La cultura maschilista conduce all’idea che la donna sia di proprietà dell’uomo e che sia lui a decidere come debba comportarsi, chi frequentare, a chi scrivere e se uscire di casa. Una cultura che si rispecchia più o meno consapevolmente anche tra chi dovrebbe occuparsi di proteggere queste donne nel momento in cui denunciano una violenza, delle minacce o delle molestie.

Infatti molte denunce frequentemente non vengono prese in considerazione nonostante i precedenti di violenze e le continue lamentele di stalking. Oltre alla carenza di procedure tutelanti e all’incompetenza di chi prende in carico la denuncia, agisce anche una sottovalutazione dei casi specifici dovuta a questa cultura pregiudizievole verso le donne.

Come nel caso di Anna Rosa, donna di Matera uccisa dall’ex compagno di fronte al figlio, nonostante le sue ripetute chiamate a polizia e carabinieri. Proprio qualche ora prima di essere denunciata aveva denunciato il fatto che quell’uomo la stesse inseguendo nonostante un ordine di restrizione a 300 metri da lei. Gli agenti arrivarono solo a delitto compiuto, dopo diverse altre chiamate da parte del figlio che stava assistendo alla scena (gli audio delle telefonate sono stati diffusi dalle Iene in un loro servizio su questo caso). Il muro opposto all’empatia da parte degli agenti che quel giorno risposero al telefono lascia basiti: l’assassino era già stato condannato per tentato omicidio qualche anno prima, sempre ai danni di Anna Rosa, quindi avrebbe dovuto risultare evidente la situazione di estremo pericolo che la donna stava correndo al momento delle prime chiamate al 113. Una maggiore attenzione e un pronto intervento della polizia fin dalla prima chiamata avrebbero sicuramente evitato la morte della donna, una morte chiaramente preannunciata.

Così come sarebbe stato essenziale un intervento dei carabinieri di Latina nei confronti di Luigi Capasso, il carabiniere che poche settimane fa si è tolto la vita dopo aver sparato alla moglie Antonietta (ferendola gravemente) e alle due figlie (uccidendole). Anche in questo caso Antonietta aveva denunciato le violenze ai colleghi e ai superiori del marito da cui si stava separando, ma la questura fece sapere che la situazione non rappresentava una situazione di minaccia o di pericolo. Per questo Capasso aveva ancora con sé la pistola di ordinanza.

Ed è proprio il momento post-denuncia quello più delicato e pericoloso per queste donne, infatti esse faticano a denunciare sia per il legame distorto con i loro carnefici sia per la paura di essere ulteriormente perseguitate o peggio uccise dall’ex. Le stesse sopravvissute ad aggressioni violente dei loro partner evidenziano il fatto che non ci sia nessuno a proteggerle una volta denunciate le violenze subite: infatti una volta in libertà l’uomo potrebbe avvicinarle in qualsiasi momento e far loro del male.



La giudice Paola Di Nicola ha rimarcato il fatto che la responsabilità di tutto ciò è sia socio-culturale che giuridica. Innanzitutto bisognerebbe formare chi viene a contatto professionalmente con queste situazioni per imparare ad identificare i “reati-spia”, cioè i primi segni di violenza, anche non volutamente denunciati, per far sì che possa avviarsi un’indagine tenendo conto di altri elementi indiziari (precedenti dell’uomo, testimonianze, ecc…). Inoltre gli ordini restrittivi e le misure di carcerazione cautelare non sono abbastanza severe, tanto che molti femminicidi avvengono nonostante condanne già emesse. Spiega la Di Nicola: “Abbiamo tra le leggi più avanzate in Europa ma non abbiamo un codice unico che le metta insieme per tutelare le donne vittime di violenza”. Mancano una serie di direttive che permetterebbero a infermieri, medici, forze dell’Ordine, servizi sociali e magistrati di comunicare tra loro costantemente, evitando di trascurare qualsiasi segno di possibile maltrattamento sin dall’inizio, e tutelando maggiormente l’incolumità delle vittime. Inoltre andrebbe avviata un’azione di prevenzione primaria fin dalla scuola nei confronti di tutta la popolazione, educando al rispetto per gli altri, alla parità di genere, a cosa sia la violenza e a come prevenirla. Solo così le donne potrebbero aumentare la fiducia nelle istituzioni e potrebbero essere aiutate a comprendere la gravità di certi gesti ricevuti, venendo così invogliate a denunciare di più e sentendosi maggiormente protette.

Oggi le donne che denunciano non ricevono tutele di alcun tipo: in seguito alla denuncia, le donne vengono lasciate in balia di uomini pieni di rabbia per la separazione, per il divieto di vedere i figli o per i mesi di carcere che hanno dovuto scontare. Così commenta la sua situazione Lidia Vivoli, la palermitana scampata alla morte e che ora ha 2 figli con un altro uomo: “Quale può essere la colpa di una donna per essersi innamorata dell’uomo sbagliato? Io so che lui mi ucciderà non appena uscirà di galera, io mi sento già morta. Nessuno mi protegge.”

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