L’Unione Europea è una organizzazione internazionale. Ad essa si è dato vita mediante la stipulazione di Trattati internazionali.
I Trattati prevedono materie di competenza della UE e organi destinati ad emanare norme vincolanti ora per gli Stati ora per i cittadini degli Stati membri. Le materie di competenze della UE sono in espansione continua, man mano che i Trattati sono modificati. Al di là delle precise previsioni dei Trattati, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, alla quale è riservata la decisione ultima sulle competenze della UE, tende da sempre ad espandere le competenze degli organi UE, ben al di là dei limiti, semantici e logico-giuridici, che discenderebbero dalle disposizioni dei Trattati.
Le (sempre più) ampie competenze della UE non tolgono che quest’ultima sia e resti fondata su accordi internazionali e pertanto abbia natura internazionalistica. L’UE esiste perché gli Stati membri vogliono questa forma di cooperazione. Gli Stati membri restano (formalmente) sovrani. La Corte Costituzionale tedesca in una sentenza del 2003 ha affermato con chiarezza che gli Stati membri sono i “padroni dei trattati”; e ha ribadito il concetto nella sentenza del 30 giugno 2009, pronunciata con riguardo alla legge tedesca di esecuzione del trattato di Lisbona.
Fino a quando uno Stato membro non esce dai trattati europei, il diritto dei trattati e quello “derivato”, emanato dagli organi previsti nei trattati medesimi, prevalgono sul diritto degli Stati membri, comprese le norme costituzionali (o meglio, comprese le norme costituzionali che disciplinano i rapporti economici). Il diritto della UE prevale sul diritto interno. Oggi, in seguito alla modifica dell’art. 117 della Costituzione (voluta e introdotta dal centro-sinistra), le norme di tutti i trattati internazionali ai quali sia stata data attuazione, e in particolare le norme di “diritto comunitario” (specificamente menzionato nell’art. 117 Cost.), prevalgono su quelle contenute in leggi ordinarie, sia anteriori che successive (Corte Cost. 348/2007; e Corte Cost. 349/2007), senza che sia più necessario porre in essere le piroette logico-giuridiche compiute in precedenza per giustificare soluzioni che, sotto il profilo tecnico, non stavano né in cielo né in terra. La possibile e necessaria interpretazione restrittiva dell’art. 117, suggerita da autorevoli dottrine, non nega quanto ho appena affermato.
Insomma, oggi è indubbio che il Parlamento italiano non può derogare ad una norma dei Trattati europei o a una norma introdotta dagli organi europei nemmeno all’unanimità. Uscire dai trattai europei o soggiacere; questa è l’alternativa a nostra disposizione. Il diritto interno contrario al diritto della UE o deve essere disapplicato dai giudici nazionali o comporta sanzioni per lo Stato italiano, comminate dalla UE. La modifica dei trattati, invece, non è nella nostra possibilità. Le modifiche richiedono il consenso di tutti gli Stati che hanno stipulato i trattati (ciò è vero anche per le “procedure di revisione semplificate”, perché esse prevedono la possibilità di atti di dissenso dei Parlamenti nazionali: art. 48 TUE).
2. Il diritto della UE e il diritto costituzionale italiano
Come ho accennato, la prevalenza del diritto europeo sul diritto italiano riguarda anche il diritto costituzionale italiano, sia pure con taluni limiti.
La Corte Costituzionale Italiana ha da lungo tempo affermato e più volte ribadito che la prevalenza del diritto dell’Unione Europea trova un limite “nell’intangibilità dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione” (dopo l’introduzione del nuovo art. 117, 1° co., cost., si veda Corte Cost. 348/2007; in altre precedenti sentenze il limite era enunciato con diversa formula: “i principi fondamentali del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana”). La Corte Costituzionale, in questa materia, si riserva di giudicare costituzionalmente illegittima una norma UE contraria a “iprincipi fondamentali del nostro ordinamento o i diritti inalienabili della persona umana”.
La Corte Costituzionale ha anche creduto, in tempi risalenti, che “appare difficile configurare anche in astratto l’ipotesi che un regolamento comunitario possa incidere in materia di rapporti civili, etico sociali, politici, con disposizioni contrastanti con la Costituzione” (Corte Cost. 183/1973).
Non interessa in questa sede verificare se i principi di libertà siano stati toccati da uno o altro regolamento UE (in dottrina si crede che in un paio di occasioni siano stati almeno sfiorati), quanto osservare che la sentenza del 1973 non menzionava i “rapporti economici”. Se sfogliamo la Costituzione italiana, ci accorgiamo che, dopo il titolo I della parte I, dedicato ai rapporti civili e il titolo II dedicato ai rapporti etico sociali, prima del titolo IV dedicato ai rapporti politici, c’è il titolo III, dedicato ai rapporti economici (artt. 35-47).
La Corte Costituzionale non era incorsa in una dimenticanza; anzi voleva proprio precisare che con l’(allora) art. 189 del Trattato di Roma era stata limitata la sovranità in materia di rapporti economici.
La verità è che in materia di rapporti economici non ha senso indagare se i Trattai europei e la normativa europea derivata contrastino sotto uno o altro profilo con i principi costituzionali. Semplicemente siamo in presenza di due programmi radicalmente antitetici e quindi alternativi (N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, Roma-Bari, 1998, pp. 22 ss.) O il legislatore applica il primo e tradisce il secondo. O applica il secondo e tradisce il primo.
Confrontiamo i due programmi, con la stringatezza imposta dall’occasione.
Non mi soffermo sul preteso fondamento giuridico della prevalenza dei Trattati europei rispetto alle norme della costituzione economica. Mi limito semplicemente a constatare e tra breve ad illustrare che quella prevalenza è un fatto, il quale ha una portata molto maggiore rispetto a quanto si creda comunemente, anche nella dottrina critica.
3. Il programma costituzionale in materia di rapporti economici
La norma fondamentale della nostra Costituzione –a mio parere della Costituzione intera e non soltanto del gruppo di norme che disciplinano i rapporti economici– è posta dall’art. 41. Proprio quell’articolo che alcuni vorrebbero modificare.
La norma fondamentale non risiede, come si crede, nel secondo comma dell’art. 41, il quale precisa che l’iniziativa economica privata, che il primo comma dichiara libera, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”. I principi espressi nel secondo comma sono evidentemente deducibili da altre norme ed è difficile pensare che, abrogando il secondo comma dell’art. 41 cost., nel nostro ordinamento l’iniziativa economica potrebbe svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o sacrificando la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Naturalmente, resta salvo il problema del significato delle formule vaghe –si tratta di clausole generali– che esprimono i limiti (“utilità sociale”, “dignità umana”, ecc). Un significato che va viepiù restringendosi, anche e soprattutto nella coscienza sociale dominante, man mano che la logica necrofila del capitale, promossa dai mezzi di formazione dell’opinione pubblica, da ideologie insegnate nelle università e dai mutamenti dell’ordine giuridico, penetra nell’animo e nelle menti dei cittadini italiani.
La norma fondamentale della nostra Costituzione è espressa nel terzo comma dell’art. 41: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Con questa norma i costituenti sceglievano un modello dirigista (N. IRTI, L’ordine giuridico del mercato, op. loc. cit.), un dirigismo che deve svolgersi nel rispetto della sacrosanta tutela costituzionale dell'iniziativa economica privata, ma pur sempre di direzione politica dell'economia si tratta.
L’insieme dei principi e dei valori espressi dalle altre norme del titolo (nonché altri principi e valori che trovano fondamento in altri luoghi della costituzione) non sono affidati al mercato, al libero incontro e scontro delle forze e quindi di fatto e di diritto al dominio del capitale. Sono invece realizzati mediante un programma. Il programma si esprime mediante prese di posizione e interventi. Questa norma dice chiaramente che l’attività economica soggiace alla decisione politica, la quale si esprime nella legge. Lo Stato è consapevole della forza del denaro, vi si oppone e, pur utilizzandola, la disciplina.
Ferma la libertà d’iniziativa economica privata e fermi i limiti sanciti nel secondo comma dell’art. 41 Cost., lo Stato, per mezzo della legge, programmava chiproduceva determinati beni e servizi; cosa si produceva e vendeva; cosa non si doveva produrre e vendere; come si produceva e vendeva.
Lo Stato si riservava di stabilire prezzi equi per beni e servizi essenziali (equo canone e scala mobile, per esempio). Legiferava per realizzare i valori costituzionali e, per raggiungere l’obiettivo, poteva prevedere monopoli pubblici, discipline vincolistiche in settori economici di rilevanza pubblica, imporre prezzi minimi e massimi, imporre dazi all’importazione o all’esportazione, e altri strumenti di protezione di uno o altro settore dell’industria italiana.
Lo Stato, desideroso di tassare le rendite e i grandi patrimoni o i grandi centri di produzione di profitti, poteva limitare o vietare la libera circolazione dei capitali, al fine di impedirne la fuga, in caso di aumento dell’imposizione. La legge poteva prevedere aiuti di Stato a tipi di industrie e attività; vietare la produzione e la commercializzazione nel territorio dello Stato di determinati beni; ignorare il valore della concorrenza -ignorare la concorrenza non significa imporre in ogni settore monopoli o oligopoli, bensì, semplicemente, non perseguire ossessivamente la concorrenza e preferire una sana e regolata competizione(1); condizionare l’esercizio di attività commerciali a licenze e autorizzazioni di vario tipo a tutela di uno o altro interesse; prevedere minimi tariffari nell’esercizio delle professioni, vietare la pubblicità delle attività professionali; accettare una inflazione modesta (o relativamente modesta) a tutela dell’occupazione (e quindi dei salari); limitare il potere delle banche commerciali di creare denaro, fissando un’alta riserva frazionaria (intorno al 25% fino alla metà degli anni Ottanta); consentire il finanziamento, attraverso le banche commerciali, soltanto della produzione e non del consumo (come avveniva fino alla seconda metà degli anni Ottanta); perseguire l’autosufficienza alimentare della nazione e pertanto tutelare in modo assoluto l’agricoltura. Lo Stato poteva fare ed effettivamente fece gran parte di ciò che ho indicato e molto altro. Ciò che non fece non deve essere imputato al programma economico costituzionale; bensì alla volontà politica che, pure nella dialettica politica del tempo, risultò dominante.
4. Il programma della UE in materia di rapporti economici
Quello che ho descritto nel paragrafo precedente è l’esatto contrario del modello prefigurato nei Trattati istitutivi dell’Unione Europea. Infatti, “L’Unione instaura un mercato interno” (art. 3, n. 3, 1° co., TUE). Il mercato interno “comporta uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali” (art. 26, n. 2 TFUE).
L’UE è una “unione doganale” (artt. 30 ss. TFUE). L’Unione doganale implica un limite di sovranità molto maggiore rispetto alle zone di libero scambio (per esempio il NAFTA), perché queste ultime lasciano la libertà di porre tariffe doganali verso l’esterno e consentono una politica commerciale autonoma ai singoli Stati partecipanti. Ciò non accade con le unioni doganali, che vincolano anche verso l’esterno e privano gli Stati di una autonoma politica commerciale. La tariffa doganale comune la stabilisce il Consiglio Europeo a maggioranza qualificata su proposta della Commissione Europea. A rigore, l’Unione doganale non comporta un semplice limite alla sovranità, bensì la totale perdita della sovranità nel campo della politica commerciale. Va detto che si è arrivati a questa vera e propria forma di fanatismo della libera circolazione delle merci in modo graduale e si è pienamente conseguito il risultato diabolico soltanto nel 1993. Direi che è stato un lungo cammino verso l’adorazione di Satana.
Il valore supremo della UE è “la concorrenza”. Il termine e il concetto erano assenti nella Costituzione della Repubblica Italiana. La concorrenza è un valore che la UE promuove in ogni modo, anche se poi, quando ci sarebbero valori da difendere promuovendola, l’UE furbescamente si ritrae. Per recare un esempio, esistono ben due regolamenti UE (nn. 4087/1988 e 2790/99) che direttamente o indirettamente tutelano il “franchising”, il quale è un chiaro strumento per evitare non soltanto la concorrenza ma anche una sana competizione tra commercianti.
Lasciando da parte l’ipocrisia del diritto anticoncorrenziale, osservo che la disciplina europea della concorrenza si compone, oltre che di norme rivolte alle imprese, anche di norme rivolte agli Stati. In particolare, l’art. 106, n. 2 del TUE, prevede che “Le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale sono sottoposte alle norme dei trattati, e in particolare alle regole della concorrenza, nei limiti in cui l’applicazione di tali norme non osti all’adempimento in linea di diritto o di fatto, della specifica missione loro affidata. Lo sviluppo degli scambi non deve essere compromesso in misura contraria agli interessi dell’Unione”. Inutile dire che la definizione di cosa sia un “servizio essenziale” spetta alla Corte di Giustizia europea e che trattandosi di una deroga alle norme sulla concorrenza la nozione è interpretata restrittivamente. Anche il controllo sul superamento della misura necessaria a svolgere la missione è attribuito alla Corte di Giustizia. Si tratta di limiti all’azione pubblica (o svolta nell’interesse pubblico) del tutto ignoti alla nostra Costituzione.
Inoltre, in materia di banche e intermediari finanziari, l’Italia ha perduto ogni potere normativo (salvo quello di applicare i principi UE): non può alzare la riserva frazionaria; non può separare le banche d’affari dalle banche commerciali; non può imporre speciali vincoli di portafoglio alle banche commerciali italiane (per esempio: detenere titoli del debito pubblico italiani); non può organizzare il credito secondo principi razionali, distinguendo (come prevedeva la vecchia legislazione italiana) tra istituti che erogano credito a lungo termine, istituti che erogano a medio termine e istituti che erogano a breve termine. La segnalata impossibilità è in gran parte di diritto, perché l’ordinamento italiano ha perduto la competenza o non potrebbe comunque disporre in contrasto con il diritto della UE. Per altra parte, è impossibilità di fatto, perché le discipline che sarebbe opportuno introdurre renderebbero meno competitive le banche italiane e quindi imporrebbero contestualmente limiti alle banche straniere o tutele delle banche italiane che il diritto europeo della concorrenza non consente.
Il dogma della concorrenza è poi la matrice della disciplina che pone il divieto di “aiuti di Stato” (art. 107 TFUE), nozione vaga che ovviamente è interpretata estensivamente (quindi ampliando il divieto) e il cui contenuto dipende, in definitiva, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea. Ne consegue che se il popolo italiano intendesse investire enormi somme in un nuovo settore e “aiutare” le imprese italiane, pubbliche o private, che operassero in quel settore, le leggi italiane dovrebbero essere disapplicate e lo Stato italiano sarebbe sanzionato dagli organi competenti della UE.
Il divieto di aiuti di Stato e di ogni altra forma di “protezione” di settori economici rende pure declamazioni irrealizzabili le proposte di promozione di un ritorno a forme di agricoltura contadina, così come pressoché tutte le politiche industriali un tempo praticate dai governi italiani.
Per quanto riguarda i movimenti dei capitali (“operazioni finanziarie che riguardano essenzialmente la collocazione o l’importo di cui trattasi e non il corrispettivo di una prestazione”: Corte di giustizia 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone), l’art. 63 del TFUE ne vieta “tutte le restrizioni… tra Stati membri nonché tra Stati membri e paesi terzi”. Identico principio è posto per i pagamenti (“sono trasferimenti di valuta che costituiscono una controprestazione nell’ambito di un negozio sottostante”: Corte di giustizia 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone). Anche in questa materia, alla completa adorazione di Satana si è giunti dopo molti anni, per effetto della direttiva del Consiglio n. 88/361 del 24 giugno 1988 e poi con il Trattato di Maastricht.
Il divieto di tutte le restrizioni ai movimenti di capitali è mortale per ogni idea, anche vaga e moderata di “economia sociale e popolare”; inizialmente, forse, soltanto per gli Stati europei meno produttivi; ma alla lunga per tutti gli Stati. Per recare un solo macroscopico esempio, esso rende del tutto impossibile per i singoli Stati, in via di fatto, introdurre regimi giuridici che prevedono una effettiva progressività nella tassazione dei redditi, degli utili sociali e soprattutto delle rendite. Per introdurre un tale regime impositivo, infatti, uno Stato è costretto a limitare la libera circolazione dei capitali. Diversamente, i capitali fuggirebbero. Il divieto di restrizione ai movimenti dei capitali è un modo elegante e ipocrita per decretare la concorrenza fiscale tra gli Stati europei.
L’unione monetaria ha sottratto agli Stati anche il potere di svalutare la propria moneta e anzi ha sottratto agli Stati la moneta.
L’unione monetaria è stata un grave errore tecnico, non soltanto politico. Gli Stati del sud Europa hanno perduto la possibilità di svalutare, per promuovere le esportazioni e soprattutto per rendere competitive le imprese nazionali. In caso di svalutazione, la produzione nazionale è più economica rispetto a quella straniera, perché per le imprese nazionali, che in precedenza acquistavano beni strumentali all’estero o che erano solite vendere beni importati, i beni stranieri aumentano di prezzo in misura pressoché corrispondente alla svalutazione (l’impresa nazionale che intendesse acquistarli dovrebbe acquistare con la moneta nazionale svalutata la moneta straniera necessaria per acquistare i beni stranieri).
A causa dell’unione monetaria, gli Stati del sud Europa sono divenuti debitori cronici nei confronti di quelli del nord e segnatamente della Germania: si indebitano con la Germania, per acquistare beni tedeschi! Un tempo, invece, accadeva che la richiesta di beni tedeschi e di marchi per acquistarli portava a un aumento dei prezzi dei beni tedeschi, con la conseguenza che i beni prodotti dagli Stati del sud Europa ridivenivano competitivi. Oggi, la moneta unica impedisce l’aumento dei prezzi dei beni tedeschi e quindi il riequilibrio commerciale. Ovvio, poi, che i tedeschi abbiano limitato le vacanze che un tempo trascorrevano in massa in Italia, in ragione dei (per loro) bassi prezzi, che non sono più tali!
In questa sede non interessa indagare se gli svantaggi siano stati complessivamente superiori o inferiori ai vantaggi, tanto propagandati. Interessa soltanto sottolineare che l’Unione monetaria ha sottratto agli Stati e ai popoli europei ulteriori poteri.
5. Conclusioni
Anche un ingenuo comprende che il modello di disciplina dei rapporti economici prefigurato nella Costituzione e quello prefigurato nei Trattati europei sono antitetici. Ciò che dobbiamo sapere, e dobbiamo ripetere fino alla nausea, è che il Parlamento italiano non può violare i Trattati europei e il diritto derivato, nemmeno all’unanimità e nemmeno modificando la Costituzione. Perciò, per attuare o per non violare il diritto dei Trattati europei e il diritto derivato, il Parlamento deve rinunciare ad attuare il programma costituzionale e deve rinunciare a dirigere la vita del popolo italiano. Oramai da venti anni la rinuncia è sistemica e senza eccezioni.
Coloro che innalzano il vessillo della Costituzione della Repubblica Italiana e non si pongono l’obiettivo di uscire dalla UE o sono ingenui e non consapevoli della prigione nella quale è stata rinchiusa la parte più nobile e moderna della nostra Costituzione, o sono ipocriti in mala fede, privi di coraggio e non degni di candidarsi al ruolo di classe dirigente della nazione.
L’UE è una organizzazione internazionale nata per distruggere gli Stati europei e per dissolvere i popoli europei in masse di consumatori anonimi, in balìa del mercato globale e del potere del capitale. L’UE non è altro che un insieme di vincoli per i popoli e quindi per gli Stati europei. Per il momento gli effetti deleteri della UE si sono verificati soprattutto nei paesi del Sud Europa. Ma essi non tarderanno ad apparire anche negli altri paesi.
Divieti di restringere la circolazione dei capitali, dei servizi, delle merci e dei lavoratori. Divieto di disciplinare in uno o altro modo i diversi settori economici, per rispettare l’obbligo di adeguarsi al dogma della concorrenza totale, ossia al “valore” della guerra totale permanente. Divieto di perseguire la piena occupazione sopportando il costo di qualche punto d’inflazione; dunque divieto di evitare la deflazione salariale. Vincoli esterni alla spesa pubblica, anche in periodi di recessione, a costo di sprofondare in una grande depressione. Impossibilità di svalutare la moneta. L’Unione Europea è l’insieme di questi vincoli e niente altro. L’Unione Europea è la più potente delle armi utilizzate dal neoliberismo per lanciare contro i popoli, le nazioni, le culture e i mercati nazionali la quarta guerra mondiale (secondo l’acuta analisi e la terminologia del comandante Marcos).
Sono vincoli pensati e voluti per uccidere Stati e Popoli. Dalla metà degli anni Ottanta i principi fondanti della UE (che altro non sono se non divieti e limiti per Stati e popoli) sono stati estesi e privati di eccezioni, dando così vita, anche in ragione dell’introduzione della moneta unica, a un veleno micidiale che aspira a uccidere nazioni secolari e millenarie.
Il destino al quale i popoli del sud Europa sono chiamati è la liberazione dalle catene imposte dalla UE, le quali, dopo averli indotti, con conseguenze culturali e antropologiche gravissime, all’indebitamento (privato – il problema è l’indebitamento privato, non quello pubblico!) e al conseguente impoverimento, hanno fatto ad essi conoscere finanche il disonore del commissariamento.
Inoltre, con specifico riguardo all’Italia, la UE, ostacolando la coesione non soltanto sociale ma anche territoriale –in Italia la questione sociale coincide in parte con la questione meridionale– è un cancro che sta colpendo l’unità della nazione.
Recedere dai trattati europei (e dal WTO, che pone regole molto simili a quelle della UE) e attuare il modello dirigista previsto nella nostra costituzione economica, questo è il programma che deve essere accettato da tutti i patrioti italiani. Invece, come debba essere applicato il modello dirigista prefigurato nella nostra Costituzione, lo deciderà democraticamente il popolo italiano quando avrà riconquistato la piena sovranità. Dividerci oggi sul come attuare un potere che non ci è dato e che non potremo utilizzare fino a quando non sarà stata completamente riconquistata la sovranità, è atteggiamento ingenuo, infantile, massimalista e gruppettaro (da gruppetti di sinistra degli anni Settanta), che deve essere assolutamente evitato e censurato.