DA VAURO A PENNAC, PIROSO INFILZA GLI INTELLO’ SEDOTTI DAL TERRORISTA CESARE BATTISTI – TRA I FIRMATARI DI UN APPELLO IN SUO FAVORE FIGURAVA ANCHE QUELLO DELLO SCONOSCIUTO (ALL’EPOCA) SAVIANO CHE POI PERÒ CHIEDERÀ DI TOGLIERE IL SUO NOME “PER RISPETTO A TUTTE LE VITTIME”
Cos’ hanno in comune Cesare Battisti, Émile Zola e Jack Unterweger? Zola è lo scrittore che davanti a un processo farsa (quello all’ ufficiale dell’ esercito Alfred Dreyfus, accusato di alto tradimento), scrisse una lettera aperta al capo dello Stato francese per denunciare i nemici «della verità e della giustizia»: il celebre J’ accuse pubblicato a tutta pagina da un giornale nel 1898.
Da autentico intellettuale, ragionò per archetipi. E non per stereotipi, come invece ha fatto una nutrita pattuglia di suoi pretesi colleghi italiani e francesi che, illudendosi di essere Zola, si sono schierati in difesa di Cesare Battisti, terrorista omicida del gruppo Proletari armati per il comunismo, evaso dal carcere di Frosinone nel 1981 e riparato oltralpe.
Quindi, quando nel 2004 i giudici francesi concederanno l’ estradizione, scappato in Brasile. Dove è rimasto fino all’ altro ieri, bloccato mentre cercava di fuggire in Bolivia, coperto politicamente nonostante la Corte di giustizia europea avesse bocciato il suo ricorso: Battisti in Italia aveva avuto un processo equo, con ogni mezzo possibile a sua difesa e legali di sua fiducia.
A dispetto di tutto ciò, Battisti ha sedotto esponenti del milieu intellettuale suggestionati dall’ aura romantica del perseguitato che, costretto all’ esilio, scopre di poter esprimere il suo disagio esistenziale attraverso la scrittura. Uno stereotipo, appunto, letto attraverso le lenti deformanti del luogocomunismo.
Così, in Francia la scrittrice di noir di successo Fred Vargas, tormentata «pasionaria» del caso Battisti, firmò un pamphlet, La vérité sur Cesare Battisti, in cui l’ Italia degli Anni di piombo era peggio del Cile di Augusto Pinochet, e Battisti e i suoi eroi di una guerra civile conclusa grazie agli arresti di massa: 60.000 in carcere, torture, tribunali speciali e sentenze sommarie. Nel recensirlo, il sito Carmilla («letteratura, immaginario e cultura d’opposizione») scrisse che «il libro demolisce sistematicamente e con abbondanza di prove tutte le menzogne costruite su Battisti».
Ma fa di più. Promuove un appello: «Battisti si è dedicato a un’ intensa attività letteraria, centrata sul ripensamento dell’ esperienza di antagonismo radicale che vide coinvolti centinaia di migliaia di giovani italiani e che spesso sfociò nella lotta armata. La sua opera è nel suo assieme una straordinaria e ineguagliata riflessione sugli anni Settanta. È riuscito ad attirarsi la stima del mondo della cultura e l’ amore di una schiera enorme di lettori.
Trattarlo oggi da criminale è un oltraggio non solo alla verità, ma pure a tutti coloro che, nella storia anche non recente, hanno affidato alla parola scritta la spiegazione della loro vita e il loro riscatto. Battisti è un uomo onesto, arguto, profondo, anticonformista. In una parola, un intellettuale vero».
Tra le adesioni quelle del collettivo di scrittori Wu Ming, Valerio Evangelisti, Massimo Carlotto, Tiziano Scarpa, Nanni Balestrini, Daniel Pennac, Giuseppe Genna, Giorgio Agamben, Vauro, Pino Cacucci, Loredana Lipperini, Marco Philopat, Gianfranco Manfredi, Antonio Moresco,Carla Benedetti, Stefano Tassinari.
Anni dopo, Carlotto aggiunse: «Ho conosciuto Battisti e non credo sia colpevole. Il suo processo è da rifare». Gianni Biondillo chiarì: «Quell’appello lo rifirmerei anche oggi, a un certo punto determinati discorsi vanno chiusi, prima o poi la storia deve finire», con buona pace (eterna) dei morti.
E Valerio Evangelisti: «Non sono disposto a scaricarlo solo perché è in atto una campagna mediatica contro di lui. È un povero diavolo. Una persona simpatica. Sottoscrivo ancora ogni parola di quell’ appello».
Tra i nomi figurava anche quello dello sconosciuto (all’ epoca) Roberto Saviano che in seguito però confesserà: «Mi segnalano la mia firma in un appello per Battisti, finita lì per chissà quali strade del Web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo.
Qualcuno mi mostra quel testo, lo leggo, vedo la mia firma e dico: non so abbastanza di questa vicenda. Chiedo quindi a Carmilla di togliere il mio nome, per rispetto a tutte le vittime».
Chissà se i firmatari non pentiti conoscono la vicenda di Jack Unterweger. Commise un primo omicidio nel 1974.
Arrestato e processato, venne condannato all’ ergastolo. In prigione iniziò a scrivere racconti, poesie e drammi teatrali. In breve divenne noto col soprannome di Häfenpoet, il prigioniero poeta, e un gruppo di intellettuali austriaci, tra cui la scrittrice futuro premio Nobel Elfriede Jelinek, firmarono una petizione per il suo rilascio.
Così nel 1990 intervenne la grazia, e Unterweger fu conteso dai talk show televisivi – come Pietro Maso, per dire – soprattutto per discutere il tema della riabilitazione degli ex detenuti. Solo che nei 12 mesi successivi alla sua scarcerazione, uccise – si appurò in seguito – altre sei donne. Poi si trasferì negli Usa, continuando ad ammazzarne anche lì e diventando così il primo serial killer planetario della storia, avendo colpito in due continenti. Arrestato dall’ Fbi, fu estradato e condannato nuovamente all’ ergastolo nel giugno 1994, suicidandosi lo stesso giorno della sentenza. Le donne da lui assassinate sarebbero più di 15.
Un sommesso consiglio ai nostri intellò: se vi capita, leggete Jack all’ inferno di John Leake, pubblicato da Mondadori. Infatuarsi dei propri stereotipi può risultare fuorviante. E, al di là delle migliori intenzioni, uno sfregio alla memoria delle vittime e allo strazio dei loro familiari.