giovedì 14 marzo 2019

Fibromialgia, il dolore può derivare dall’eccesso di glutammato

Fibromialgia, il dolore può derivare dall’eccesso di glutammato :: Blog su Today


Il dolore insopportabile causato dalla fibromialgia sembra essere spiegato dallo studio pubblicato su Pain Management nel 2016, che ha ritrovato fra le cause l’eccesso di glutammato che agisce a livello centrale. 

Glutammato e fibromialgia

Solo nel 1994 la fibromialgia è stata classificata come reumatismo dei tessuti molli, infatti, agli inizi del 1900 veniva considerata una malattia infiammatoria dei muscoli, definita anche fibrosite, poi negli anni 40’ si considerava come malattia a base psicologica, ma solo con la “Dichiarazione di Copenhagen” nel 1994 la diagnosi è stata accertata a livello internazionale.

Molti miei pazienti che soffrono di fibromialgia accusano sintomi come dolori diffusi, affaticamento, disfunzione cognitiva, problemi del sonno ed altri che si ritiene possano essere correlati ad un coinvolgimento del sistema nervoso centrale. Si crede che il dolore cronico sia mediato da uno stimolo iniziale che causa il rilascio di glutammato, un neurotrasmettitore di tipo eccitatorio. Normalmente, in seguito all’arrivo di uno stimolo eccitatorio di depolarizzazione viene rilasciato glutammato nello spazio sinaptico (a livello neuronale) dove si lega ai recettori ionotropici (NMDA, AMPA) presenti a livello pre- e post- sinaptico, dapprima si attivano i recettori AMPA, poi quelli NMDA rilasciando il blocco voltaggio-dipendente mediato dal magnesio; per normalizzare i livelli di glutammato esistono dei meccanismi di ricaptazione che coinvolgono trasportatori specifici, che lo captano nel momento in cui il glutammato è in eccesso, che potrebbe causare, quindi, iperstimolazione dei neuroni fino al punto di farli morire, fenomeno definito eccitotossicità.

Lo studio del 2016 riportato sotto dimostra che il dolore cronico che si manifesta nei pazienti affetti da fibromialgia è mediato da uno stimolo iniziale nocicettivo che causa il rilascio del glutammato, il quale agisce sui recettori AMPA: più prolungato sarà lo stimolo, maggiore sarà il rilascio del glutammato, che attiva anche i recettori NMDA. Contemporaneamente durante la percezione del dolore viene rilasciata la sostanza P, causando depolarizzazione della membrana di lunga durata che porta al dolore cronico; questa aumenta la permeabilità della barriera ematoencefalica, che normalmente protegge il cervello da alte concentrazioni plasmatiche di glutammato alimentare, quindi, se lo stimolo del dolore è continuo e i livelli di sostanza P aumentano, la barriera ematoencefalica diventa permeabile e consente al glutammato alimentare di entrare più facilmente nel cervello, peggiorando i sintomi della fibromialgia.

Il glutammato, però, non è coinvolto soltanto nella trasmissione nel dolore, ma è implicato anche in condizioni di dolore minori come l’emicrania, il disordine temporo-mandibolare e la sindrome dell’intestino irritabile. Lo studio pubblicato sul The Journal of Headache and Pain del 2013 ha confermato il legame tra glutammato e presenza di dolore, poiché attraverso l’iniezione di glutammato nel muscolo massetere ha indotto dolore alla mandibola nei soggetti sani.
Fibromialgia e dieta

Se il glutammato presente nella dieta è eccessivo e la stimolazione dolorosa contribuisce al rilascio della sostanza P, aumentando la permeabilità della barriera ematoencefalica, il dolore che avvertiranno i pazienti con fibromialgia sarà continuo. Studi dimostrano che la dieta contribuisce ai sintomi, poiché se contiene elevate concentrazioni di glutammato, comporta una neurotrasmissione del glutammato anormale.

Ma dal punto di vista dietetico che cos’è il glutammato? È un amminoacido che svolge il ruolo di neurotrasmettitore eccitatorio, spesso presente nei cibi insieme all’aspartato, come nella carne, oppure si trova in forma libera in additivi alimentari, quali il glutammato monosodico, le proteine idrolizzate, i concentrati proteici, l’estratto di lievito, l’aspartame e altri. Anche diversi alimenti ne contengono, come la salsa di soia, i sughi di pesce, i dadi da brodo, i pomodori e i formaggi stagionati come il cheddar ed il parmigiano. Diversi studi hanno dimostrato che i sintomi della fibromialgia sono migliorati dopo la rimozione del glutammato e dell’aspartato dalla dieta o addirittura si è verificata la remissione dei dolori diffusi, con ricomparsa in caso di reintroduzione di aspartato e glutammato.

Quali sono i consigli da seguire a tavola? Come sempre la dieta deve essere bilanciata e prevedere i tre macronutrienti ad ogni pasto: proteine, carboidrati e fibre, eliminando i cibi contenenti additivi ed elevate concentrazioni di glutammato (elencati sopra), eliminando anche gli alimenti contenenti aspartame prestando attenzione alla scelta di yogurt, cereali e pane confezionato, poiché viene utilizzato come edulcorante.

Il consiglio che do sempre ai miei pazienti è quello di comprare alimenti prodotti con pochi ingredienti, più naturali possibili, eliminando dalla nostra alimentazione i cibi a lunga conservazione contenenti additivi ed esaltatori di sapidità, talvolta nascosti nelle etichette dietro il nome di spezie, condimenti, aromi e aromi naturali.

Inoltre, affinchè la neurotrasmissione possa avvenire in modo ottimale è necessario che non vi siano carenze di minerali coinvolti nel meccanismo; due dei più importanti sono lo zinco ed il magnesio: il primo viene rilasciato insieme al glutammato modulando negativamente la risposta eccitatoria, mentre il magnesio che blocca fisiologicamente l’attivazione del recettore NMDA, se è carente, il blocco non è efficiente e aumenta lo stimolo eccitatorio. Infine, altra importante integrazione da consigliare è la vitamina B6, che funge da importante cofattore per l’enzima glutammato decarbossilasi, che converte il glutammato (un neurotrasmettitore eccitatorio) in GABA (un neurotrasmettitore inibitorio), quindi una sua carenza comporta livelli più alti di glutammato e ridotta inibizione da parte del GABA.

Come in ogni patologia, l’alimentazione è indispensabile per il raggiungimento del benessere psicofisico: riflettiamo sul fatto che eliminare dalla dieta il glutammato migliora i sintomi della fibromialgia e che insieme all’integrazione di vitamine e minerali potremmo evitare il continuo uso di farmaci antidolorifici. Invito, inoltre, chi soffre di fibromialgia ad iscriversi al mio gruppo Facebook dedicato proprio a questa patologia.




INFERNO IN VENEZUELA: PETROLIO NELL’ACQUA, ESPLOSI TANK E CENTRALI





NELLA CENSURA DEI MEDIA OCCIDENTALI
RAFFICA DI NUOVI ATTENTATI NEL PAESE:
SABOTATO L’ACQUEDOTTO IN DUE STATI 
ESPLODONO CISTERNE DI UNA RAFFINERIA
E ALTRE DUE STAZIONI ELETTRICHE.
DAGLI USA 500MILIONI PER IL GOLPE


___di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___

AGGIORNAMENTO ORE 13 (ITALIA) DEL 14-3

Essendo impossibile scrivere nuovi articoli ad ogni nuovo attentato che capita in Venezuela mi limiterò a dare brevi aggiornamenti flash: è esploso anche una terza cisterna nella raffineria Petro San Felix oil, nell’area di raffinazione vicina a quella di estrazione petrolifera dei vastissimi giacimenti dell’Orinoco, già colpita mercoledì intorno a mezzogiorno, da un incidente che sembra rientrare nell’ottica di sabotaggio nei confronti delle infrastrutture del paese: un attacco oltrechè al governo del presidente eletto Nicola Maduro, a tutta l’inerme popolazione che rischia di essere controproducente persino per il leader dell’opposizione Juan Guaidò in quanto ormai la sua ipotesi di incidenti causati da incuria è smentita dalla frequenza e gravità delle esplosioni. Proprio mentre Caracas festeggia la riapertura della metropolitana dopo cinque giorni di stop per il blackout ecco il segnale che gli attentati nel paese proseguono nel silenzio dei media occidentali come latinoamericani (spiego sotto il perchè…).



TESTO AGGIORNATO ORE 24 (ITALIA) DEL 13-3



La mappa petrolifera del Venezuela e nel cerchio l’area delle raffinerie dello stato Anzoategui, nella valle dell’Orinoco, dove sono avvenute le esplosioni – Clicca sull’immagine per approfondimenti sulle riserve del Venezuela

Mentre mi stavo accingendo a pubblicare l’articolo ecco la tremenda notizia dell’eplosione di due cisterne di una raffineria della Petro San Felix oil vicino a San Diego de Cabrutica nello stato di Anzoategui. Ormai gli attentati nel paese si susseguono con tale frequenza che diventa difficile riuscire a raccontarne i particolari. Ma ques’ultimo evidente sabotaggio, alla luce di altri nella notte a due stazioni elettriche e ad una condotta idrica che ha portato petrolio negli impianti domestici dell’acqua potabile, evidenziano una trama che sembra disegnata da un serial killer.

Prima la centrale elettrica intitolata a Simon Bolivar, l’eroe della rivoluzione latinoamericana, ora ai tank e all’acquedotto in due stati diversi ma che guarda caso colpiscono due città intitolate a San Diego (d’Alcalà), il santo cristiano cui i venezuelani sono particolarmente devoti come il resto del Sud America. Infine entrambi hanno come strumento di sabotaggio quell’oro nero che è il risaputo obiettivo degli Usa in Venezuela. Poco e nulla si sa per ora dello scoppio delle due cisterne della raffineria che ovviamente richiedono un intervento di emergenza urgente e specializzato. Si sa solo che sono accaduti intorno alle 11 dei Caraibi, ovvero le 16 in Italia. Nella mattinata di mercoledì 13 marzo il 27 % della rete era ancora scollegata a distanza di 140 ore dal blackout a conferma delle difficoltà nel ridistribuire l’energia a causa delle varie stazioni bruciate. A ciò si aggiunge anche la segnalazione che nello stato del Vargas la società elettrica nazionale Corpolecnel pomeriggio stava affrontando una nuova emergenza diffusa.




Come confermano alcuni messaggi Twitter inviati a membri del governo in cui si segnalano zone di Caracas (Padros de Este, Alto Prado, Terazas Club Hipico) ancora senza luce e senza acqua percché di quell’area sud della capitale isolata dallo scoppio di una stazione come riferito nel precedente reportage, e nella Parroquia de la Vega in Montalban, da 9 giorni senza luce e senza una goccia di acqua. Da prendere quindi con beneficio di verifica la trionfale affermazione di mercoledì sera del Ministro della Comunicazione, Jorge Rodriguez, secondo cui il 100 % della rete elettrica era stata ripristinata.


Il grafico della distribuzione di energia elettrica sulla rete dove si vede il collasso iniziale di giovedì 7 marzo ed il graduale recupero fino alla stabilizzazione di ieri in quasi tutto il paese.


L’ACQUA CONTAMINATA IN DUE STATI

Finalmente in quasi tutti i centri abitati del Venezuela fino a poche ore fa era tornata la corrente elettrica e con essa l’acqua corrente cessata per il blocco del sistema idrico di filtrazione e pompaggio. Un danno collaterale che tra domenica e lunedì si stava rivelando man mano che passavano le ore più grave di quello della mancanza della luce. Ma dai rubinetti di divere aree dello stato di Carabobo è uscita acqua nera, densa come il petrolio ma col fetore di fogna, come se fosse una commistione tra greggio e liquami di scarico. Come nel caso degli attacchi elettrici di cui abbiamo ampiamente parlato nei precedenti articoli e per i quali è stato messo sotto inchiesta il leader dell’opposizione Juan Guaidò, a destare sospetti di un ulteriore sabotaggio non è solo l’anomalo incidente ma la sua capillare e reiterata diffusione. Sono passate poche ore da quando è tornata l’acqua corrente ed è stata fatta la tremenda scoperta di questa gravissima problematica che perdura di ora in ora almento in quasi tutte le case della città carabobiana di San Diego.

Ecco alcune immagini postate su Twitter da CNV sull’acqua contaminata da petrolio a San Diego e in altre zone dello stato del Carabobo e probabilmente anche in quello di Aragua.



Sui social rimbalzano foto agghiaccianti in stridente contrasto con quelle rasserenanti diffuse ieri sera dal Ministro per l’attenzione all’Acqua, Evelyn Vasquez, che, cinguettando le foto con le autobotti di acqua potabile inviate in tutto il paese, aveva avvertito che il servizio idrico sarebbe stato ripristinato con la priorità per quelle aree rimaste senza da più tempo. L’incubo che già aleggia è che questa drammatica contaminazione dell’acqua col greggio sia diffusa a macchia d’olio. Per ora i responsabili del Servizio Idrico Nazionale sono concentrati a risolvere il problema in due stati, Carabobo ed Aragua, che quindi passano dall’emergenza blackout a quella dell’acqua potabile contaminata. Ma in serata è stato lo stesso Maduro ad annunciare l’attivazione del piano “Tanque Azul” (cisterna blu) per portare l’acqua potabile in tutte le case: probabilmente anche in considerazione dei problemi di contaminazione cui però non ha fatto minima menzione.

Le autobotti con l’acqua di emergenza in Venezuela

Inquietante è anche vedere anche l’immagine di un ristagno d’acqua vicino all’acquedotto completamente inquinata dal petrolio a riprova che la dispersione potrebbe essere non solo in qualche punto delle condotte o dell’acquedotto ma addirittura nei bacini idrici.

La fuoriuscita di acqua inquinata da una condotta vandalizzata

Ecco quindi prendere sempre più forma lo spettro di un sabotaggio militare in piena regola come ipotizzato dall’esperto di geopolitica ed intelligence bellica Gordon Duff, veterano dei marines, consulente internazionale di intelligence e senior editor del sito di anti-terrorismo e notizie di guerra Veterans Today: al momento una delle pochissime sponde occidentali d’informazione trasparente. In un’intervista trasmessa da Press Tv lunedì 11 marzo l’esperto ha avvertito che ormai ci si poteva attendere qualsiasi tipo di violento attacco. E lo stanziamento di mezzo miliardo di dollari previsto dal Dipartimento di Stato Usa per l’agenzia Usaid, proprio lunedì 11 marzo, per supportare il regime-chance fa comprendere quanta sia disposta ad investire Washington: basti pensare che per combattere il terrorismo su scala mondiale ha previsto 707 milioni di dollari, ovvero soltanto 200 in più rispetto a quelli preventivati per far fuori il presidente venezuelano eletto Nicolas Maduro e appropriarsi dei giacimenti petroliferi venezuelani: i più vasti dell’intero pianeta.



Il piano di investimenti richiesto da Donald Trump per la United States Agency for International Development spesso utilizzata come testa di potente per i regime-change – CLICCA PER IL FILE

LA CENSURA MEDIATICA: L’ARMA PIU’ EFFICACE

Una delle inquietanti immagini delle altissime fiamme a Caracas fotografate da CNW intorno alle 4 di notte (9 ore italiana)

Tra le modalità di attuazione di un golpe c’è quello più subdolo ma anche più efficace: il silenzio dei media sui drammatici eventi e la loro manipolazione di altri. Sull’Ansa come sulla maggior parte dei quotidiani italiani, europei ed americani, è stato dato spazio, minimo, alle accuse di sabotaggio alla rete elettrica lanciate dal presidente Nicolas Maduro nel suo discorso di lunedì sera, in cui ha spiegato dettagliatamente gli attentati, ma nessuno ha riportato la notizia data da Gospa News in esclusiva giornalistica mondiale della stazione elettrica di La Ciudadela in fiamme per quasi 5 ore nella zona sud di Caracas con lingue di fuoco e nubi alte decine di metri e visibili a chilometri di distanza nella notte oscurata dal blackout. Un’esplosione con seguente incendio in una capitale, a poche centinaia di metri da un supermercato e da una clinica, non è certo una notizia secondaria che diventa anzi primaria se affiora il sospetto che sia stata causata con un attentato alla pubblica sicurezza: oppure viene completamente oscurata dai media e l’ordine del mainstream è quello di non occuparsi dei misteriosi incidenti ma solo di ciò che adombra l’immagine dello statista Maduro, dipinto come dittatore alla stessa stregua di Bashar Al Assad in Siria, dove ci sono voluti 6 anni e mezzo milione di morti per riabilitarne la proiezione politica. In questo panorama di informazione manipolata sono coinvolti anche i giornali caraibici ormai spaccati su due fronti contrapposti: TeleSur che sostiene apertamente il governo in carica, il diario El Nacional che fa di tutto per screditarlo, giusto per fare i due esempi più importanti. Ecco perché le cronache quotidiane sono viziate da entrambe le parti. Il primo non è puntuale sulla cronaca di incidenti per non creare allarmismi non sapendo se siano stati causati da sabotaggi o da causalità che potrebbero mettere in dubbio le capacità amministrative dei ministri del presidente Chiavista; il secondo minimizza gli eventi come se fossero casuali al fine di non avvalorare alla teoria del complotto e dei sabotaggi. In mezzo c’è la popolazione che patisce disagi enormi, anche tragici come le circa 36 vittime negli ospedali per i blackout, ma non sa con chi prendersela e perché. E così la notizia dell’esplosione nella stazione elettrica di Sidor nella notte tra sabato 9 e domenica 11 marzo è stata in copertina su El Nacional per pochi minuti, prima di finire nelle news minori come un qualsiasi piccolo incidente. Senza il minimo accenno che potesse trattarsi di un sabotaggio come invece denunciato lunedì sera da Maduro e avvalorato dalla procura generale del Venezuela che ha avviato un’inchiesta in merito annunciando investigazioni su Guaidò quale ispiratore dell’attentato. Lo sesso è capitato questa mattina per il petrolio uscito dai rubinetti dell’acqua che dovrebbe essere potabile: El Nacional stamattina, mercoledì 13 marzo, ha dedicato una bellissima foto condita da dieci righe in cui manca ogni genere di minimo approfondimento o interrogativo giornalistico: «I cittadini di diverse aree dello stato di Carabobo hanno segnalato che l’acqua potabile giunta dall’ente è nera – scrive il sito del quotidiano – I carabobeños, che hanno atteso l’arrivo del servizio per diversi giorni, hanno trasmesso una serie di video sui social network in cui è possibile vedere come l’acqua esce nera dai rubinetti. “Buon giorno, l’acqua è arrivata ieri a San Diego, ma oggi al mattino ha iniziato a diventare nero con l’odore di fogna, che vergogna”, ha commentato un utente di Twitter. Un blackout, che ha colpito la fornitura di energia elettrica in tutto il paese da giovedì, ha impedito a molte famiglie venezuelane di ricevere acqua potabile. La situazione ha fatto sì che molti cittadini cercassero altre alternative per poter ottenere il liquido». L’articolo finisce qui. Senza domande, senza quesiti, senza il minimo sospetto che possa essersi trattato di un pianificato sabotaggio. Su TeleSur? Nemmeno una riga. Ovviamente si aspettano le comunicazioni ufficiali del governo.


CONDOTTA DANNEGGIATA: VANDALISMO O SABOTAGGIO?L’allarmante reportage de El Nacional di oggi, mercolesì 13 marzo

Qualche ora dopo lo stesso El Nacional approfondisce l’articolo ma ovviamente tiene la linea morbida diffusa dalle istituzioni per evitare il panico: «L’azienda Hidrológica del Centro (Hidrocentro) ha spiegato il motivo per cui l’acqua è diventata nera in varie zone dello stato di Carabobo, una situazione denunciata da dozzine di cittadini di quella città – Hanno spiegato che la condotta principale che fornisce l’acqua potabile al comune di San Diego della città è stata “vandalizzata da persone senza scrupoli”, che ha causato la infiltrazione dei sedimenti». Anche questo articolo finisce in modo rassicurante spiegando che lo staff è impegnato a risolvere la situazione nel più breve tempo possibile ed è stato avviato il protocollo di purificazione dell’acqua per poter rifornire lo stato di Aragua e la zona orientale di Carabobo». Una rassicurazione che in realtà contiene un allarme perché implicitamente indica che quella condotta alimenta non solo lo stato in cui si trova San Diego ma anche quello dell’Aragua, evidenziando così un vandalismo assai ingegneristico nella scelta del punto. A ciò va aggiunto il fatto che a circa 5 chilometri dalla città più colpita c’è effettivamente una raffineria di petrolio. E quindi l’infiltrazione di sedimenti sembra essere stata creata ad arte: come in un vero e proprio sabotaggio. Come appare evidente per l’esplosione nelle due cisterne delle raffinerie dell’altra omonima città: San Diego de Cabrutica ma nello stato di Anzoategui. Esattamente come quello avvenuto, ormai senza ombra di dubbio, nelle in altre due stazioni elettriche esplose tra nelle ultime 24 ore e di cui ovviamente solo sui social si trova notizia.

ALTRE DUE ESPLOSIONI IN 24ORE DOPO I 5 ATTACCHILe due stazioni elettriche esplose nelle ultime 24 ore in due a Maracaibo e Caracas

Ai cinque attacchi ben descritti dal presidente Maduro lunedì sera si vanno ad aggiungere gli altri due avvenuti nelle ultime 24 ore in due differenti località del Venezuela. Va innanzitutto chiarito che questo è ciò che sappiamo grazie all’aggiornatissimo profilo social di Twitter CNV – Conflicts News, gestito da un anonimo ma attentissimo reporter. Potrebbero esserci stata anche altre esplosioni di cui nessuno ha riferito perchè come detto il Governo bolivariano vuole evitare il panico e gli oppositori tendono a minimizzare gli incidenti catalogandoli come casuali, soprattutto dopo l’apertura dell’inchiesta per sabotaggio elettrico su Guaidò. Ma ormai anche la statistica è dalla parte della tesi del presidente Maduro il quale ha evidenziato l’altro giorno che la rete elettrica è stata colpita in tre modalità diverse: prima con un attacco cibernetico giovedì 7 marzo alla centrale idroelettrica Simon Bolivar sulla gigantesca diga di Guri, che da sola garantiva l’80% dell’apporto energetico del Venezuela, quindi con uno elettromagnetico alla stessa ed alla centrale informatica della rete di Caracas, per ostacolare il ripristino, infine con gli attacchi fisici attraverso le esplosioni a Sidor, vicino a Bolivar, la principale sottostazione di emergenza entrata subito in funzione dopo lo stop della centrale idroelettrica, e domenica quella più clamorosa alla Ciudadela di Caracas e in un altro punto. Adesso si apprende che nel pomeriggio di martedì è esplosa un’altra stazione elettrica a Las Cabillas a Maracaibo ed un’altra in località La Tiama di El Hatillo, nella zona sud della capitale, rimasta di nuovo in blackout. Di fronte a ben 7 attacchi consecutivi al sistema elettrico, fortunatamente nel frattempo in parte ripristinato nella sua quasi totale funzionalità grazie ad esperti hacker e con la consulenza ingegneristica a distanza di Cina e Russia, è ormai impossibile anche per i più scettici pensare ad una semplice casualità. E lo riprova la circostanza che, notizia della serata, lo stato del Vargas sarebbe nuovamente al buio in vaste aree. Mentre si contano i danni, causati alle fabbriche per lo stop improvviso ma soprattutto ai tantissimi impianti di estrazione e raffinamento di petrolio. In questo contesto prende sempre più corpo la previsione apocalittica fatta dal già citato consulente di intelligence militare Gordon Duff, senior editor di Veterans Today.

L’EPERTO USA: “QUALSIASI VIOLENTO ATTACCO DA BOLTON”

Il senior editor di Veterans Today Gordo Duff – CLICCA SULL’IMMAGINE PER L’INTERVISTA

Gordon Duff è un veterano dei Marines nella guerra del Vietnam che ha lavorato per decenni sui prigionieri di guerra ma è anche un diplomatico accreditato come uno dei migliori specialisti di intelligence globale e senior editor del sito Veterans News, specializzato in notizie di guerra e investigazioni internazionali tra cui la scoperta di cruciali documenti e informazioni sulla cospirazione occulta dietro l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York. E’ stato intervistato dal sito d’informazione iraniano in inglese Press Tv sulla crisi in Venezuela dove ha evidenziato la pericolosità del consigliere della Sicurezza Nazionale della Casa Bianca John Bolton. Ecco un passaggio saliente della interessantissima intervista. «Il mondo ha tutte le ragioni per credere che gli Usa vogliano attaccare ogni infrastruttura del Venezuela, E’ più o meno ciò che hanno promesso: è una politica consolidata. Gli Usa hanno minacciato attacchi militari: questa è una mossa che tutti ci aspettiamo, attendendo solo quando lo farà. Ci stiamo chiedendo se abbiano intenzione di utilizzare lo Struxnet virus come hanno già usato molte volte prima, o un attacco simile, o qualcosa di più violento. Non escluderei che mettano in atto un bombardamento o un altro tipo di provocazione. Tutto questo è nelle carte di John Bolton. E’ la persona che non è estranea a questo tipo di violenti attacchi. La questione è naturalmente per afferrare l’oro del Venezuela. Una chiara interferenza ma non solo sul Venezuela ma anche una pressione sulle altre nazioni perchè si uniscano al boicottaggio. Venezuela fa parte di una lunga lista di nazioni che gli Usa stanno cercando di distruggere economicamente».

IL PERICOLO ISIS IN VENEZUELA

Gli aerei bombardieri russi giunti a dicembre in Venezuela

Se sotto il profilo ci sono già in parte riusciti con la complicità di tutti i paesi, tra cui l’Unione Europea, che hanno accolto senza battere ciglio le sanzioni via via sempre più strangolanti dal 2014 ad oggi, sotto il profilo militare stanno procedendo lentamente con la tattica della provocazione e dei sabotaggi. Soprattutto dopo che la Russia ha manifestato a parole e nei fatti la sua intenzione a garantire l’appoggio militare alla Repubblica Bolivariana. A metà dicembre 2018, infatti, il presidente venezuelano Nicola Maduro era volato a Mosca per incontrare il presidente russo Vladimir Putin e riconfermare la loro alleanza, forse anche già pianificando le strategie per difendersi dall’imminente golpe, di cui certamente, i servizi segreti dei rispettivi paesi, il Sebin di Caracas e lo Fsb del Cremlino, erano già al corrente. Pochi giorni dopo insieme alle promesse del ministro russo degli Esteri Sergey Lavrov delle «armi necessarie a difendersi» all’Aeroporto Internazionale di Maiquetia “Simon Bolivar” sono atterrati due bombardieri strategici Tu-160, un cargo An-124 e un velivolo a lungo raggio IL-62 dell’esercito moscovita. Ecco perché un’attacco militare frontale sembra da escludere in tempi brevi: almeno fino a martedì 19 marzo quando il presidente statunitense Donald Trump, ormai teleguidato dal suo consigliere guerrafondaio Bolton, incontrerà il presidente Jair Brasiliano proprio per parlare del Venezuela come già annunciato in una nota ufficiale della Casa Bianca.


Combattenti Isis trasportati in Irak con i camion dell’esercito americano

Nel febbraio scorso però gli americani hanno già fatto trapelare sui media affermazioni, prive di ogni minimo elemento probatorio, circa la presenza in Venezuela di miliziani Hezbollah, i valorosi combattenti dell’esercito libanese che hanno aiutato la Siria a sconfiggere l’Isis ma sono considerati organizzazione terroristica da Usa e Regno Unito. Alla luce delle continue liberazioni di comandanti Isis avvenute nelle scorse settimane prima in Afghanistan, proprio ad opera delle forze speciali Usa, e poi nella zona siriana dell’Eufrate, da dove sarebbero stati deportati in cambio delle rivelazioni sul nascondiglio di 50 tonnellate di oro rubato a Mosul, non è da escludere che la strategia bellica per molti aspetti criminale di Bolton possa pensare anche a seminare nello stato caraibico la gramigna dell’Isis. Per i miliziani sunniti del Daesh sarebbe facile dover scegliere tra una minaccia di reclusione a Guantanamo ed un’opportunità di combattimento a Caracas, aizzati anche solo dal sospetto che ci siano componenti degli odiati sciiti. Per gli Usa sarebbe facile liberarsi di loro a lavoro finito con le solite bombe a grappolo come quelle usate a Deir El Zor ucciderebbero guerriglieri jihadisti e bambini innocenti. Proprio per la spietata crudeltà dimostrata dagli Usa dal 2011 in poi sotto la presidenza di Barack Obama e riconfermata da Donald Trump dopo un anno di tentennamenti può indurre a ritenere reale un pericolo che al momento è solo una semplice ipotesi.


Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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martedì 12 marzo 2019

No Tav e Corte dei Conti contro la lobby della Tav

UN OTTIMO PEZZO DEL 2011 SUL NO TAV E LE SUE OTTIME RAGIONI

I No Tav resistono al primo tentativo di iniziare il cantiere per il tunnel cosiddetto geognostico e di servizio de La Maddalena. Mentre scrivo questo primo commento risulta che non ci sono feriti e che l’autostrada, quando le forze dell’ordine hanno deciso di riaprirla, è tornata rapidamente percorribile. Questi due elementi ridimensionano la quantità e pericolosità delle pietre lanciate verso l’autostrada, rispetto al comunicato della Questura.

Ma il problema che sta di nuovo irrompendo nell’informazione nazionale torna ad essere quello della Tav Torino-Lione, ovvero della secondo linea ferroviaria che le Ferrovie e il Governo vogliono costruire, dopo la pausa imposta dal movimento di massa nel 2005. Nel frattempo, per gli addetti ai lavori sono cambiati molti dettagli, ma nella sostanza, nell’economia e nel senso del progetto non è cambiato nulla. Si tratta sempre di una opera faraonica e gigantesca, che prevede per la prima volta in Italia la realizzazione di un secondo megatunnel ferroviario accanto a quello esistente e funzionante. Un’opera che costa più del Ponte sullo Stretto per necessità di traffico molto minori ma che è sostenuta da una lobby di interessi locali più rispettabile – o meno sput…ata – di quelle di Messina e Reggio…



Il motivo fondamentale per cui la Confindustria torinese, il Pd governante Torino e Provincia, il Pdl maggioritario nella giunta regionale Cota sostengono ancora a spada tratta la Tav Torino-Lione è molto semplice, anche se poco se ne è scritto al di fuori del circuito No Tav. Si tratta di una potenziale iniezione pluridecennale di denaro pubblico per i costruttori di opere del genere, e la maggior parte di questi soldi dovrebbe andare a finire a imprese locali. Più di tutte le altre, questa linea servirebbe solo a chi la costruisce. Non ci sono altri motivi veri,il traffico delle merci è in calo in generale e in particolare lo è alla frontiera alpina con la Francia. Da Torino a Lione nessuno ha bisogno di andare più veloce di come ci va ora, le priorità nel trasporto pubblico locale e nazionale sono ben altre e l’aria padana non è inquinata dai camion che attraversano il Frejus più di quanto lo sia dai furgoncini dei mercati rionali di un paio di cittadine.

In analogia col nucleare, anche a voler prescindere da tutte le questioni ambientali e paesaggistiche o ambientali e di sicurezza, non c’è nessuna economicità e nessun rischio d’impresa. Solo denaro pubblico a imprese private, che potrebbe esser utilizzato per molti altri più utili scopi. In particolare il tunnel per il quale si vogliono ora aprire i cantieri è l’unico pezzo per il quale c’è un finanziamento europeo, ma è un tunnel che servirebbe a qualcosa solo come galleria di sicurezza e di servizio tra decine di anni, quando venisse realizzato il mega tunnel cosiddetto di base. E’ lo stesso appalto che era già stato assegnato nel 2005 a Venaus al consorzio delle cooperative “rosse” Cmc. Mentre uscivano le notizie del nuovo tentativo di aprire i cantieri, usciva la nuova relazione della Corte dei Conti. Per rispettare i nuovi vincoli europei sul debito occorrerà un intervento “del 3% all’anno, pari, oggi, a circa 46 miliardi nel caso dell’Italia” dice la Corte dei Conti. Si tratta di “un aggiustamento di dimensioni paragonabili a quello realizzato nella prima parte degli anni Novanta per l’ingresso nella moneta unica”.

Quante scuole e quanti ospedali dovremmo chiudere per rispettare i capricci della lobby piemontese della Tav Torino-Lione?

ARABIA: TORTURE E ABUSI SESSUALI SULLE ATTIVISTE



IN CARCERE DALLA PRIMAVERA SCORSA
PER IL DIRITTO ALLA GUIDA DELLE DONNE
PRIVATE DEL SONNO E VITTIMA DI MOLESTIE:
LA DENUNCIA DEI PARLAMENTARI BRITANNICI
A CUI RIAD HA NEGATO OGNI ISPEZIONE
COME SULL’ATROCE OMICIDIO KHASHOGGI


___di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___

«Le autorità saudite ai massimi livelli potrebbero, in linea di principio, essere responsabili del crimine di tortura». E’ questa la conclusione di un rapporto stilato nelle scorse settimane da un gruppo di tre parlamentari britannici che hanno cercato di fare luce sulla situazione delle attiviste di sesso femminile detenute in Arabia Saudita in condizioni crudeli e disumane che a loro giudizio valicano la soglia della tortura ai sensi della legge internazionale (e saudita). La grande colpa delle otto incarcerate nella primavera scorsa fu quella di manifestare a favore del diritto alla guida delle donne saudite, concesso dopo innumerevoli indignazioni della comunità internazionali, e contro le leggi maschiliste in un paese governato da una monarchia assoluta ispirata ad una teocrazia islamica sunnita-wahabita dove le proteste pubbliche e i partiti politici sono vietati e che, con la stessa impudenza con cui negò ogni coinvolgimento nell’efferato assassnio del giornalista Jamal Khashoggi, nega di avere prigionieri politici e ogni accusa di tortura.


ACCESSO NEGATO ALLA COMMISSIONE PARLAMENTARE

Il parlamentare britannico conservatore dei Tory Crispin Blunt

La commissione del Regno Unito ha chiesto di poter incontrare le attiviste prigioniere per valutare il loro benessere «ma non ha ricevuto alcuna risposta dall’ambasciatore saudita, il principe ereditario Mohammed bin Nawwaf bin Abdulaziz», rimarca The Guardian, sebbene il gruppo fosse guidato da Crispin Blunt, l’ex presidente conservatore del comitato ristretto per gli affari esteri e uno dei più fedeli difensori delle monarchie del Golfo. «Le donne saudite attiviste detenute sono stati trattate così male da giustificare un’inchiesta internazionale sulla tortura – ha scritto Blunt nel rapporto – E’ stato loro negato l’accesso adeguato alle cure mediche, alle consulenze legali o alle visite delle loro famiglie, il loro isolamento e maltrattamenti sono così gravi da soddisfare la definizione internazionale di tortura. L’Arabia Saudita è in bilico. Non è troppo tardi per cambiare rotta e scongiurare la spirale verso la catastrofe che rappresenta la detenzione di questi attivisti». Privazioni del sonno, aggressioni, minacce alla vita e isolamento sono solto alcune delle accuse che la relazione addebita ai sauditi in merito a violazioni dei diritti umani avallate dal principe ereditario Mohammed bin Salman, vicepremier e ministro degli Esteri ma il leader di fatto del Regno paterno. Ancora più pesanti e circostanziate le affermazioni della parlamentare liberaldemocratica Layla Moran: «Quando ho saputo degli arresti, ero, come molti, scioccata dal fatto che fosse successo. La tortura, in particolare le accuse di molestie sessuali e minacce di stupro, sono imperdonabili». Il terzo componente della commissione, il deputato laburista Paul Williams ha teso una mano all’Arabia Saudita: «Siamo aperti a discutere la nostra relazione con le autorità saudite e a ricevere tutte le prove che hanno in modo da poter valutare le nostre conclusioni sulla base delle informazioni più complete disponibili». Ma finora come risposta è giunta solo la notizia dell’imminente processo di cui riferisce Reuters accreditando le accuse di torture psicologiche e molestie sessuali, assai facili da credere in un paese maschilista coinvolto nel barbaro assassinio del giornalista Khashoggi, ucciso e fatto a pezzi nel consolato saudita a Istanbul.

LA DENUNCIA DI AMNESTY INTERNATIONAL

Alcune delle attiviste detenute in Arabia Saudita

Amnesty International ha ricevuto tre distinte denunce secondo le quali attivisti e soprattutto attiviste in carcere dal maggio 2018 hanno subito molestie sessuali, maltrattamenti e torture durante gli interrogatori all’interno della prigione di Dhahban. Secondo le denunce, sono state ripetutamente torturate con scariche elettriche e con frustate, così brutalmente da non poter camminare o stare in piedi. Un attivista è stato lasciato appeso al soffitto e un’attivista è stata sottoposta a molestie sessuali mentre veniva interrogata da uomini dal volto coperto. C’è stato anche un tentativo di suicidio. «Queste drammatiche denunce, se confermate, costituirebbero un ulteriore vergognoso esempio di violazioni dei diritti umani da parte delle autorità saudite – ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International – Riteniamo le autorità saudite direttamente responsabili dell’incolumità di queste donne e di questi uomini privati ingiustamente della libertà ormai mesi fa solo per aver espresso pacificamente le loro opinioni e che ora vengono sottoposti a terribili sofferenze fisiche. Le autorità saudite devono rilasciare immediatamente e incondizionatamente tutte le persone detenute solo per aver svolto attività pacifiche in favore dei diritti umani e devono avviare subito un’indagine approfondita ed esauriente su queste denunce di tortura, portando a processo i responsabili». Amnesty International spiega che la tortura è regolarmente praticata nelle prigioni e nei centri di detenzione dell’Arabia Saudita, stato firmatario della Convenzione Onu contro la tortura, soprattutto per estorcere confessioni o perché i detenuti per reati di opinione si erano rifiutati di pentirsi. Le persone arrestate nel giro di vite del maggio 2018 sono ancora detenute senza accusa e senza avere accesso a un avvocato. Per i primi tre mesi sono state trattenute in isolamento in località sconosciute senza poter avere contatti col mondo esterno. Secondo la denuncia di AI nella prigione di Dhahban si trovano attualmente Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan, Aziza al-Yousef, Samar Badawi, Nassima al-Sada, Mohammad al-Rabe’a e Ibrahim al-Modeimigh. Altre attiviste sono state arrestate nei mesi successivi, come Nouf Abdulaziz e Maya’a al-Zahran, e la stessa sorte è toccata ad attivisti che erano stati già perseguitati a causa del loro impegno in favore dei diritti umani, come Mohammed al-Bajadi e Khalid al-Omeir. Un’altra attivista, la nota accademica Hatoon al-Fassi, ha trascorso un periodo di carcere poco dopo l’abolizione del divieto di guida per le donne. La scorsa settimana le è stato conferito il Premio annuale per la libertà accademica da parte dell’Associazione di studi sul Medio Oriente ma non ha potuto riceverlo personalmente.

PROCESSO IMMINENTE AGLI ATTIVISTI

Il principe ereditario del Regno dell’Arabia Saudita Mohammed Bin Salman con il presidente Usa Donald Trump

Da Il Cairo il primo marzo si è diffusa la nota dell’agenzia di stampa Spa secondo cui il pubblico ministero dell’Arabia Saudita sta preparando i processi ai detenuti, identificati dai gruppi di controllo come attivisti per i diritti delle donne. Lo riferisce una segnalazione della Reuters firmata da Hesham Hajali con il coordinamento di Stephen Kalin e Andrew Heavens. «Il rapporto ha fornito pochi dettagli, ma ha fatto riferimento a una dichiarazione del giugno 2018 che diceva che nove persone – cinque uomini e quattro donne – furono arrestate e detenute con l’accusa di danneggiare gli interessi del paese e offrire supporto a elementi ostili all’estero. All’epoca, gruppi per i diritti internazionali hanno denunciato la detenzione di almeno 11 attivisti di spicco, per lo più donne che in precedenza avevano fatto campagna per il diritto di guidare e la fine del sistema di tutela maschile del regno. Alcuni sono stati successivamente rilasciati, ma gli attivisti hanno affermato che molte delle donne sono state detenute in isolamento per mesi e hanno subito torture e molestie sessuali». Il reporter Reuters riferisce che un funzionario saudita ha dichiarato che le accuse di maltrattamenti e torture nei confronti delle detenute erano “false … e non hanno alcun legame con la verità”. Decine di altri attivisti, intellettuali ed ecclesiastici sono stati arrestati separatamente in un tentativo apparente di eliminare l’opposizione al principe ereditario Mohammed bin Salman, che ha consolidato il potere.




L’opinionista del Washington Post Jamal Kashoggi assassinato nel consolato saudita a Istanbul


E’ sempre The Guardian, nell’articolo firmato da Patrick Wintour e Bethan McKernan, a riferire che la settimana scorsa l’Arabia Saudita è stata sottoposta a un nuovo esame investigativo per il suo rifiuto di collaborare con il relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie, che ha appena concluso una missione di accertamento di cinque giorni a Istanbul per indagare sulla morte del giornalista Jamal Khashoggi, opinionista del Washington Post. «Alla squadra di Agnes Callamard non è stato concesso l’accesso all’edificio del consolato di tre piani in cui Khashoggi è stato ucciso da una squadra di agenti inviati da Riad, né è stato permesso di intervistare i funzionari sauditi – scrive The Guardian – Callamard ha ascoltato le registrazioni audio della morte del giornalista dissidente, che la Turchia ha anche condiviso con il direttore della CIA, Gina Haspel, Regno Unito, Canada, Germania e Francia». Il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, ha chiesto risposte dal Regno in un’intervista televisiva di domenica sera e ha criticato gli Stati Uniti per non aver preso una posizione più decisa sull’omicidio di Khashoggi. «Non riesco a capire il silenzio degli Stati Uniti quando un attacco così orribile ha avuto luogo, e anche dopo che i membri della CIA hanno ascoltato le registrazioni che abbiamo fornito – ha detto Erdoğan – Vogliamo che tutto sia chiarito perché questo non è un omicidio ordinario, è un’atrocità». Riad ha arrestato 22 persone in relazione alla morte di Khashoggi, che il regno sostiene è stata effettuata senza la conoscenza del principe ereditario. Undici imputati sono stati processati il mese scorso. L’Onu, tuttavia, ha messo in dubbio l’equità del processo giudiziario saudita.



FANCIULLE SCHIAVE DEGLI ORCHI JIHADISTI


MARWA, YAZIDA RAPITA DAI MILIZIANI ISIS
VIOLENTATA E INCINTA A SOLI 10 ANNI
LEAH, CATTOLICA PRIGIONIERA DI BOKO HARAM 
PERCHE’ RIFIUTA DI ABBRACCIARE L’ISLAM.
NASCE A ROMA IL GRUPPO INTERPARLAMENTARE
PER LA TUTELA DEI CRISTIANI PERSEGUITATI

___di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___

Marwa Khedr e Leah Sharibu. Due volti delle persecuzioni religiose degli islamisti, che forti di una Sura del Corano, si sentono in diritto di rapire e violentare impunemente le fanciulle di un’altra fede. Le loro raccapriccianti, orribili storie di vittime degli orchi jihadisti stanno tornando di attualità in questi giorni nei racconti disperati e drammatici dei parenti. Marwa è una bimba rapita in Irak a soli 10 anni dai terroristi islamici Isis che fanno schiave sessuali le ragazze e le donne di religione yazida come lei: l’ultima volta che è stata vista era incinta nonostante la giovanissima età. Leah è una quindicenne cristiana rapita un anno fa in Nigeria dai famigerati miliziani musulmani di Boko Haram: a differenza di altre studentesse rilasciate è ancora prigioniera perché non ha voluto abiurare la sua fede e convertirsi all’Islam. Anche per occuparsi delle migliaia di casi di cristiani perseguitati come la ragazzina nigeriana è nato nel Parlamento italiano un gruppo trasversale di deputati e senatori di vari schieramenti politici.



L’ATROCE STORIA DI MARWA: LA BAMBINA SCHIAVA

La bambina yazida Marwa Khedr rapita a soli 10 anni, ridotta a schiava sessuale e rimasta incinta

Nei giorni scorsi è stato il Daily Mail ha rievocare le terribili vicissitudini di Marwa Khedr attraverso i racconti di una zia sfuggita ai suoi aguzzini insieme alle due figlie piccole. Marwa aveva appena dieci anni quando circa quattri anni orsono i jihadisti dello Stato Islamico fecero irruzione nel villaggio yazida nella regione irachena di Sinjar. Gli Yazidi rappresentano una minoranza religiosa di lingua curda in Medio Oriente e sono divenuti famosi in tutto il mondo dopo il conferimento del Nobel per la Pace a Nadia Murad, una ragazza divenuta simbolo della battaglia per i diritti umani dopo essere statata schiava dei terroristi islamici del Daesh. Proprio i miliziani fondamentalisti sterminarono tutti gli uomini di Sinjar e deportarono donne e bambini in’altra città dove vennero separati per età in quanto sul mercato degli schiavi avevano valore differenti e i più ricercati erano quelli di età compresa tra i dieci e i venti anni. Il racconto di questo mercimonio dell’orrore è stato fatto al giornalista Ian Birrell da Mahdya, zia di Marwa che è appena fuggita da Baghuz, l’ultima roccaforte del califfato dell’IS, insieme alle sue figlie di otto e nove anni. «L’ultima volta che ha visto sua nipote, era rannicchiata con gli altri in un mercato vicino a Hardan, dove viveva, prima di essere portato nella “capitale” jihadista di Raqqa – riporta il Daily Mail – Mesi dopo, un’amica disse a Mahdya di aver visto di nuovo Marwa ed era incinta, nonostante la giovane età – un altro segno grottesco della barbarie inflitta da IS. Non è noto dove sia Marwa ora».


SCHIAVA OBBEDIENTE PER EVITARE LO STUPRO DELLE BIMBE

La yazida Nadia Murad, premio Nobel per la Pace 2018 in virtù della sua battaglia per i diritti umani condotta dopo essere sopravvissuta alla schiavitù sotto i miliziani Isis

«Ci sono un sacco di ragazze come lei – ha aggiunto Ziad Avdal, un ex insegnante che gestisce case sicure per gli yazidisfuggiti all’IS – Non è solo terribile che sia incinta perchè queste ragazze potrebbero essere state violentate da 100 uomini prima che rimangano incinta». Mahdya oggi ha 29 anni ed è una dei circa 6.500 yazidi rapiti dai miliziani Daesh, perseguitati per la loro antica fede religiosa alla stregua dei cristiani. Quasi la metà sono ancora dispersi. La zia di Marwaracconta di essere stata venduta, aggredita, costretta a sposarsi diverse volte, sotto la minaccia di stupro delle sue figlie da parte di uomini più anziani e di vederle picchiate con cavi da spose jihadisti. «Non so quante volte sono stato venduto – ha detto Mahdya al giornalista – Un uomo mi ha avuta solo per tre giorni, poi mi ha venduto di nuovo. Mi hanno anche tenuta in un sotterraneo per due mesi. Era così buio che non potevo distinguere il giorno e la notte». Un altro miliziano che l’ha comprata per pulire la sua casa e cucinare ha deciso dopo quattro mesi di sposarla: «Mi ha detto che se avessi rifiutato o disobbedito avrebbe sposato mia figlia di otto anni o l’avrebbe venduta ad un altro uomo». All’inizio di febbraio, manmano che la morsa dei curdi Sdf si è stretta intorno a Baghuz è finalmente riuscita a scappare dall’enclave IS assediata e dal suo ultimo marito, un uzbeko, dopo mesi di inedia. Fu costretta a mangiare bastoncini di escrementi di animali per sopravvivere. «Non avrei mai pensato che sarei sopravvissuta» confida narrando le difficoltà per la liberazione delle figlie ormai cresciute e indottrinate dai fanatici dello Stato Islamico che si erano rifiutate di unirsi a lei nella fuga, temendo che le forze curde liberatrici fossero senza fede. «Alla fine ho dovuto dire loro che stavamo andando a prendere il cibo» disse Mahdya svelando il trucco con cui è riuscitata portarle via dal villaggio islamico. L’IS fino al 2017 controllava un territorio vasto quasi un quarto dell’Inghilterra, ma nei giorni scorsi solo 200 militanti sono rimasti confinati in un quinto di un chilometro quadrato. Accanto alle due figlie yazide liberate il giornalista ha incontrato anche un’altra ragazza di nome Hayda che è stata molto felice di togliersi il burka e indossare abiti normali. Non conosce la sua età perché fu separata da sua madre si presume a soli nove anni quando, in attesa di sposarsi, fu costretta a lavorare come domestica in una famiglia dell’Isis dove fu picchiata ripetutamente dalle donne islamiche tanto da provocarle una cicatrice sulla guancia e sulla nuca. E’ riuscita anche a parlare per la prima volta dopo due anni con sua madre, sfuggita due anni orsono dai fondamentalisti dello Stato Islamico. «Stava piangendo e stavo piangendo – disse Hadya – Mi è mancata così tanto». A breve finalmente potranno riabbracciarsi. Mentre si affidano alla preghiera i genitori cristiani della studentessa nigeriana rapita lo scorso anno da Boko Haram.



LA GIOVANISSIMA CRISTIANA PRIGIONIERA PER FEDELTA’ A CRISTOLa quindicenne cristiana Leah Sharibu rapita nel febbraio 2018 da Boko Haram in Nigeria

«Abbiamo fede in Dio e sappiamo che Lui può riportarci indietro Leah. Quindi non ci arrenderemo». Sono le parole pronunciate alla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre da Rebecca, la madre di Leah Sharibu, la quindicenne sequestrata dai guerriglieri di Boko Haram nel pomeriggio del 19 febbraio 2018 insieme ad altre 110 studentesse di età compresa tra gli 11 e i 19 anni in un college di Dapchi, nel nord-est della Nigeria. Nel marzo seguente, 101 ragazze sono state liberate, mentre altre sono morte per mano dei jihadisti. Leah è l’unica ancora in ostaggio perché, come hanno spiegato gli stessi estremisti alla madre, non ha voluto convertirsi all’Islam. «Siamo forti in Cristo e non smetteremo di chiedere il rilascio di nostra figlia» afferma Nathan Sharibu, il padre di Leah, che assieme alla moglie ringrazia ACS e tutti i cristiani che nel mondo hanno espresso loro solidarietà. Accanto alla coppia, vi è il pastore Gideon Para-Mallam, tutore e portavoce della famiglia. «I genitori di Leah sono forti, ma è grande la sofferenza nei loro cuori. Oggi abbiamo pregato insieme in questo triste anniversario». Il religioso nota come la giovane cristiana rappresenti un modello per tutti i suoi coetanei: «un’eroina della fede cristiana del XXI secolo e un simbolo della resilienza di quest’area della Nigeria in cui i cristiani soffrono persecuzione da molto tempo. Attraverso il rapimento di Leah, Dio ci sta inviando un messaggio molto forte. Il Cristianesimo non verrà mai distrutto, né da Boko Haram, né da nessuna forza al mondo». Assieme ai signori Sharibu, il pastore ha pregato oggi anche per tutte le altre ragazze – sia cristiane che musulmane – ancora ostaggio dei “talebani africani”.



IL GRUPPO INTERPARLAMENTARE PER I CRISTIANI PERSEGUITATI

Il deputato biellese di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro delle Vedove

E proprio mentre dalla Nigeria torna di drammatica attualità la tragica storia di Leah Sharibu a Roma nasce il gruppo interparlamentare per la “Tutela della libertà religiosa dei cristiani nel mondo”. Quarantuno membri della Camera e del Senato di Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia, Cinque Stelle e del Gruppo Misto animeranno questa realtà, che, come spiega La Nuova Bussola Quotidiana, si pone importanti obiettivi: «agevolare il ritorno dei cristiani del Medio Oriente nelle loro terre d’origine dopo la fuga dovuta alle guerre e al terrorismo islamista, il sostegno a progetti concreti per il radicamento di queste comunità e la loro convivenza pacifica con le altre componenti etnico-religiose, la promozione della libertà di culto nei trattati bilaterali che vengono sottoscritti con quei Paesi in cui la comunità cristiana subisce gravi forme di discriminazione e persecuzione». L’intergruppo è stato presentato ieri alla sala stampa della Camera dall’onorevole biellese Andrea Delmastro delle Vedove, capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Esteri, alla presenza di Fouad Abou Nader, presidente dell’organizzazione Nawraj che sostiene i cristiani del Libano, del giornalista Sebastiano Caputo, presidente della filiale italiana della fondazione SOS Cristiani d’Oriente, di Federica Celestini della Modavi Onlus e del giornalista Gian Micalessin, inviato di guerra e autore di Fratelli traditi. La tragedia dei cristiani in Siria. «Il gruppo nasce sotto buoni auspici visto che Delmastro ha annunciato che sta per essere istituito un fondo di due milioni di euro che andrà a finanziare i progetti di ricollocamento dei cristiani fuggiti dalle località del Medio Oriente martoriate da attentati e attacchi e da quelle che hanno conosciuto il dominio dello Stato Islamico – evidenzia il reportage di NBQ – A tal proposito Delmastro ha ricordato le persecuzioni perpetrate dagli islamisti contro le comunità cristiane in Siria, Iraq (specie nella Piana di Ninive) ed Egitto e ha evidenziato che prima del diritto a essere accolti c’è quello a vivere in pace nella terra in cui si è nati. Per questo motivo, lo scopo di fondo di ogni iniziativa sarà quello di ricostruire la presenza cristiana nelle regioni del Medio Oriente». E proprio il parlamentare di Fratelli d’Italia ha rammentato i dati salienti dell’ultimo rapporto di Aiuto alla Chiesa che Soffre: circa 300 milioni di cristiani che subiscono gravi o estreme violazioni della libertà religiosa in 38 Paesi del mondo; 15 mila fedeli attaccati durante funzioni religiose e 1.200 chiese distrutte nel 2018; circa il 61% della popolazione del mondo che vive in Stati in cui la libertà religiosa è colpita da forti restrizioni. In questa cornice il gruppo lavorerà anche per inserire il tema della libertà religiosa in tutti i trattati bilaterali, con particolare attenzione ai rapporti con Cina, Corea del Nord, Paesi arabi e in generale quelli a maggioranza musulmana. La questione sarà infine posta anche nell’ottica dell’allargamento dell’Ue a quei Paesi dei Balcani scossi dalle guerre etniche e interessati dal fondamentalismo islamico. «Vero motore dell’iniziativa dell’intergruppo è la filiale italiana di SOS Cristiani d’Oriente, associazione umanitaria nata in Francia nel 2013 in seguito alla presa di Maalula da parte di Al-Nusra (allora costola siriana di Al-Qaeda). L’aggressione al villaggio cristiano dove si parla ancora l’aramaico provocò un moto di solidarietà organizzato da un gruppo di ragazzi che, con il passare degli anni, si sono strutturati in una delle principali realtà di cooperazione e sviluppo in Siria e Libano».

Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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