L’errore madornale della politica è stato di
aver aperto la strada alla tirannia dei
mercati. Il vero obiettivo dell’Unione Europea e della BCE è sempre
stato quello di privare i governi nazionali della loro sovranità politica e democratica. Dire che la rinuncia alla sovranità
monetaria e l’autonomia della BCE comporta la sudditanza nei confronti delle banche, che sono le uniche ad
arricchirsi ogni volta che uno stato si indebita e paga maggiori interessi, non
è altro che descrivere la verità di un fatto incontestabile. Altra cosa invece
sarebbe capire perché gli stati dell’eurozona e i dirigenti politici di ogni
singola nazione abbiano scelto volontariamente di aderire a questo progetto strampalato di unificazione
monetaria, che non ha alcuna base scientifica: secondo le più
accreditate teorie valutarie sappiamo infatti che non esistevano in Europa i
presupposti di mobilità dei fattori produttivi (capitale e lavoro) per potere
fronteggiare eventuali shock asimmetrici. Quindi perché i nostri politici sono
andati avanti lo stesso? Vagliamo alcune ipotesi: i nostri politici sono degli incompetenti e pensavano davvero che
aggregarsi ad un progetto di moneta forte non svalutabile avrebbe comportato
dei vantaggi per l’economia italiana; i nostri politici sono dei mercenari e sapevano già che un’unione
monetaria così fatta avrebbe avvantaggiato soltanto i paesi strutturalmente più
forti e costretto i più deboli a scaricare i costi sui salari dei lavoratori (svalutazione
interna). Infine la via di mezzo: i nostri politici sanno e capiscono
tutto ma non fidandosi della loro capacità di amministrare bene lo stato senza
sperperi e sprechi, hanno preferito affidarsi al giudizio dei mercati finanziari, come se questi ultimi conoscessero
meglio di chiunque altro quale sia il metodo più razionale e sostenibile per
indirizzare gli investimenti. Questa terza ipotesi è sicuramente la più
curiosa, perché prevede un misto fra l’incompetenza e la malafede. Togliere
agli stati la possibilità di utilizzare la propria moneta e la propria banca
centrale per finanziare la spesa pubblica affidandosi esclusivamente al
sostegno dei mercati significa non capire affatto come funzionano i mercati
finanziari internazionali. Gli investitori della finanza ragionano infatti
sempre in un’ottica di breve periodo,
cercando guadagni facili, alti e possibilmente privi di rischio, mentre uno stato
per definizione deve concentrarsi sugli investimenti
di lungo periodo, che includono il miglioramento delle infrastrutture
pubbliche e il benessere sociale della cittadinanza, in termini di reddito e
servizi. Fra le due visioni c’è un abisso di incompatibilità, che si è rivelata
in tutta la sua grandezza nell’errata valutazione dei mercati dei titoli di
stato di paesi con problemi strutturali come Grecia, Spagna, Portogallo,
Irlanda e Italia, che per molti anni sono stati scambiati ad un valore abbondantemente
al di sopra di quello reale. Fra l’altro se i mercati fossero così corretti,
imparziali e precisi nelle loro scelte di investimento non assisteremmo con
ciclica frequenza all’insorgere di bolle speculative o crisi finanziarie. Eppure
i politici italiani hanno sempre creduto (ingenuamente o in malafede), nella
validità universale e assoluta del giudizio dei mercati, appoggiando con
convinzione la linea dell’austerità tedesca e le iniziative di aumento della
pressione fiscale. Ma se i nostri politici auspicano tanto un cambiamento
strutturale ed epocale dell’Unione Europea perché non cominciano a muoversi
autonomamente? I nostri governanti aspettano forse che sia Macron a lanciarsi
impavido contro i tecnocrati europei (cosa improbabile dato che deve a loro la
sua fortuna politica), e la perfida Merkel, verificheranno quale sarà il
risultato di questo scontro frontale e poi decideranno da che parte schierarsi.
Ancora in Europa non si era mai vista una posizione così chiara, autorevole e
determinata che indicasse nell’uscita dall’euro l’unica strada percorribile. Se
confrontiamo la limpidezza della Le Pen in Francia con la confusa ambiguità del
maggiore movimento politico di
estrazione populista, il Movimento
5 Stelle di Beppe Grillo, ci accorgiamo delle enormi differenze che
esistono fra chi ha le idee chiare e chi invece sguazza nella propaganda fine a
se stessa. Spulciando il programma del Movimento 5 Stelle non c’è nessuna
posizione definitiva riguardo all’euro e alla sostenibilità dell’intera
eurozona, perché a Beppe Grillo non interessa risolvere i problemi ma speculare e vivacchiare sui problemi
esistenti. Ma se non vuole ritornare ad una piena sovranità monetaria,
potrebbero spiegarci i grillini come intendono trovare i soldi per finanziare questi progetti? Vogliono aumentare
le tasse? Oppure ridurre soltanto gli sprechi come è giusto che sia? E una
volta azzerati gli sprechi e ridotto all’osso lo Stato, come continuare a
finanziare gli altri progetti? Sanno i grillini che per detassare e sostenere con
sussidi le imprese nazionali non bisogna avere vincoli di bilancio pubblico? In
Italia quindi devono essere ben altri i movimenti
e i partiti politici extra-parlamentari
che devono sobbarcarsi l’impegno di una seria
lotta all’euro, senza pregiudiziali o compromessi di sorta. Una lotta
basata su dati di fatto reali, evidenze empiriche, ragionamenti logici che
dimostrano come una moneta sbagliata, gestita in maniera sbagliata, può essere
la più grave minaccia per la stabilità sociale ed economica di una nazione. Nessuno
vuole fare una battaglia all’euro per partito preso, ma è l’euro stesso, per
come è stato progettato e congegnato, a muovere una guerra devastante contro tutti i popoli europei. Se non si ha
coscienza di questa verità, non si può andare da nessuna parte se non infilarsi
nel vicolo cieco dell’austerità,
dell’intervento sovranazionale della trojka
(UE, BCE, FMI), della ristrutturazione
del debito in stile greco e del ritorno al punto di partenza, senza
avere risolto nessuna delle cause del tracollo. I politici e i cittadini
europei devono cominciare a prendere in considerazione quello che prima era
ritenuto impensabile. La storia
è disseminata di unioni monetarie che si sono sciolte per palesi difetti di
progettazione. L'Irlanda ha lasciato la zona sterlina. I paesi baltici sono
fuggiti dal rublo russo. I cechi e gli slovacchi si sono separati
reciprocamente. Perché l'euro non
dovrebbe rompersi? I fondatori dell'euro sono stati troppo superficiali
a non prevedere turbolenze capaci di evidenziare come accade oggi le lacune di
progettazione, perché forse erano concentrati a creare un serio rivale del dollaro americano. E invece
i padri dell’euro sono riusciti nell’impresa non facile di ricreare una
versione moderna del gold standard,
abbandonata quasi cento anni fa dai loro predecessori. Incapaci di svalutare la
propria moneta, i paesi europei stanno lottando l’uno contro l’altro per
cercare di riguadagnare competitività tramite la "svalutazione interna", vale a
dire, spingendo verso il basso i salari e i prezzi. Uno dei motivi che tiene
ancora in piedi l’euro è la paura di un caos
finanziario ed economico senza precedenti. Un altro è l'impulso a
difendere l'investimento politico pluridecennale nel progetto europeo e le
proprie posizioni forti acquisite nel tempo, come quella della Germania. Non a
caso la cancelliera tedesca Angela
Merkel continua a ripetere che l’uscita dall’euro sarebbe "catastrofica".
La signora Merkel però non è pronta a prendere i provvedimenti definitivi
necessari per stabilizzare l'euro una volta per tutte. Il buon senso suggerisce
che i leader europei dovrebbero iniziare a pensare a come gestire un'eventuale
rottura improvvisa della moneta, ma nessuno di loro ha ancora il coraggio di
pianificare un serio programma di
uscita ordinata. Paradossalmente, sono gli stati fuori dall’euro come la
Gran Bretagna a riflettere e valutare le varie alternative. Un gruppo di
esperti inglesi vicini al Partito Conservatore euroscettico hanno indetto un
concorso per premiare con 250.000 sterline il miglior piano per gestire l’uscita dall'euro dei paesi
dell’eurozona. Uno dei concorrenti, Jonathan Tepper, ha elencato 69 casi di
rottura di una valuta o unione monetaria nel secolo scorso. Nella maggior parte
degli esempi riportati i paesi coinvolti non hanno avuto gravi danni economici
a lungo termine. In realtà, lasciando l'euro sarebbe più probabile che i paesi
più in difficoltà sarebbero in grado di recuperare in fretta. Il signor Tepper
ha illustrato uno scenario per l’uscita dall’euro proponendo una riconversione dei
titoli di stato in valuta
nazionale. Bisognerebbe tenere chiuse le banche per almeno una settimana per aggiornare il software e
cambiare tutti i depositi in moneta sovrana nazionale. Dovrebbero essere
effettuati controlli sui capitali
per impedire la fuga di denaro all'estero. Per i contanti, si potrebbero
utilizzare le banconote in euro esistenti segnalate magari con un particolare
inchiostro o un timbro. Una volta stampate le nuove banconote in valuta nazionale, verrebbero ritirate le
vecchie banconote euro e il passaggio sarebbe in pratica concluso. Nel loro
programma Jens Nordvig e Nick Firoozye sostengono che mettendo a punto una pianificazione controllata si
potrebbero ridurre incertezze e perdite. Le soluzioni non mancano, ma il destino dell'euro sarà
probabilmente determinato da una convergenza
di scelte politiche ed economiche. Uno stato debitore, come l’Italia o
la Spagna, potrebbe alla fine stancarsi di applicare programmi di austerità o
svalutazione interna. Uno stato creditore a sua volta potrebbe stancarsi di
sostenere gli altri. Ma l'esito peggiore di eventuali controversie sarebbe
un’uscita caotica dall’euro, mentre un ordinato processo di uscita potrebbe
diminuire le perdite e aumentare i benefici del ritorno alla sovranità monetaria, salvando dalla disintegrazione i
principi generali e fondamentali del mercato
unico, a cui nessun paese in verità ha mai detto di voler rinunciare. Il tutto dovrebbe comunque partire dalla
nazionalizzazione delle banche. Quindi, un mercato unico sì, ma
salvaguardando i risparmi e l’economia dei singoli paesi membri, e non
l’interesse finanziario dei banchieri. Da troppo tempo le leggi in materia
creditizia sono state portate a livelli internazionali, di fatto esautorando i
parlamenti nazionali. Non decide più il governo nazionale, nemmeno si decidono
le cose a Bruxelles, ma nelle grandi piazze finanziarie mondiali, che fissano i
parametri per accedere al credito e le direttive di politica finanziaria da imporre
ai singoli paesi. Tutto questo ha di fatto condotto ad un vero e proprio Colpo di Stato Finanziario che ha di fatto
terminato la democrazia partecipativa e la sovranità delle istituzioni Governo
e Parlamento in Italia e in Europa. Il nuovo governo ne tenga conto se vuole
“scrivere la storia” del cambiamento in Italia.
CINZIA PALMACCI