La Guerra Fredda 2.0 ha colpito il Sud America con un tuono, mettendo di fronte gli Stati Uniti e i suoi prevedibili lacchè contro i quattro pilastri della marcia verso l’integrazione euroasiatica: Russia, Cina, Iran e Turchia.
È il petrolio, stupido. Ma c’è molto di più di quel che colpisce gli (oleosi) occhi.
Caracas ha commesso il peccato capitale agli occhi dell’Eccezionalistan: commerciare il petrolio aggirando il dollaro degli Stati Uniti o le borse da loro controllate.
Ricordiamoci dell’Iraq. Della Libia. Anche l’Iran lo sta facendo. La Turchia lo fa. La Russia è, parzialmente, sulla via di farlo. E la Cina finirà per commerciare tutta la sua energia in petroyuan.
Il Venezuela, in fase di adozione del petro-cripto e con la sua moneta sovrana bolivar, già dall’anno scorso è stato sanzionato dall’amministrazione Trump, che ha espulso Caracas dal sistema finanziario internazionale.
Non c’è da stupirsi se Caracas è sostenuta dalla Cina, dalla Russia e dall’Iran. Essi sono la vera, dura troika, non la fumettistica “troika della tirannia” vagheggiata dallo psico-killer John Bolton, che combatte contro la strategia di dominazione energetica della amministrazione Trump, consistente in soldoni nell’imporre totalmente il commercio del petrolio in petrodollari, per sempre.
Il Venezuela è un ingranaggio chiave nel meccanismo. Lo psico-killer Bolton l’ha ammesso in una registrazione: “Per gli Stati Uniti, farebbe una grande differenza poter avere le compagnie americane investire e produrre dalle riserve petrolifere del Venezuela”. Non è solo il permettere alla ExxonMobil di prendersi le massicce riserve petrolifere venezuelane, le più grandi del pianeta, il punto chiave è il monopolizzare il loro sfruttamento in dollari americani, il tutto a beneficio di una manciata di miliardari petroliferi.
Ancora una volta, la maledizione delle risorse naturali è all’opera. Al Venezuela non deve essere permesso di approfittarsi della sua ricchezza come meglio preferisce. L’Eccezionalistan ha decretato che lo stato venezuelano debba essere fatto a pezzi.
Alla fin fine, tutto si riduce alla guerra economica. Il segnale l’ha dato il Dipartimento del Tesoro statunitense quando ha imposto [in inglese] nuove sanzioni alla PDVSA, ammontanti, di fatto, ad un embargo petrolifero contro il Venezuela.
La riedizione della guerra economica
Ora è decisamente chiaro che gli eventi accaduti a Caracas non sono dovuti ad una rivoluzione colorata, ma ad un cambio di regime della vecchia scuola, promosso dagli Stati Uniti usando le élite compradore locali e installando come “presidente ad interim” una sconosciuta nullità, Juan Guaidó, che maschera le sue credenziali di estrema destra dietro un aspetto da chierichetto.
Tutti si ricordano di “Assad deve andarsene”. Il primo stadio della rivoluzione colorata siriana fu l’istigazione di una guerra civile, seguito da una guerra per procura mediante mercenari jihadisti internazionali. Come ha notato Thierry Meyssan, il ruolo sostenuto allora dalla Lega Araba è oggi interpretato dalla OSA [in italiano]. Ed il ruolo degli Amici della Siria, adesso smaltiti nella pattumiera della storia, è ora sostenuto dal Gruppo di Lima, il club dei vassalli di Washington. Al posto dei “ribelli moderati” di al-Nusra, potremmo avere dei “ribelli moderati” mercenari colombiani o altri assortiti e addestrati negli Emirati.
Al contrario delle bufale apparse sui media occidentali, le ultime elezioni in Venezuela sono state assolutamente legittime. Non c’è modo di manomettere le macchine per il voto elettronico costruite a Taiwan. Il Partito Socialista al potere ha ottenuto il 70% dei voti, l’opposizione, con molti dei suoi partiti che le hanno boicottate, ha preso il 30%. Una seria delegazione del Concilio Latino Americano di Esperti Elettorali (CEELA) è stata netta, le elezioni hanno riflesso “pacificamente e senza problemi, il volere dei cittadini venezuelani”.
L’embargo americano può essere feroce. Parallelamente, il governo può essere stato sommamente incompetente per non aver diversificato l’economia ed investito nell’autosufficienza alimentare. I più grandi importatori alimentari, speculando come se non ci fosse un domani, stanno facendo affari d’oro. Nonostante ciò, fonti affidabili a Caracas dicono che i barrios, i quartieri popolari, restano in gran parte tranquilli.
In un paese in cui un pieno di benzina costa anche adesso meno di una lattina di Coca Cola, non c’è dubbio sul fatto che la penuria cronica di cibo e medicine nelle cliniche locali abbia spinto almeno due milioni di persone a lasciare il Venezuela. Ma il fattore di costrizione chiave è l’embargo statunitense.
Alfred de Zayas, inviato dell’ONU in Venezuela, esperto di legge internazionale ed ex segretario del Concilio per i Diritti Umani dell’ONU, va [in inglese] direttamente al punto: “Molto più che nella proverbiale demonizzazione di Maduro, Washington sta combattendo una guerra economica contro un’intera nazione”.
È illuminante osservare come “il popolo venezuelano” veda la farsa. In un sondaggio condotto da Hinterlaces ben prima dei sogni eccitati sui golpe/cambi di regime dell’amministrazione Trump, l’86% dei venezuelani dicevano di essere contrari ad ogni sorta di intervento statunitense, militare o no.
E l’81% dei venezuelani erano contrari alle sanzioni statunitensi. Fine della discussione sull’interferenza straniera “benigna” in difesa della “democrazia” e dei “diritti umani”.
Il fattore russo-cinese
Le analisi di osservatori ben informati, come Eva Golinger [qui, un suo video in inglese] e soprattutto il collettivo [in spagnolo] Mision Verdad, sono di estremo aiuto. Quel che è certo, quando entra in modalità Impero del Caos, è che il libretto americano, oltre embargo e sabotaggi, prevede l’attivazione di una guerra civile.
Sospetti “gruppi armati” si sono attivati nei barrios di Caracas, agendo nel cuore della notte e amplificando la “rivolta social” sui social media. Nonostante ciò, Guaidó non ha assolutamente nessun potere all’interno del paese. La sua sola possibilità di successo è quella di riuscire a formare un governo ombra, finanziandosi con le entrate petrolifere e di avere Washington impegnato ad arrestare i membri del governo in base ad accuse inventate.
A prescindere dai sogni eccitati dei neocon, gli adulti al Pentagono dovrebbero sapere che un’invasione del Venezuela può metastatizzarsi in un pantano tropicale simile al Vietnam. Hamilton Mourao, l’uomo forte brasiliano in attesa, vice presidente e generale pensionato, ha già detto che non vi sarà nessun intervento militare.
La famigerata bravata col notepad sui “5.000 soldati in Colombia” fatta dallo psico-killer John Bolton è uno scherzo, non avrebbero possibilità contro i presumibili 15.000 cubani a cui è affidata la sicurezza del governo di Maduro. I cubani hanno dimostrato storicamente di non essere in affari nel ramo di cedere il potere.
Il tutto finisce per ridursi a ciò che Russia e Cina potrebbero fare. La Cina è il più grande creditore del Venezuela. L’anno scorso Maduro è stato ricevuto da Xi Jinping a Pechino, ha ottenuto un extra prestito di 5 miliardi di dollari ed ha firmato almeno 20 accordi bilaterali.
Il Presidente Putin ha offerto il suo sostegno a Maduro durante una telefonata in cui ha diplomaticamente sottolineato che “le interferenze distruttive dall’estero violano sfacciatamente le norme fondamentali della legge internazionale”.
A gennaio del 2016 il petrolio era al minimo di 35 dollari a barile, un disastro per le casse del Venezuela. Allora Maduro decise di trasferire alla russa Rosneft il 49,9% della proprietà di una sussidiaria della PDVSA, la Citgo, per un prestito di appena 1,5 miliardi di dollari. Questo mandò una raffica di luci rosse a Washington, quei “diabolici” russi erano ora parzialmente proprietari della risorsa principale del Venezuela.
Alla fine dell’anno scorso, avendo ancora necessità di soldi, Maduro ha aperto lo sfruttamento dell’oro alle compagnie minerarie russe. E c’è di più: nickel, diamanti, minerali ferrosi, alluminio, bauxite, tutta roba bramata da Russia, Cina e… Stati Uniti. Per quanto riguarda l’1,3 miliardi di dollari di oro venezuelano, scordatevi il suo rimpatrio dalla Banca di Inghilterra.
E poi, a dicembre scorso, è arrivata la pagliuzza che ha rotto la schiena allo Stato Profondo: l’amichevole volo di due bombardieri Tu-160 russi a capacità nucleare. Come si sono permessi? Nel nostro cortile di casa?
Il piano [in inglese] principale dell’amministrazione Trump potrebbe perfino essere quello di annettere il Venezuela ad un cartello delle “Nazioni Nord e Sud Americane Esportatrici di Petrolio” (NASAPEC), capace di rivaleggiare con l’OPEC plus, la storia d’amore fra Russia e la Casa dei Saud.
Ma anche se tutto ciò si avverasse, aggiungendo pure una possibile alleanza fra Stati Uniti e Qatar per il gas LNG, non ci sono garanzie che sia sufficiente ad assicurare a lungo termine la preminenza del petrodollaro e del petrogas.
L’integrazione energetica dell’Eurasia aggirerà, per la gran parte, il petrodollaro: questo è alla base sia della strategia dei BRICS che di quella dello SCO. Dal Nord Stream 2 al Turk Stream, la Russia sta mettendo in sicurezza una collaborazione a lungo termine con l’Europa. E la predominanza del petroyuan è solo questione di tempo. Mosca lo sa. Teheran lo sa. Ankara lo sa. Riyadh lo sa.
Quindi, che ne è del vostro piano B, neoconservatori? Siete pronti per il vostro Vietnam tropicale?
Nessun commento:
Posta un commento