lunedì 12 novembre 2018

Virginia Raggi è stata assolta. Ma non dall'incompetenza


SE OFFENDERE LA CATEGORIA DEI GIORNALISTI (QUELLI D'INCHIESTA RISCHIANO PURE LA VITA), LA FA SENTIRE MEGLIO FACCIA PURE, MA LA SCUSA CHE SONO I GIORNALISTI AD IMPEDIRLE DI LAVORARE BENE PER ROMA E' COME UN PARAVENTO DI CARTA SOTTO UN'ALLUVIONE. E POI LA SOLITA RETORICA DEL DISASTRO TROVATO PRIMA DI LEI AL COMUNE DI ROMA E' DA POLITICANTI. PURE LA SUA COLLEGA APPENDINO HA TROVATO UNA SITUAZIONE NON FACILE AL COMUNE DI TORINO, MA SENZA POLEMICHE SI E' DATA DA FARE E STA FACENDO DI GRAN LUNGA MEGLIO DI LEI

Virginia Raggi è stata assolta. Ma non dall'incompetenza

La sindaca è stata assolta nel processo per falso. Per i giudici le dichiarazioni all'Anticorruzione in merito alla promozione del fratello del suo ex fedelissimo, Raffaele Marra, non costituiscono reato. Ma Virginia ha detto menzogne ben più gravi, e combinato guai assai peggiori: doveva lasciare da un pezzo per manifesta incapacità



Alessandro Di Battista è uno che ha sempre le idee chiare. «Il sindaco di Roma è solo una foglia di fico in un sistema complesso gestito da criminali» ha sentenziato il grillino. «Senza che magari se ne sia reso conto. Questo non significa che il sindaco sia coinvolto. Ma per incapacità non è degno di fare il sindaco a Roma. Gli incapaci sono colpevoli quanto i delinquenti. Credono di poter comandare, e invece sono comandati».

Chissà se in questi ultimi mesi a Virginia Raggi, riascoltando le parole che il compagno di partito urlava nel 2014 chiedendo le dimissioni di Ignazio Marino travolto dalle accuse dei magistrati a Buzzi e Carminati, saranno fischiate le orecchie. Di certo Di Battista, mago della doppia morale, se le è dimenticate: se dopo gli arresti e i processi per corruzione di Raffaele Marra e Luca Lanzalone, braccio destro e sinistro della sindaca pentastellata, ha sempre difeso la sua amica senza se e senza ma, oggi - pochi minuti dopo l’assoluzione della grillina - ha vomitato insulti mai sentiti da un politico contro i giornalisti. «Pennivendoli e puttane».
"Vado avanti a testa alta per Roma, la mia amata città, e per tutti i cittadini". Così la sindaca di Roma Virginia Raggi commenta la sentenza di assoluzione dall'accusa di falso ideologico nell'ambito del processo che la vedeva imputata per la nomina di Renato Marra. Il giudice Roberto Ranazzi durante la lettura della sentenza arrivata dopo meno di un'ora di camera di consiglio ha detto che "Il fatto c'è, ma non costituisce reato" in base all'articolo 530 comma 1 del codice di procedura penale. Il pm aveva chiesto la condanna di 10 mesi di Francesco Giovannetti

È un fatto, invece, che l'avventura della Raggi rischiava di concludersi anzitempo solo a causa di un cortocircuito politico, e di incapacità strategiche, più che giudiziarie.

Il M5S temeva il peggio, ma il giudice monocratico ha sentenziato che le dichiarazioni di Virginia davanti al dirigente dell’Anticorruzione (a cui giurò che fu lei, e non Raffaele - al tempo direttore del Personale - a scegliere in piena autonomia lo scatto di carriera e di stipendio del di lui fratello, Renato) non costituiscono reato.
Chi scrive (nonostante sia stato L'Espresso a pubblicare nel settembre del 2016 l'inchiesta giornalistica sui rapporti tra Marra e l'imprenditore Sergio Scarpellini, articolo che ha dato il via al filone penale sulla corruzione dell'ex finanziere; dopo il sequestro del suo cellulare e il ritrovamento di alcune chat tra Marra e la sindaca, i pm di Roma hanno poi aperto un nuovo rivolo, accusando la Raggi di falso) crede che la sindaca non avrebbe mai dovuto lasciare a causa di una condanna per un reato “bagatellare”.

Paradossalmente sono stati proprio i Cinque Stelle a infilarsi da soli il nodo scorsoio che poteva strozzare il Campidoglio e gettare nel caos il movimento nazionale: la legge Severino non prevede, per pene minori, alcuna ripercussione o sospensione del pubblico ufficiale condannato. È infatti il rigido codice etico del partito a obbligare gli amministratori grillini condannati a dimettersi dall'incarico. Anche se la sentenza è solo di primo grado, e anche di fronte a reati minori che censurano comportamenti scorretti, ma non certo gravissimi da un punto di vista etico e politico.

Perché rispetto ai disastri e alle altre menzogne della Raggi, che non hanno avuto rilievi penali, il presunto falso raccontato al pubblico ufficiale dell'authority di Cantone appare francamente come una quisquilia. La Raggi ha mentito ai romani più volte. Affermando che «Marra (appena arrestato, ndr) era solo uno dei 23 mila dipendenti del Comune». Ha mentito pure sull'ex assessore Paola Muraro: nonostante fosse venuta a conoscenza dell'indagine sulla sua collaboratrice, Virginia per 50 giorni negò di essere a conoscenza di eventuali procedimenti giudiziari contro di lei. Senza dimenticare le omissioni sul curriculum, come quelle sul passato da praticante nello studio di Cesare Previti, o sulla presidenza di una società dell'ex segretario di Franco Panzironi, appena condannato per Mafia Capitale.

Se, come dice Di Battista, «gli incapaci sono colpevoli quanto i delinquenti, perché credono di poter comandare, e invece sono comandati», è un fatto che la Raggi si sia fatta consigliare e guidare da due Rasputin, entrambi finiti in manette per corruzione. Marra, in primis, a cui Virginia ha consegnato le chiavi del Campidoglio nonostante le inchieste giornalistiche e i dubbi di parte del movimento (Roberta Lombardi su tutti). Poi Luca Lanzalone, scelto dal gennaio 2017 come nuovo consigliere, dopo i suggerimenti di pezzi da novanta come Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro.

La Raggi da gennaio 2017 ha messo la città di Roma nelle mani di un avvocato di Genova che, secondo la procura capitolina, era al soldo di un'associazione a delinquere guidata dal costruttore Parnasi, da cui Lanzalone avrebbe ricevuto circa 100 mila euro tra utilità e consulenze in cambio di un'iter rapido per il via libera al progetto dello stadio di Tor di Valle.

«Chi ha sbagliato pagherà», ripete sempre la Raggi a ogni inciampo e scandalo, come se non fosse stata lei a promuovere Marra, e a piazzare Lanzalone a presidente dell'Acea. O a nominare un fedelissimo del suo Mr Wolf a commissario straordinario dell'Istituto di previdenza dei dipendenti comunali (Ipa), il livornese Fabio Serini, con un contratto a oltre 115 mila euro l'anno.

Peccato che Serini (anche lui indagato per corruzione) non fosse un commercialista qualunque, ma un uomo che Lanzalone conosceva assai bene: quando Serini era commissario giudiziale dell'azienda dei rifiuti di Livorno (Ammps), Lanzalone e il suo socio Luciano Costantini ne erano infatti i consulenti legali, incaricati alla difesa dell'azienda.

Qualche giorno fa i carabinieri del Nucleo investigativo di Roma hanno scoperto «che non solo Luca Lanzalone ha aiutato Serini (in pieno conflitto di interessi, ndr) ad ottenere dal sindaco Raggi la nomina a commissario dell'Ipa» ma che lo stesso Serini, una volta nominato dalla grillina, ha poi affidato allo studio di Lanzalone «incarichi remunerati». Se Parnasi dava o prometteva a Lanzalone consulenze pagate con denaro privato, in pratica, stavolta si tratta di soldi pubblici dei contribuenti.

Un do ut des che vede la sindaca nel ruolo di vittima, o – come ci dicono gli inquirenti - di "trafficata". Possibile che la Raggi si sia fatta raggirare ancora una volta da soggetti a cui aveva dato totale fiducia? Leggendo e analizzando le carte, sembra proprio di sì.

Al netto delle capacità nella gestione della Città eterna, sprofondata dal suo arrivo ancor più nel degrado e nella sporcizia, con municipalizzate sull'orlo del fallimento, strade e quartieri violenti e insicuri, verde pubblico e parchi incolti, autobus dell’Atac in fiamme e scale mobili della metro che crollano, in un Paese normale sarebbe bastato solo uno degli scandali che hanno asfissiato Roma e il Campidoglio negli ultimi due anni a costringere la Raggi a fare un passo indietro.

Invece a gettare la Capitale (e il M5S) nel caos politico rischiava di essere un reato bagatellare.

Le reazioni dei pentastellati, dei media e delle opposizioni alla sentenza di assoluzione sono altri segni evidente della subordinazione costante della politica italiana alla magistratura.

Di Maio, in grande difficoltà politica a livello nazionale, mangiato nei sondaggi dall’avanzata del socio di maggioranza Salvini, ha subito sfruttato l’occasione per dare addosso ai giornalisti, definiti «infimi sciacalli, cani da riporto di mafia capitale, vera piaga di questo Paese, corrotti intellettualmente e moralmente».

Insieme al violento attacco ai media (rei di aver fatto ancora una volta solo il proprio lavoro, dando conto ai lettori delle cronache giudiziarie e delle notizie sulle inchieste), il vicepremier ha annunciato anche «una legge sugli editori puri», una minaccia neppure tanto velata di epurazione in massa della stampa a lui sgradita.

Quando il potere vuole mettere il bavaglio alla stampa libera, vuol dire che ha paura, ed è fragile. Detto questo, mala tempora currunt.

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