lunedì 19 novembre 2018

La Terra è in una spirale mortale. Servono azioni radicali per salvarci

Il collasso climatico potrebbe essere rapido e imprevedibile. Non possiamo più permetterci di prendere tempo e sperare che cambiamenti irrilevanti evitino il disastro.
E’ stato un momento di quelli che cambiano la vita. A una conferenza stampa tenuta la settimana scorsa dagli attivisti di Extinction Rebellion, due di noi giornalisti presenti incalzavamo gli organizzatori riguardo alla perseguibilità dei loro obiettivi. Per esempio, avevano affermato che le emissioni di anidride carbonica nel Regno Unito avrebbero dovuto essere azzerate entro il 2025; non sarebbe meglio, chiedevamo, porsi degli obiettivi intermedi?
Una ragazza di nome Lizia Woolf si fece avanti. Non aveva parlato fino a quel momento ma la passione, la disperazione e la rabbia della sua risposta furono assolutamente emozionanti. “Che senso ha chiedere a me, una ventenne, cosa affrontare e cosa accettare riguardo al mio futuro e alla mia vita? Questa è un’emergenza. Andiamo incontro a un’estinzione. Quando fate domande come questa come pensate che mi dovrei sentire?” Non avevamo risposte.
Obiettivi più modesti potrebbero essere politicamente realistici ma non sono concretamente realistici. Soltanto cambiamenti commisurati alla dimensione della nostra crisi esistenziale hanno una possibilità di scongiurarla. Un realismo disperato, che si ferma ai margini del problema, ci porta dritti al disastro. Non ce ne terrà fuori.
I soggetti pubblici parlano e si comportano come se i cambiamenti climatici fossero lineari e graduali. Ma il sistema terrestre è altamente complesso e i sistemi complessi non rispondono alla pressione in modo lineare. Quando questi sistemi interagiscono (poiché l’atmosfera, gli oceani, le terre emerse e le forme di vita non stanno pacificamente chiusi nelle scatole che ne facilitano lo studio), le loro reazioni al cambiamento diventano altamente imprevedibili. Piccole perturbazioni possono propagarsi in modo incontrollato. Punti critici possono restare invisibili fino a quando non sono stati oltrepassati. Potremmo assistere a cambiamenti di stato così improvvisi e profondi da non poter ipotizzare con sicurezza alcuna continuità.
Basta che uno soltanto dei molti sistemi dai quali dipendiamo per la nostra sopravvivenza – relativi ai suoli, alle acque, alle piogge, ai ghiacci, ai modelli di venti e correnti, all’impollinazione, alla ricchezza e diversità biologica – collassi perché ogni cosa precipiti. Per esempio, se il ghiaccio del mare Artico si scioglie oltre una certa soglia, i feedback positivi che questo innesca (come l’acqua più scura che assorbe più calore, sciogliendo il permafrost e rilasciando metano, si spostano nel vortice polare) potrebbero rendere inarrestabile la fuga del clima. Quando lo stadiale del Dryass recente terminò 11.600 anni fa, le temperature si alzarono di 10 gradi centigradi in una decade.
Io non credo che un tale collasso sia già inevitabile, o che una risposta commisurata sia tecnicamente o economicamente impossibile. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel 1941 sostituirono un’economia civile con un’economia militare in pochi mesi. Come Jack Doyle riferisce nel suo libro “Taken for a Ride”, “In un anno la General Motors sviluppò, implementò e costruì da zero 1.000 Avengers e 1.000 aerei Wildcat…  Neanche un anno dopo la sottoscrizione di un contratto per la costruzione di missili antinave, la Pontiac cominciò a consegnare il prodotto finito alle squadriglie in tutto il mondo”. E questo avveniva prima che un’avanzata tecnologia informatica rendesse tutto più veloce.


Il problema è politico. Un’affascinante analisi condotta dal professore di scienze sociali Kevin MacKay sostiene che l’oligarchia è stata la causa fondamentale del collasso delle civiltà, piuttosto che la complessità sociale o il fabbisogno energetico. Il controllo da parte delle oligarchie, argomenta, contrasta un processo decisionale razionale poiché gli interessi a breve termine dell’élite differiscono radicalmente dagli interessi a lungo termine della società. Questo spiega perché civiltà del passato sono crollate “nonostante possedessero le conoscenze culturali e tecnologiche necessarie per risolvere le loro crisi”. Le élites economiche, che traggono vantaggio dalle disfunzioni sociali, bloccano le necessarie soluzioni.
Il controllo oligarchico della salute, della politica, dei media e della narrativa pubblica spiega il completo fallimento istituzionale che ci sta spingendo verso il disastro. Si pensi a Donald Trump e al suo gabinetto di multimilionari; al ruolo dei fratelli Koch nel finanziamento di organizzazioni dell’ala più estrema del partito repubblicano; all’impero di Murdoch e al suo determinante contributo riguardo al negazionismo climatico; o alle compagnie petrolifere e automobilistiche la cui attività di lobbying impedisce un rapido passaggio a nuove tecnologie.
Non sono soltanto i governi ad aver mancato di reagire, sebbene lo abbiano fatto in maniera eclatante. I media controllati dal sistema pubblico hanno operato una sistematica copertura in materia ambientale, permettendo nel contempo a lobbisti opacamente finanziati di mascherarsi da think tanks per influenzare la narrativa ufficiale e negare quello che ci sta di fronte. Gli accademici, timorosi di scontentare i loro finanziatori e colleghi, si sono cuciti la bocca.
Anche soggetti che sostengono di condividere le nostre opinioni rimangono intrappolati nei loro schemi distruttivi. Mercoledì scorso ho partecipato a un convegno sul dissesto ambientale presso l’Institute for Public Policy Research. Sembrava che molti dei presenti in sala capissero che una continua crescita economica non è compatibile con la sostenibilità dei sistemi terrestri.
Come precisa l’autore Jason Hickel, un raddoppio nella crescita del PIL derivante dall’uso di risorse globali non si è mai verificato e mai si verificherà. Mentre il consumo di 50 miliardi di tonnellate di risorse all’anno è approssimativamente il limite che i sistemi terrestri possono tollerare, il mondo sta già consumando 70 miliardi di tonnellate. Ai tassi correnti di crescita economica, il quantitativo salirà a 180 miliardi di tonnellate entro il 2050. La massima efficienza nell’uso delle risorse unita a pesanti tasse sul carbone potrebbe ridurre tale quantitativo nel migliore dei casi a 95 miliardi di tonnellate: sempre oltre i limiti di tollerabilità ambientale. Una crescita “verde”, che i membri dell’istituto riterrebbero accettabile, è concretamente impossibile.
Nello stesso giorno, l’Istituto annunciava un importante premio nell’ambito della nuova economia per “proposte ambiziose volte a conseguire un cambio di passo nel tasso di crescita”.  Cioè idee che consentano ai tassi di crescita economica nel Regno Unito almeno di raddoppiarsi. L’annuncio era accompagnato dal solito bla bla riguardo alla sostenibilità ma non risulta che alcuno dei giudici del premio possieda esperienze di interesse ambientale di qualche evidenza.


Coloro dai quali ci aspettiamo soluzioni procedono come se nulla fosse cambiato. Come se le evidenze maturate non abbiano alcuna presa sulla loro mente. Decadi di fallimenti istituzionali garantiscono che solo proposte “non realistiche” – la rifinalizzazione della vita economica con effetto immediato – hanno ora una possibilità realistica di fermare la spirale di morte planetaria. E questo sforzo può essere condotto soltanto da coloro che sono fuori dalle istituzioni fallimentari.
Due sforzi devono essere compiuti contemporaneamente: prendere in considerazione la possibilità che il collasso possa essere evitato, come sta facendo Extinction Rebellion, per quanto labile sia questa possibilità; e prepararsi al probabile fallimento di ogni tentativo, per quanto spaventosa sia tale prospettiva. Entrambi gli sforzi richiedono una completa revisione del nostro rapporto con il pianeta vivente.
Poiché non possiamo salvarci senza affrontare il controllo oligarchico, la lotta per la democrazia e la giustizia e la lotta contro il collasso ambientale coincidono: non dobbiamo permettere a coloro che hanno causato questa crisi di stabilire i limiti dell’azione politica; non dobbiamo permettere a coloro la cui suggestione ci ha portato a questo disastro di dirci cosa possiamo e cosa non possiamo fare.

George Monbiot è un giornalista del Guardian
Fonte: www.theguardian.com

Nessun commento: