mercoledì 27 febbraio 2019

VENEZUELA, MIGLIAIA IN MARCIA PRO MADURO: CENSURA MEDIA



MENTRE L’UE, SENZA L’ITALIA, LEGITTIMA IL GOLPISTA
A CARACAS FOLLA BALLA IN PIAZZA COI LAVORATORI
DELL’AZIENDA PETROLIFERA BLOCCATA DAGLI USA.
MA LA STAMPA OCCIDENTALE PARLA SOLO DI GUAIDO’
CHE RIFIUTA IL DIALOGO COL GOVERNO BOLIVARISTA.
AEREO SPIA AMERICANO INTERCETTATO IN COLOMBIA

___di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___

E’ assolutamente vergognoso che sia un piccolo webmedia come Gospa News a dover rendere noto all’occidente che migliaia e migliaia di persone sono scese in piazza a Caracas ieri pomeriggio, giovedì 31 gennaio, per manifestare gioiosamente a favore del presidente democraticamente eletto Nicolas Maduro e in difesa dell’azienda petrolifera statale Pdvsa (Petroleas de Venezuela) a cui gli Usa hanno bloccato i conti in America (con a quelli della controllata statunitense Citgo). La Pdvsa è una straordinaria invenzione del socialismo bolivariano con cui Hugo Chavez ha statalizzato gli immensi giacimenti petroliferi dell’Orinoco strappandoli al cartello delle 7 sorelle anglo-americane. Ancor più inverecondo è il fatto che i media diano spazio alle denunce del politico golpista che dipinge l’immagine di un paese in guerra mentre una folla ieri ballava gioconda per le strade nell’oscuramento mediatico totale. Dal palco un dipendente Pdvsa di carisma potente, capace di evocare l’impeto travolgente dell’elettricista Lech Walesa di Solidarnosc, come tanti in maglietta e cappellino rosso aziendali, ha scaldato la gente al grido “Hasta la victoria siempre” rievocando Che Guevara, ma soprattutto Simon Bolivar, la Rivoluzione Bolivariana di Chavez e infine Nicolas Maduro, difensore della patria dai “ladrones americano”. In un clima di tipica allegra festa sudamericana, operai della società petrolifera coi caschetti rubenti, belle venezuelane sorridenti, nonne, mamme, ragazzini, hanno inneggiato al presidente Maduro, cantato, danzato, mostrato le mani a forma di cuore e anche pregato (il paese è al 90 % cristiano cattolico), ma soprattutto hanno ascoltato il ritornello scandito ripetutamente dall’oratore: “un paese non si vende, un paese si difende”: uno slogan che è tragico preludio a un’inevitabile guerra civile se l’occidente continuerà a gettare benzina sul fuoco delle proteste sostenendo un evidente tentativo di golpe fomentato dall’avidità di petrolio e dalla paura del Petrocoin, la prima criptovaluta di stato al mondo che vuole essere concorrenziale al dollaro sul mercato internazionale dell’oro nero.

L’intervento di un funzionario dell’azienda petrolifera Pdvsa durante la marcia

Dopo di lui ha preso la parola l’energica vicepresidente venezuelana Delcy Rodríguez in sportiva maglietta coi colori nazionali giallo-blu e banda rossa chavista. Ma i media internazionali erano tutti concentrati altrove. I giornalisti erano impegnata a scrivere dei 29 o 36 morti oggi divenuti improvvisamente 70 (non si sa ancora quanti e soprattutto se siano i militari insorti contro l’esercito o manifestanti), a ricamare sulla precedente piazzata dell’autoproclamato presidente ad interim Juan Guaidò, a narrare della perquisizione a casa sua in cerca della moglie attivista e blogger Fabiana Rosales da parte degli agenti Faes (Fuerza de Acción Especial de la Policía Nacional Bolivariana) e soprattutto della risoluzione dell’Unione Europea che (439 sì, 104 no e 88 astensioni) legittima il leader dell’opposizione. Fortunatamente, nel dispiacere del servile Presidente del Parlamento Ue Antonio Tajani, l’Italia si è chiamata fuori dalla vicenda e gli europarlamentari Lega, M5S e Pd si sono astenuti dal riconoscere Guaidò, colui che è stato additato da Maduro, dalla Russia, dalla Cina, dal Messico, dalla Bolivia e da Cuba, come un usurpatore golpista filostatunitense; profilo che emerge anche dalla sua storia politica all’ombra di Leopoldo Lopez, considerato agente Cia e collaborazionista del repubblicano George Bush (autore di un golpe armato contro Chavez nel 2002) così come del democratico Barack Obama (leggi articolo precedente Guaidò, l’Obama sbiancato agente Usa a Caracas, link a fondo pagina).La manifestazione giunge nella giornata in cui Maduro aveva espresso la disponibilità ad aprire un dialogo con Guaidò, leader dell’opposizione Mud (detentrice di 112 seggi in Parlamento) che ha rifiutato l’invito così come inspiegabilmente aveva rinunciato alla corsa alle presidenziali del maggio 2018, in cui fu riconfermato l’attuale presidente. Oggi però lo stesso Guaidò torna all’attacco in un’intervista al TG2 riportata come top news dall’Ansa: «Maduro ha perso il controllo del paese e la popolazione sta soffrendo. Ci sono 70 giovani assassinati in una settimana dal faes, le forze speciali di polizia, e 700 persone in carcere, 80 minorenni addirittura bambini». Notizie e numeri senza alcuna conferma ufficiale, accreditati parzialmente solo da organizzazioni per i diritti umani finanziate dagli Usa come spiegato dalla giornalista Eva Golinger (vedi link a fondo pagina). La dichiarazione giunge in risposta all’intervento del Sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano (M5s) che in un’intervista a Tv2000 aveva criticato il riconoscimento del presidente autoproclamato da parte dell’Unione Europea: «L’Italia non riconosce Guaidó perché siamo totalmente contrari al fatto che un Paese o un insieme di Paesi terzi possano determinare le politiche interne di un altro Paese. Si chiama principio di non ingerenza ed è riconosciuto dalle Nazioni Unite».

MIGLIAIA DI LAVORATORI, FAMIGLIE E BAMBINI PRO MADURO

Invece di occuparsi dei Gilet Gialli che da 11 settimane protestano contro il presidente francese Emmanuel Macron, ritenuto espressione dell’elite mondialista e promotore di una politica economica austera, Strasburgo si intromette nella spinosa questione venezuelana con un’invasione di campo censurata persino dal diplomatico premier italiano Giuseppe Conte. Nel solco di questa protesta anti-Maduro alimentata da organizzazioni umanitarie venezuelane finanziate dagli Usa o dalla Open Society di George Soros (vedi articolo già citato) i media occidentali di regime mainstream si confermano specialisti nella disinformazione: basti pensare a Reuters che ieri ha fatto 7 lanci sul Venezuela tutti contro il governo bolivariano e non ha scritto una sola parola sulla marcia di Caracas a favore del presidente del Venezuela, oppure all’Economist, da sempre portavoce dei mondialisti, che si è beccato le ire e rampogne dei suoi stessi follower su Facebookper aver messo come immagine di copertina una foto che inneggia a Guaidò e l’Ansa che stamane gli ha dedicato il titolo di apertura.

La contestata copertina Facebook dell’Economist pro Guaidò

Ma tutti i media hanno ignorato la manifestazione pro Maduro: persino la versione inglese di Russia Today ha trascurato quella che l’edizione spagnola dello stesso network ha definito “Multitudinaria marcha en Caracas en apoyo de Maduro y en defensa de la petrolera estatal” dedicandole anche una interessantissima diretta su Fb seguita da oltre 3mila persone. Ecco quindi che solo Rt espanol (e brevemente SputnikNews Espana, media sempre di Mosca) danno un resoconto della manifestazione di piazza che ha portato un fiume di gente nelle vie di Caracas. Quante migliaia fossero non si sa. Come non è dato sapere quanti siano quelli che partecipano ai comizi di Guaidò. L’impressione è che i numeri siano simili ma la certezza non esiste perché i reporter filo-golpe sono tenuti sotto stretta sorveglianza dall’intelligence venezuelana del Sebin (Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional) mentre i giornalisti pro-Maduro come l’avvocatessa americana Eva Golinger trovano spazio solo su Russia Today e su nessun media occidentale: essendo il governo bolivariano socialista non trova spazio nemmeno sui giornali di centrodestra (Il Giornale, La Verità, Libero, Il Primato Nazionale) di norma impegnati nella contro-informazione anti-mainstreaming.

IL RESOCONTO DI RUSSIA TODAY SULLA MARCIA

Il vicepresidente venezuelano Delcy Rodríguez parla dal palco a Caracas giovedì 31 gennaio davanti a migliaia di persone

«Giovedi si è tenuta a Caracas, in Venezuela, una marcia a favore del presidente Nicolas Maduro. Sostenitori del governo sono scesi in piazza il giorno dopo la precedente mobilitazione a favore del deputato dell’opposizione e capo dell’Assemblea legislativa, Juan Guaidó, autoproclamatosi come “presidente responsabile” – scrive RT espanol – La manifestazione si è svolta nella capitale ed è stata convocata dai lavoratori del petrolio per dimostrare il loro sostegno per Maduro, che è stato eletto nel maggio 2018, e difendere la compagnia statale Petroleos de Venezuela (PDVSA). In marcia, il vicepresidente esecutivo, Delcy Rodríguez ha detto che gli Usa hanno orchestrato l’auto-proclamazione di Guaidó per cercare di cogliere le riserve di petrolio del Venezuela. “I leader imperialisti hanno gettato la maschera dicendosi “vamos” (andiamo) a prendere il petrolio del Venezuela’”, ha detto alla folla. L’alto funzionario politico ha confermato che la compagnia petrolifera statale produce per lo sviluppo del Venezuela. “Che lo capiscano molto chiaramente, in questo modo non arriveranno a nulla” ha aggiunto».

LA GUERRA PER IL PETROLIO E LE TENSIONI MILITARI

Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca John Bolton con il bloc-notes contenete l’appunto sull’intervento armato in Venezuela

Russia Today riferisce che è stato lo stesso John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha dichiarare la necessità del greggio venezuelano per le raffinerie americane, le quali, a causa del blocco a Pdvsa e conseguente stop delle importazioni di petrolio, dovranno cercare altrove una fornitura assai imponente, che rappresenta una perdita di circa 8milioni di dollari per il Venezuela, pari al 70 % del bilancio nazionale. Ecco perchè Maduro ha chiesto alla Banca di Inghiltterra di inviare tonnellate di oro agli Emirati Arabi Uniti da scambiare con valute correnti per far fronte alle scadenze dei debiti internazionali del paese. Richiesta che ha incontrato la contestazione di Guaidò il quale ha scritto al governo britannico ed all’istituto di credito per bloccare la transazione, sebbene impedirla, secondo gli esperti, sia un atto del tutto illegittimo per le leggi internazionali non essendoci alcuna sanzione Onu contro il Venezuela. La rinuncia al petrolio venezuelano è un’operazione finanziariamente kamikaze per gli Usa che lo acquistano crudo e quindi a buon prezzo. «Nel contesto della presentazione del piano economico dell’opposizione, l’economista José Toro Hardy ha detto che c’è bisogno di 25.000 a 30.000 milioni di dollari per il recupero di Petroleos de Venezuela S.A. (PDVSA). “Queste risorse lo Stato non le ha, ma esistono e possono portare per gli investimenti esteri”, ha dichiarato» rendendo così manifesto il progetto americano per una privatizzazione della compagnia petrolifera. Nelle proteste di piazza, già guidate dall’arrestato Leopoldo Lopez nel 2015 e riprese a singhiozzo negli anni passati con aspri scontri tra manifestanti e polizia e numerosi morti e feriti, secondo il network RT il governo guidato da Maduro ha un vantaggio relativo: «Da un lato, il Chavismo è abituato a manifestarsi e a mobilitarsi costantemente. Ma anche perché l’esecutivo ha il sostegno di un attore fondamentale nella politica venezuelana: le forze armate nazionali bolivariane FANB». Proprio per questo il presidente del venezuela nei giorni scorsi ha visitato numerose basi militari facendosi fotografare tra i soldati e ha organizzato una massiccia marcia coi soldati a Fuerte Tiuna contro “l’aggressione imperialista”. E proprio per questo uno dei tentativi finora falliti dell’opposizione è stato quello di cercare di frammentare l’esercito. Lo stesso Guaidó e Washington, attraverso il Segretario di Stato, Micke Pompeo, hanno lanciato un appello alla FANB per smettere di sostenere il presidente costituzionale.

L’AEREO SPIA AMERICANO SOPRA LA COLOMBIA

L’aereo spia Usa O-5C rilevato sopra la Colombia al confine col Venezuela

Che l’appunto apparso su un bloc notes di John Bolton a favore di telecamere sulle “5000 truppe in Colombia” fosse uno specchietto per le allodole lo hanno capito tutti: nessuno stratega rivelerebbe prima i suoi piani d’intervento bellico. Che siano comunque sul tavolo degli Usa tutte le opzioni, ivi inclusa quella militare, è una certezza nots a tutti ed in particolare alla Russia, alleata del Venezuela: per questo Il Cremlino dopo l’incontro tra Vladimir Putin e Nicolas Maduro di dicembre, ha inviato all’Aeroporto Internazionale di Maiquetia “Simon Bolivar” due bombardieri strategici Tu-160, un cargo An-124 e un velivolo a lungo raggio IL-62 per cominciare a mostrare i muscoli. Ieri sui social è invece circolato un video, sulla cui attendibilità non si può scommettere, concernente un presunto arrivo di milizie internazionali in un aeroporto del Brasile, alleato Usa e tra i primi a riconoscere il presidente autoproclamato Guaidò. Mentre è stata riportata con dovizia di dettagli la notizia di un aereo spia dell’Usaf (Us Air Force) sullo spazio aereo colombiano ai confini col Venezuela. «Un aereo spia americano è stato avvistato in una missione segreta in Colombia, alimentando il sospetto che potrebbe intercettare le comunicazioni nel vicino Venezuela, preso di mira per il cambio di regime e il tentativo di colpo di stato da parte di Washington – scrive Russia Today inglese – Un velivolo da ricognizione EO-5C dell’esercito americano è stato avvistato dai gruppi di rilevamento del volo giovedì». Identificato col numero N177RA, l’aereo spia EO-5C si basa su un DHC-7 canadese, un aereo turboelica a quattro motori, adatto a trasportare circa 50 passeggeri o un carico di merci. Gli aerei di questo tipo, sovente utilizzati dall’esercito americano in Sudamerica per ricognizioni anti-insurrezione e anti-droga, sembrano privi di distinzioni militari tanto da poter essere scambiati per velivoli di linea regionale: «Si è detto che questo aereo sia caricato con varie apparecchiature spia e che possa rilevare e intercettare le trasmissioni sull’intero spettro radio, oltre a scattare immagini ad alta risoluzione, sia a infrarossi che a luce visibile» aggiunge il network televisivo russo. Un velivolo simile fu avvistato sopra la Libia nel 2014, dopo il cambio di regime della Nato del 2011, ed un altro di modello precedente O-5A si schiantò in Colombia nel 1999 vicino al confine con l’Ecuador durante un pattugliamento.



Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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MONDIALISTA ROTHSCHILD ALLA CORTE DI SALVINI


L’EX BERLUSCONIANO DELLA BANCA D’ORO BARCLAYS
DA SOTTOSEGRETARIO LEGHISTA AGLI ESTERI
DIFENDE I GUERRAFONDAI USA CONTRO MADURO
E I MISSILI ISRAELIANI CONTRO GLI SCIITI IN SIRIA


___di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___


Alla fine la talpa mondialista alla corte di Matteo Salvini ha gettato la maschera. Lo ha fatto sulla scottante questione Venezuela che sta spaccando la politica internazionale ma non il “Deep State” degli Usa, dove i sempre critici Democratici sembrano approvare la linea estremamente dura della Casa Bianca ispirata dal guerrafondaio John Bolton: forse perché più che essere una condotta scelta dal presidente repubblicano Donald Trump è una strategia suggerita, quasi imposta, da quel governo ombra internazionale che trascende ogni colorazione partitica e rappresenta il punto di convergenza di alta finanza bancaria, intelligence militare e politica mondialista del Nuovo Ordine Mondiale già denunciato dall’alto ufficiale della marina canadese William Guy Carr nel 1956 nel suo libro Pawns in game. «Caro Nicolas Maduro lascia subito. Nessuna solidarietà da Roma. Non ti riconosciamo come presidente. Elezioni subito» è il Tweet con cui il Sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi, deputato leghista dal 2016 ma per 23 anni di Forza Italia, dirigente in aspettativa della Barclays di Londra, la banca aurea dei Rothschild, gela gli entusiasmi del presidente venezuelano legittimamente eletto, dopo le astensioni degli europarlamentari di Lega, M5S e parte del Pd alla risoluzione svedese di riconoscimento del presidente autoproclamato ad interim Juan Guaidò, sostenuto dagli americani e capo dell’Asamblea Nacional, il parlamento di Caracas, e di auspicio ad immediate elezioni presidenziali. Un atto con cui l’Italia, unico dei 28 paesi non allineato con il Parlamento Europeo, aveva formalmente preso le distanze dalla crisi anche attraverso le dichiarazioni del pentastellato Sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano in un intervista a Tg2000: «L’Italia non lo riconosce (Guaidò – ndr). Siamo totalmente contrari al fatto che un Paese o un insieme di Paesi terzi possano determinare le politiche interne di un’altra nazione. Si chiama principio di non ingerenza ed è riconosciuto dalle Nazioni Unite». Ma non secondo il ministro della Farnesina Enzo Moavero Milanesi, già esponente del partito dei banchieri Scelta Civica di Mario Monti, il quale aveva invece di fatto smentito il voto degli europarlamentari italiani in un’audizione al Senato: «L’Italia si riconosce pienamente nella dichiarazione dell’Ue di sabato 26, una posizione che ribadisce l’obiettivo di arrivare ad elezioni libere, democratiche e trasparenti. Ci riconosciamo anche in un termine di giorni entro il quale devono essere convocate le elezioni. La situazione in Venezuela è fluida, tesa, in cui la priorità deve essere quella di evitare che possano aumentare le violenze e prevenire che si possa arrivare ad uno scontro. C’è chi teme la possibilità di una guerra civile». C ‘è invece chi, come Bolton, fa di tutto per attuarla… E nel mezzo c’è il Dicastero degli Esteri italiano spaccato in due! Purtroppo i deputati cinquestelle hanno finito per accontentare l’ala leghista anti Maduro ed è stata quindi approvata dalla Camera, il 12 febbraio scorso con 266 voti a favore, 205 contrari e nove astenuti (i deputati di Leu), una risoluzione di maggioranza per sollecitare immediate elezioni non riconoscendo quelle di Maduro ma, per fortuna, senza nemmeno riconoscere l’autoproclamato presidente Guaidò. Perché questo brusco cambio di rotta???

UN BERLUSCONIANO IL CONSULENTE DI POLITICA ESTERA DI SALVINI



Il sottotenente aviere armiere di complemento dell’Aeronautica Militare alla Sarvam di Viterbo dal 1996 al 1997 (foto da profilo Facebook)

A sostegno del ministro Moavero di chiara estrazione montiana e mondialista era intervenuto sabato 2 febbraio il sottosegretario Picchi in quota Lega che può vantarsi di essere anche il consulente di politica estera del vicepremier e leader del Carroccio Matteo Salvini. Questo spiega perché il segretario leghista, acclaratamente sostenitore ed estimatore di Vladimir Putin, è già scivolato su insidiose bucce di banana come il suo commento sugli “Hezbollah terroristi” durante la visita in Israele, da dove partono gli F-16 dell’Idf (Israel Defence Force) per bombardare preventivamente la Siria in barba ad ogni trattato internazionale e colpire preventivamente le postazioni delle milizie libanesi sciite filoiraniane e i Pasdaran della Forza Quds, determinanti nella vittoria dell’esercito repubblicano di Bashar Al Assad contro i jihadisti dell’Isis. Questo spiega perché, nei primi giorni successivi all’autoproclamazione di Guaidò a Caracas, Salvini assunse posizioni nettamente critiche su Maduro salvo poi attenuarle fino a concedere ai suoi europarlamentari di prendere saggiamente le distanze dalla controversa questione venezuelana. Allo stesso sottosegretario Picchi va peraltro il merito diplomatico di aver organizzato l’incontro con Donald Trump nel 2016 a Washington del leader della Lega. Per comprendere gli orientamenti di politica estera del deputato, personaggio sovente in ombra sui media ma sempre sotto i riflettori nei summit internazionali come si confà ad ogni occulto regista low-profile, basta leggere la sua carriera. Classe 1973, universitario in Economia a Firenze con successivo master in Business alla Bocconi, poco più che ventenne, si è subito gettato a capofitto in politica nella fondazione di Forza Italia diventando consigliere circoscrizionale (1995-1999) nella sua città natale Firenze, dopo essere stato per un anno anche sottotenente di complemento dell’Aeronautica Militare alla Sarvam di Viterbo.





DEPUTATO DOPO LA DIRIGENZA NELLA BANCA DELL’ORO A LONDRA

Il dirigente in aspettativa della Barclays Capital di Londra, Guglielmo Picchi, eletto deputato nella Circoscrizione Estera con Forza Italia nel 2006

È stato eletto per la prima volta Deputato alla Camera nel 2006, nel collegio europeo della Circoscrizione Estero, e riconfermato nel 2008 e nel 2013. Un risultato eccezionale dato che è uno dei pochi berlusconiani entrati in Parlamento grazie ai voti degli italiani all’estero e che evidenzia fin da subito le sue aderenze internazionali. Per capire come abbia raggiunto questo obiettivo bisogna dare un’occhiata al suo curriculum da talento emergente della finanza internazionale come emerge dal suo profilo Linkedin. Nel 1997, a soli 24 anni, lavora già nel gruppo KPMG, il network di società indipendenti, affiliate a KPMG International Cooperative, società di diritto svizzero specializzata nella fornitura di servizi fiscali, legali e amministrativi di revisione contabile e consulenza manageriale. L’ex bocconiano si rivela sicuramente bravo poiché nel 2001 è già inquadrato come Senior. Ma sono anni bui per la Kpmg coinvolta nello scandalo Xerox dopo gli accertamenti della Sec, l’ autorità di controllo della Borsa americana, che aveva indagato sul crollo del capitario azionario della multinazionale delle fotocopiatrici conseguente ad una revisione della contabilità in merito ai ricavi iscritti negli ultimi cinque anni. Dopo quella vicenda Kpmg perse la consulenza Xerox e finì nell’occhio del ciclone per i default di banche internazionali come The Guardian accusa gli amministratori: «Hanno permesso a una serie di società di mutui subprime statunitensi di alimentare la crisi finanziaria per cui il mondo sta ancora vacillando» scrisse il prestigioso quotidiano britannico in riferimento al crack Lehman Brothers. Il bocconiano Picchi però era già uscito da Kpmg per approdare alla Ernst & Young Investments ed alla torinese Ipi spa del Gruppo Fiat, nelle quali rimase per pochi mesi nel 2001, prima di fare il salto di qualità entrando nella storica e blasonata Barclays Capital nel 2002. Si tratta di uno dei gruppi bancari più potenti del mondo che gli esperti di finanza ritengono controllato dalla dinastia Rothschild. Fu proprio la N M Rothschild & Sons Limited, con sede nella City di Londra, a conferire un ruolo di rilevanza mondiale alla Barclays: le cedette il suo posto nella London Bullion Association, il gotha della finanza mondiale che per quasi due secoli, dal 1871 al 2004, si era riunito nel quartier generale dei Rothschild nella via londinese St Swithin’s Lane, per decidere il prezzo dell’oro (e dell’argento) e da cui è nata la London Bullion Market Association (LBMA) e successivamente la società di “clearing (compensazione)” London Precious Metal Clearing Limited (LPMCL), costituita ora dalle dieci banche più importanti del pianeta. Ebbene Picchi è stato dirigente della divisione investimenti della Barclays dal 2002 al 2006, prima di mettersi in aspettativa proprio in virtù della sua elezione a deputato negli azzurri di Silvio Berlusconi nella Circoscrizione Estera in Europa, trasferendo così il costo dei contributi previdenziali connessi al suo certamente ottimo stipendio manageriale dalle casse dell’istituto di credito londinese a quelli dell’Inps italiana, come prevede la legge sulle aspettative aziendali.

LE MANIPOLAZIONI DEGLI INTERESSI BANCARI DELLA BARCLAYS

I coniugi Marcus Agius, già chairman Barclays a Londra, e Katherine Rothschild, coerede del patrimonio della dinastia dei banchieri

Per comprendere ancora quale sia l’importanza di Barclays nel panorama finanziario mondiale basti dire che il suo ex presidente Marcus Agius è marito di Katherine, figlia ed erede di Edmund Leopold de Rothschild (scomparso nel 2009), nipote di Lionel Nathan, e comproprietaria tra patrimoni vari e partecipazioni bancarie, di quel paradiso terrestre chiamato Exbury Garden, un parco naturalistico di 81 ettari nell’Hampshire, vicino a Beaulieu, dotato persino di una piccola rete ferrovia con convogli in dimensioni ridotte per una gita intorno allo stagno di Summer Lane Garden. Lo stesso Agius fu indotto a lasciare la chairman perché implicato nell’inchiesta sulle manipolazioni del tasso d’interesse londinese Libor che influenza l’Euribor: da cui dipendono i mutui immobiliari e tuti i finanziamenti a tasso variabile in genere. Divago un attimo soltanto per far capire a chi è poco esperto di economia l’importanza e la sfrontatezza della Barclays sullo scenario economico internazionale. «Sei delle maggiori banche al mondo pagheranno 5,6 miliardi di dollari per risolvere la disputa con le autorità americane sulla manipolazione dei tassi di cambio. Quattro – Citicorp, JPMorgan, Barclays, Royal Bank of Scotland – delle cinque banche si dichiarano anche colpevoli di aver cospirato per manipolare il prezzo del dollaro e dell’euro. La quinta banca, Ubs si dichiarerà colpevole per quanto riguarda le accuse relative a manipolazioni del Libor (avrebbe violato i termini di un accordo precedente e pagherà una multa aggiuntiva). Secondo l’accusa, il ‘Cartello’ avrebbe usato una chat room esclusiva e un linguaggio in codice per manipolare i cambi – scrive Repubblica in un articolo online del 20 maggio 2015 – Per Citi la multa è di 925 milioni, per Jpm è da 550 milioni, per Barclays è da 650 milioni e per Rbs da 395 milioni. Sempre in connessione alle indagini, la Federal reserve ha imposto multe da oltre 1,8 miliardi di dollari a sei banche: per Ubs, Barclays, Citigroup e Jpm sono pari a 342 milioni di dollari, per Rbs sono pari a 274 milioni e per Bank of America sono da 205 milioni. In aggiunta, Barclays ha raggiunto un accordo con il Dipartimento dei servizi finanziari dello Stato di New York, la commodity futures trading commission e la Financial conduct authority britannica per un’addizionale multa combinata da 1,3 miliardi. Se si tengono in considerazione, spiega il dipartimento di giustizia, i patteggimenti già annunciati con varie agenzie americane e non, inclusi l’Office of the comptroller of the currency e la Swiss financial market supervisory authority, le intese annunciate oggi portano il totale delle multe e penalità pagate dalle 5 banche a quasi 9 miliardi di dollari». A riconferma della correlazione tra Barclays e Rothschild ecco la notizia del novembre scorso: dal 2 maggio 2019 il chairman della Barclays, John McFarlane lascerà il posto al manager veterano dell’impero finanziario più importante del mondo Nigel Higgins, da 36 anni in Rothschild, attualmente vice chairman della holding parigina. Alla luce di tutto ciò l’elezione di un dirigente di un istituto dell’alta finanza mondialista nella Circoscrizione Estera Europea per Forza Italia avvenuta nel 2006 non desta alcuno stupore. Lo suscita la sua candidatura nel partito “populista/sovranista” della Lega nel collegio Toscana 1 e la sua nomina a Sottosegretario agli Esteri. Anche in ragione di un ruolo politico internazionale esercitato tra molte ombre.


IL RUOLO DELL’OCSE NELLE MIGRAZIONI EUROPEE

Al di là dei trattati dell’Unione Europea nella gestione dell’emergenza migratoria da parte di Frontex, l’agenzia europea della guardia frontiera e costiera più inutile che esista, al di là dei protocolli altisonanti Triton, voluto dal premier Matteo Renzi per sbarcare tutti gli immigrati in Italia e quindi ridistribuirli solo nelle intenzioni, o Themis, garantendo porti di approdo in tutte le nazioni mediterranee (ivi inclusa Malta, Spagna e Francia), c’è un altro organismo che avrebbe dovuto occuparsi di questo allarme sociale del Vecchio Continente in generale e dell’Italia in particolare: l’Ocse. «L’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo sviluppo (OCSE) è stata istituita con la Convenzione firmata il 14 dicembre 1960, e ha sostituito l’OECE, creata nel 1948 per gestire il “Piano Marshall” per la ricostruzione post-bellica dell’economia europea – si legge nel sito ufficiale – Obiettivo dell’organizzazione è promuovere politiche in grado di migliorare il benessere economico e sociale di persone di tutto il mondo. L’OCSE costituisce un forum in cui i governi possono lavorare insieme per condividere esperienze e cercare soluzioni a questioni comuni, di tipo economico, sociale e ambientale. Il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali partecipa ai lavori dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) o Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD). La Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione partecipa ai lavori del Working Party on Migration, un gruppo di lavoro formato dai delegati dei Paesi aderenti all’OECD che svolge una funzione di orientamento alla pianificazione delle attività di rilevazione, analisi e valutazione delle politiche migratorie. Tra i compiti del gruppo di lavoro si segnala la raccolta e l’interpretazione delle informazioni statistiche contenute nella pubblicazione International Migration Outlook, che si propone quale riferimento internazionale per la comprensione dei fenomeni migratori, nonché strumento per una pianificazione delle priorità di intervento dell’azione pubblica».



PICCHI, UNA POLITICA ESTERA ALL’OCSE INCONSISTENTE

Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi

L’attuale Sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi, insediatosi il primo giugno 2018 col Governo gialloverde del premier Giuseppe Conte, fin dal suo primo mandato parlamentare ottenne incarichi prestigiosi e strategici, probabilmente anche per merito delle sue conoscenze nella City di Londra dove lavorava prima di diventare deputato a Montecitorio. Come evidenzia il suo curriculum dal 2006 è membro della Commissione Affari Esteri e Comunitari, della quale è divenuto nel 2015 segretario; nello stesso anno è stato nominato presidente del Comitato permanente sugli italiani nel mondo e la promozione del sistema paese. Dal 2008 fa parte della Delegazione parlamentare all’Assemblea dell’OCSEdove dal 2016 è vice-presidente del Comitato generale sugli affari politici e di sicurezza». L’ex forzista oggi leghista nella XVII Legislatura (2013-2018) è stato presidente del Comitato per la Politica estera dell’UE e nell’OSCE è stato eletto anche vicepresidente e responsabile dell’Italia della commissione ad hoc sul fenomeno migratorio e membro della commissione per il controterrorismo. Ebbene il “peso politico” dell’esperto diplomatico internazionale sulla questione migranti in Europa indurrebbe a calare un velo pietoso. Ciò in cui sembra maestro il neosottosegretario è la strategia del camaleonte che cambia colore di pelle in relazione alla ribalta ove si mostra. Se da una parte si è rivelato determinato nel sostenere la posizione della Lega contro le immigrazioni indiscriminate dall’altra è socio fondatore del Centro Studi Machiavelli, un think tank di geopolitica smaccatamente filosionista e filoamericano che sul Global Compact Onu tenne posizioni molto diplomatiche come evidenziò Repubblica: «Il Centro studi “conservatore” Machiavelli, seguito da vicino in particolare dal sottosegretario agli Esteri Guglielmo Picchi, si era espresso a favore del Global Compact sui rifugiati. Il rapporto era stato presentato alla Camera alla presenza del senatore leghista Manuel Vescovi. Lo studio sostenuto dai parlamentari del Carroccio, intitolato “I global compact su migrazioni e rifugiati, sono compatibili con le politiche del governo italiano?” (autore Carlo Sacino), si era concluso con un parere positivo. “La conclusione della nostra analisi è che il Governo italiano dovrebbe firmare il global compact sui rifugiati in quanto in linea con le proprie preferenze. Ma unirsi a Usa, Australia, Austria e Ungheria nel rifiuto dell’orientamento espresso dal global compact sulle migrazioni”». Una posizione ragionevole ma anche abbastanza “morbida” sul Global Compact, di certo lontana da quella della base degli elettori leghisti, che infatti non trovò seguito per il diniego della firma del Governo gialloverde.



IL CENTRO STUDI MACHIAVELLICO FILOSIONISTA

Il sottosegretario Guglielmo Picchi ad Israele nel novembre scorso con Reuven Azar, il consigliere delle politiche estere di Benjamin Netanyahu

Non sono solo gli interventi di Fiamma Nirenstein sull’antisemitismo a palesare l’orientamento filo-sionista del think tank che, grazie a Picchi, presenta tutti i suoi nuovi report in Parlamento. “La sfida con l’Iran vista da Israele” è l’undicesimo dossier pubblicato dal Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli in cui «l’escalation militare tra Israele e Iran si fa sempre più vicina perché Gerusalemme si sente minacciata dall’aggressività di Teheran» secondo la tesi sostenuta dall’analista Rebecca Mieli in occasione di una conferenza stampa alla Camera dei Deputati. Per l’autrice quest’aggressività iraniana si manifesterebbe nella retorica bellicosa di Teheran, nel suo programma missilistico e nucleare non seriamente minato dal JCPOA (l’accordo internazionale da cui recentemente si sono ritirati gli Stati Uniti), e dalla crescente presenza militare in Siria e a supporto di Hezbollah in Libano. «Rebecca Mieli ha sottolineato come ciò abbia portato a uno stringersi del legame tra Israele e vari Paesi arabi ostili all’Iran, come l’Arabia Saudita. Ma potrebbe essere Mosca a favorire un accordo negoziale – aggiunge una sintesi del report sul sito del Centro Studi – Come ha notato il Prof. Matteo Bressan della LUMSA, esiste una divergenza strategica tra Russia e Iran in Siria. Ciò è dimostrato dal ricorso fatto ai sistemi anti-aereo S-300, posti da Mosca in Siria, ma mai utilizzati per proteggere iraniani e Hezbollah dalle incursioni israeliane». Un’affermazione che si regge effettivamente sul mistero che avvolge le tattiche di contraerea siriana ma pare alquanto azzardata se espressa come certezza dato che i ripetuti raid dell’Idf (Israel Defence Force) contro la Siria, come spesso riferito da Gospa News in mezzo all’oscuramento dei media occidentali (dei link a fondo pagina Netanyahu emula Hitler nella guerra religiosa alla Siria), hanno distrutto solo qualche deposito di armi e ucciso fortunatamente non più di una ventina di persone in un intero anno nel quale, però, sono state scagliati più di 2mila missili: probabilmente se non ci sono state reiterate stragi è proprio grazie alle batterie contraeree S-200 prima e S-300 ammodernate poi e quale batteria di s-400 a Khmeimim (dopo l’incidente del velivolo russo di ricognizione abbattuto il 17 settembre 2018 con 15 soldati uccisi) che hanno consentito ai siriani di intercettare il 95 % dei razzi lanciati dagli F-16 israeliani sempre più vicino a Damasco da dicembre. Ma siccome i missili che intercettano altri missili di norma esplodono disintegrandosi entrambi senza lasciare molte tracce (peraltro su territorio siriano) e dubito che il professor Bressan sia confessore del capo di stato maggiore dell’esercito di Assad viste le smaccate posizioni filo-islaeriane siamo costretti a tenerci i dubbi sull’utilizzo o meno degli S-300. Dossier e posizioni sono comunque del Centro Studi Machiavelli e non di Picchi, of course, lui il 21 gennaio, alle 7,27 del mattino, dopo il raid dell’Idf sulla capitale che uccise 11 persone e suscitò la comprensibile reazione furiosa dell’Iran, ha fatto peggio ed ha sparato un twitt in inglese da perfetto filosionista più che da sottosegretario italiano: «Teheran dovrebbe smettere di minacciare Israele che ha lo stesso diritto di esistere dell’Iran. La mia solidarietà al grande popolo di Gerusalemme». Nessuna solidarietà, invece, per i morti ammazzati siriani dai missili della guerra santa anti-sciita di Benjamin Netanyahu…




LA POSIZIONE ATLANTISTA E FILOAMERICANA DI PICCHI


Il consigliere della Casa Bianca Rudolph Giuliani e il sottosegretario Guglielmo Picchi in un summit a New York nei giorni caldi di gennaio della crisi in Venezuela

«Noi preferiamo che Putin giochi dalla nostra parte del campo e non mandarlo nella parte avversa, perché sarebbe più pericoloso far saldare l’alleanza tra Russia, Iran e Turchia, allargandola fino alla Cina. Invece è meglio avere Mosca dalla nostra stessa parte, con Israele e gli Stati Uniti». Fu una delle dichiarazioni d’esordio del sottosegretario Picchi all’Adnkronos in cui ribadì che nel contratto di governo Lega-M5S «c’è scritto che la Russia è un importante partner strategico e commerciale dell’Italia, ma questo non vuol dire che non siamo con la Nato e la Ue, ma riteniamo sia giusto chiedersi se le sanzioni hanno funzionato. Il ruolo dell’Italia può essere quello di un governo che mette insieme russi e americani e lo fa su temi operativi, possiamo cambiare gli equilibri e questo può essere considerato pericoloso, perché certe rendite di posizione che ci sono state finora possono cambiare» Parole molto diplomatiche parzialmente smentite da altre in un un suo articolo per Analisi Difesa: «Riportare al centro della politica estera e di difesa l’interesse nazionale dell’Italia non implica affatto un disimpegno verso l’Alleanza Atlantica, ma al contrario prelude ad un suo rafforzamento. Prima di essere un patto militare, la NATO è appunto un’alleanza politica che nei suoi testi fondativi richiama i comuni valori dell’Occidente, quei valori di cui la sovranità nazionale è parte integrante». La posizione di Picchi sul Patto Atlantico era stata ben rimarcata in un’intervista a Il Foglio prima della nascita del governo col M5S: «Da quando c’è Salviniparliamo molto con gli americani. Siamo atlantisti da sempre, mica come i Cinquestelle che hanno firmato atti parlamentari in senso opposto. Il primo ambasciatore visto da Salvini è stato lo statunitense Eisenberg, quello russo ancora non l’ha nemmeno incontrato. A noi non sta bene che due paesi della Nato abbiano deciso di bombardare la Siria: senza mandato Onu. Anche Angela Merkel non mi sembra felicissima. Non partecipa e non dà le basi. Però nessuno mette in dubbio il suo atlantismo. Sfido chiunque a trovare un solo atto ufficiale della Lega in cui si mette in dubbio l’Alleanza atlantica. Salvini è stato il primo segretario della Lega ad aver mai messo piede al Congresso degli Stati Uniti». Una posizione filoamericana confermata non solo organizzando l’incontro di Salvini con Trump nel 2016 (grazie al quale probabilmente si meritò il sottosegretariato) ma anche nel summit del 18 gennaio 2018 con l’avvocato repubblicano Rudolph Giuliani, ex Sindaco di New York, ed oggi consigliere per la cyberinformatica della Casa Bianca. Un endorsement verso gli Usa che è però cresciuto sempre più man mano che Washington e Tel Aviv hanno preso le distanze da Mosca sulla Siria, sulla crisi del Mar d’Azov in Crimea con l’Ucraina e infine sul Venezuela: dove è diventato smaccato al limite dell’imbarazzo il tifo di Picchi su Twitter per John Bolton, il consigliere militare di Trump pizzicato dalle telecamere con l’appunto, minaccioso quanto depistante, sull’invio delle truppe in Colombia. «Un altro ufficiale militare venezuelano riconosce il legittimo presidente di VZ. Gli Stati Uniti invitano tutti i membri militari a seguire il comando del Generale Yánez e a proteggere i pacifici manifestanti che sostengono la democrazia» è il messaggio ritwittato da Picchi di Bolton che aveva già avvertito Nicolas Maduro: «Gli auguro un quieto pensionamento su una bella spiaggia, ma potrebbe trovarsi a frequentare la spiaggia a Guantànamo». Mentre a Caracas il presidente legittimo sfoggia l’ennesima geniale intuizione politica di indire rapide elezioni non per le Presidenziali, come voluto da opposizione Usa, Ue e altre nazioni, bensì per il rinnovo anticipato dell’Asamblea Nacional, finalizzato a riprendere il controllo del Parlamento, è doveroso porsi qualche domande su uno dei volti italiani della politica estera.

Il sottosegretario leghista Picchi ricorda il golpe Usa a Caracas del 2002 con l’arresto del presidente eletto Hugo Chavez, le proteste con incitazione alla violenza ordite nelle città venezuelane nel 2015 dal leader dell’opposizione filoamericana Leopoldo Lopez, mentore di Guaidò? E’ a conoscenza del blitz compiuto nei giorni scorsi (13-1-2019) reparti speciali Usa in Afghanistan per liberare 40 comandanti dell’Isis da una prigione Talebana e portarli via in elicottero chissà dove? A Guantanamo anche loro? Oppure in Venezuela per aiutare i servizi segreti americani a far scoppiare la guerra civile? Da un esponente di governo della Lega ci si aspetterebbe maggiore sobrietà diplomatica verso altri paesi dello scacchiere internazionale come la Russia al fine di interrogarsi sui motivi per i quali il presidente Vladimir Putin ha un atteggiamento di supporto al presidente democraticamente eletto del Venezuela, così come lo ebbe per quello della Siria in contrasto con Barack Obama. Da un sottosegretario del Carroccio ci si aspetterebbe un atteggiamento più sovranista verso un paese sudamericano messo sul lastrico non dal socialismo bolivariano che lo ha portato ad un “alto sviluppo umano (dati Hdi Onu 2011-2017) bensì dalle sanzioni di Washington e dalle manipolazioni di rating. Da un dirigente in aspettativa di una banca aurea mondialista controllata dai Rothschild ci si attende invece proprio questo! E magari anche qualche collegamento con Cia, Gchq e Mossad. Non desterebbe stupore qualche simile relazione con l’intelligence internazionale. Anzi. Potrebbe aiutarci a capire chi suggerì di portare proprio a Firenze nel 2005 l’allora agente segreto statunitense Michael Ledeen ad un convegno sui Neocon organizzato e pagato da Matteo Renzi, il pupillo sinistro di Berlusconi. Ma il sottosegretario Picchi ha la possibilità di smentire tutte queste analisi, ipotesi e suggestioni dimostrando nei fatti di essere molto più leghista che mondialista. La risoluzione del parlamento italiano anti-Maduro per ora conferma invece i nostri sospetti.



Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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MARTIRI CRISTIANI: INDIANO DECAPITATO. SALESIANO FUCILATO



PADRE DI FAMIGLIA RAPITO E GUSTIZIATO
DAI MAOISTI INDU PER LA SUA CONVERSIONE.
AGGUATO JIHADISTA A COLPI DI KALASHNIKOV
PER IL MISSIONARIO SPAGNOLO IN TOGO.
CONDANNA A MORTE PER DUE MONACI IN EGITTO

___di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___

Rapito da fanatici maoisti indù sotto gli occhi del bimbo di 6 anni, portato in un luogo nascosto, lapidato e orrendamente decapitato un padre di famiglia indiano colpevole soltanto di avere ricevuto il battesimo da cristiano evangelico due mesi prima. Assalito da un commando jihadista in un agguato premeditato ad un posto di frontiera e crivellato a colpi di kalashnikov un missionario africano solo per essersi recato ad un’assemblea salesiana in Togo. A soli quattro giorni di distanza questo mese di febbraio si è impregnato del sangue di altri martiri cristiani in Asia ed Africa che si aggiunge a quello delle oltre 4mila vittime devote a Gesù Cristo del 2018. Mentre il brutale assassinio di padre Antonio Cesar Fernandez, 72enne, chierico spagnolo della Congregazione internazionale di San Giovanni Bosco in Burkina Faso, avvenuta il 15 febbraio è balzato subito all’attenzione dei media internazionali grazie alla capillare rete d’informazione cattolica in tutto il mondo ed in particolare all’agenzia vaticana Fides, quello del quarantenne Anant Ram Gand scoperto l’11 febbraio scorso è stato reso noto solo da poche ore dalla rete Persecution Relief che si occupa della difesa dei cristiani discriminati in 


India. Il cristiano evangelico indiano Anant Ram Gand lapidato e poi decapitato

Entrambi sono comunque caduti sotto i colpi di fondamentalisti religiosi che sembrano aver pianificato gli omicidi come vere e proprie esecuzioni. A queste già drammatiche notizie si aggiunge anche quella amara che giunge dall’Egitto della condanna a morte di due monaci copti ortodossi ritenuti colpevoli dell’assassinio fraticida dell’abate vescovo del Monastero di San Macario, Anba Epiphanios, ucciso per futili motivi di rivalità personali il 29 luglio 2018, e beneamato anche in quanro devoto discepolo del grande anacoreta Matta el Meskin, ovvero Matteo il Povero, per molti anni eremita del deserto di Scete.



IL PADRE DI FAMIGLIA EVANGELICO DECAPITATO IN INDIA

Il dolore dei figli di Anant Ram Gand, rimasti orfani del padre in un villaggio povero dell’India, per i quali Persecutions Relief chiede almeno un aiuto di Stato

«Si era convertito al cristianesimo nove mesi fa ed era stato battezzato da soli due mesi: la sua conversione ha suscitato l’ira degli abitanti del villaggio, per lo più fanatici indù. Hanno armato il Naxal, guerrigliero maoista indiano, che ha commesso fisicamente l’omicidio». Sono le dichiarazioni rilasciate ad AsiaNews dal pastore Shibu Thomas, fondatore della rete di Persecution Relief, che ha diffuso poche ore fa la notizia dopo l’autorizzazione della famiglia della vittima Anant Ram Gand di 40 anni. L’omicidio è avvenuto l’11 febbraio nel villaggio di Raigarh Tehsil, nel distretto di Nabarangapur. Quel giorno sua moglie Sukbati (38) è andata nel vicino villaggio insieme alle sue quattro figlie (di età 13, 11, 3 e 2), mentre il marito, in compagnia del figlio di 6 anni Purno, era rimasto a casa. E’ stato proprio il piccolo ad essere testimone del brutale rapimento raccontando poi ogni dettaglio. Il bambino ha riferito di essersi svegliato al rumore di tre uomini che prima hanno bussato alla porta e poi gridato contro suo padre. Purno ha poi assistito al momento in cui lo hanno preso, gli hanno legato le mani dietro la schiena e lo hanno trascinato via. Gli aguzzini non si sono fermati nemmeno davanti al pianto del piccolo che li inseguiva: spingendolo via con ferocia, i tre uomini gli hanno intimato di non seguirli. A quel punto il bambino ha raggiunto la casa di suo zio nelle vicinanze dando così l’allarme. Poche ore dopo il corpo di Anant è stato trovato in mezzo a una strada con la testa decapitata e fracassata con una pietra.

LE FOLLI PERSECUZIONI AI CONVERTITI

Padre Shibu Thomas, pastore evangelico pentecostale indiano presidente dell’associazione Persecutions Relief che denuncia i crimini contro i cristiani

Secondo Persecution Relief, che ha parlato con la famiglia del neoconvertito, gli estremisti indù del villaggio non avevano accettato la sua adesione al cristianesimo e per questo hanno spinto i Naxal, guerriglieri maoisti indiani, ad assassinarlo. Negli ultimi mesi tutta la famiglia, che si era convertita ed aveva aderito alla Indian Evangelical Team (Ied), aveva ricevuto minacce dagli altri abitanti dellla comunità e per questo aveva dovuto cambiare casa, trasferendosi a un chilometro di distanza: «Lo discriminavano e non gli consentivano di raccogliere l’acqua del pozzo pubblico – spiega Thomas – Gli indù hanno fatto credere ai Naxal che il cristiano avesse rivelato i loro segreti alla polizia, invece Anant Ram non era nemico di nessuno». Padre Shibu, predicatore evangelico con una lunga esperienza religiosa negli Usa quale senior pastor nella Chiesa Pentecostale di Chicago e nella Sharon Fellowship di Dallas, dove si è diplomato in Teologia, descrive senza mezzi termini le vessazioni continue: «Essere cristiani oggi in India – dice – significa essere perseguitato ogni giorno: se preghi in famiglia sei battuto, se preghi in una chiesa domestica sei battuto, nelle strade sei battuto. L’articolo 25 della Costituzione, che protegge la libertà di credo e la diffusione della fede, non è applicabile per i cristiani in India. I cristiani dei villaggi vivono nella paura. Vogliamo essere protetti! Come presidente del gruppo Persecution Relief, chiedo al Primo ministro e al Capo dello stato di disporre un’indagine: il governo dovrebbe garantire almeno un risarcimento alla famiglia e ai cinque bambini piccoli. Dovrebbero parlare chiaramente contro la persecuzione dei cristiani e per proteggere la libertà di culto. Basta!».


IL PASTORE PENTECOSTALE DECAPITATO NEL 2018

Il pastore cristiano evangelico pentecostale Abraham Tigga Topno

Il barbaro assassinio riporta alla mente quello del pastore cristiano evangelico pentecostale Abraham Tigga Topno, 46 anni, anch’egli rapito, sgozzato e poi decapitato in ultimo impietoso oltraggio al cadavere. lo scorso primo maggio in India, alla periferia di Ranchi, la capitale dello statodel Jharkhand, dai componenti di un gruppo armato maoista, il People’s Liberation Guerrilla Army, Plga. Come riferì la Nuova Bussola Quotidiana il reverendo Tigga era stato rapito mentre stava rientrando in macchina a casa, nel villaggio di Ubasaal, di ritorno dal mercato. A tendergli l’agguato furono oltre 25 militanti che, dopo averlo costretto a fermarsi, lo hanno fatto scendere a forza dall’auto, lo portarono fino a una diga non lontano da casa sua, lo picchiarono, gli tagliarono la gola e poi lo decapitarono. La sua auto incendiata fu rinvenuta a Tamar, circa 60 chilometri a sud della capitale, ed il cadavere del pastore fu trovato la mattina successiva. Accanto al corpo gli assassini avevano lasciato un biglietto con su scritto: “morte di una spia della polizia. Lunga vita al Plga. Egli era un informatore della polizia. Questo è il destino di chi si mette contro di noi”. I maoisti del Plga lo avevano già minacciato in passato, accusandolo senza il minimo fondamento di verità di essere una spia, ma né lui né i suoi famigliari avevano preso sul serio gli avvertimenti e non ne avevano informato la polizia. Il reverendo Tigga lascia una moglie e Christo, il bambino che la coppia senza figli aveva adottato. La guerriglia maoista è presente in 14 dei 18 distretti dello stato del Jharkhand. Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians, in merito alla persecuzione degli induisti commentò: «Nella nostra laica India i cristiani sono tra l’incudine e il martello, soprattutto in Jharkhand dove è in vigore la legge anti-conversione».



L’AGGUATO ASSASSINO AL MISSIONARIO SALESIANO

Il salesiano spagnolo ucciso padre Antonio Cesar Fernandez

«Secondo quanto appreso dall’Agenzia Fides, padre Antonio César Fernández è rimasto vittima nel primo pomeriggio di ieri 15 febbraio di un attacco jihadista perpetrato a quaranta chilometri dal confine meridionale del Burkina Faso. Il salesiano è stato colpito da tre colpi d’arma da fuoco mentre si trovava in un auto insieme a due confratelli della comunità di Ouagadougou» E’ quanto riferito nei giorni scorsi dall’Agenzia Fides, Organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie dal 1927. I tre stavano rientrando da Lomé (Togo), dove avevano partecipato alla prima sessione del Capitolo provinciale dell’Ispettoria salesiana dell’Africa occidentale francofona (AFO).
«L’auto dove viaggiava padre Fernández e i suoi confratelli, che sono rimasti illesi, è rimasta coinvolta nell’agguato contro il posto di controllo doganale di Nouhao al confine con il Ghana e il Togo. Nell’assalto, perpetrato da un gruppo jihadisti, oltre al missionario spagnolo sono stati uccisi quattro doganieri del Burkina Faso». Nel paese si moltiplicano gli scontri tra le forze di sicurezza e alcuni gruppi di terroristi islamici che agiscono pure in Mali e in Niger ma quell’assalto è stato però è il primo che si registra nella parte centro-orientale del Paese.
 Secondo quanto riferito dal sito d’informazione internazionale InTerris «gli attentatori sono stati definiti come “un gruppo” e, dopo aver esploso raffiche con fucili automatici»: l’arma prediletta dei jihadisti rimane sempre l’Ak 47, ovvero il tristemente famoso kalashnikov. E’ probabile che l’attacco sia stato in realtà un vero agguato all’auto del missionario che era transitata in precedenza in quel varco di confine per recarsi al consesso salesiano.



UNA VITA COME APOSTOLO DI CRISTO IN AFRICA

Antonio Cesar Fernandez fu missionario in Burkina Faso, Togo e Costa d’Avorio. Foto: AFP/Salesianos de don Bosco

Padre Antonio César Fernández, aveva 72 anni e ne aveva serviti 55 come salesiano e 46 come sacerdote. Nato a Pozoblanco il 7 luglio 1946 è stato missionario in diversi Paesi africani dal 1982, anno dell’inizio della presenza salesiana in Togo, la sua prima destinazione di apostolato in nome di Gesù Cristo. Ha lavorato come istruttore dei novizi (1988 – 1998) e ha prestato servizio, tra le altre funzioni, come delegato dell’AFO nel Capitolo generale 25 (2002). Stava svolgendo il suo ministero in Burkina Faso. E’ stato ricordato dai suoi confratelli con una nota in cui si rimarca come il sacerdote «aveva offerto la sua vita per l’Africa e la sua offerta è stata accettata pienamente. Chiediamo a lui di pregare con noi per questa sua ispettoria. Che il Signore risorto accolga con tenerezza Fratel César con tutti coloro che hanno dato la loro vita alla missione salesiana, e che Maria Ausiliatrice, che tanto amava, lo accolga con l’affetto della Buona Madre del Cielo».



I MONACI FRATRICIDI CONDANNATI A MORTE

L’ex monaco Wael Saad Tawadros e il monaco Falta’os al Makari condannati per l’omicidio

Oltre a queste tragiche vicende di martirio un’altra drammatica notizia sconvolge di amarezza il mondo cristiano internazionale: la sentenza di condanna a morte di due monaci egiziani copti ritenuti gli assassini dell’abate vescovo del Monastero di San Macario, Anba Epiphanios, ucciso apparentemente per futili motivi di rivalità personali il 29 luglio 2018. Per quanto il verdetto di colpevolezza emesso sabato 23 febbraio dalla Corte penale di Damanhur fosse atteso in quanto gli indizi a carico degli incriminati sarebbero soverchi, la pena capitale è stata accolta come una “catastrofe” da Anba Agathon, vescovo copto ortodosso di Maghagha, che ha evidenziato all’agenzia Fides la necessità di un presentare al più presto il ricorso per un secondo appello di giudizio, ha definito “triste” quel giorno ed invitato a a pregare per i due condannati: il monaco Falta’os al Makari e l’ex monaco Wael Saad Tawadros. La sentenza attende ora il giudizio definitivo del Mufthi.



IL BRUTALE OMICIDIO ED IL PROCESSO

Anba Epiphanios, l’assassinato abate vescovo del Monastero di San Macario

«Alle prime ore di domenica 29 luglio 2018, il corpo del Vescovo Epiphanius era stato rinvenuto in una pozza di sangue, all’interno del monastero, lungo il tragitto che dalla sua cella conduceva alla chiesa, dove il Vescovo si stava recando per iniziare la giornata con l’ufficio delle preghiere mattutine, prima della Messa domenicale». Riferì allora proprio Fides oggi rimarcando che secondo quanto ricostruito durante le indagini, tra l’Abate assassinato e i due condannati erano sorti contrasti per questioni economiche e per diverse violazioni delle regole monastiche da parte dei due monaci (uno dei quali, Wael Saad Tawadros, dopo l’omicidio era stato spogliato dell’abito monastico al termine di un lungo processo canonico). Durante il dibattimento processuale, i due accusati hanno continuato a proclamarsi innocenti, e hanno anche ritrattato precedenti confessioni di colpevolezza che a loro dire sarebbero state estorte attraverso pressioni psicologiche da parte degli organi inquirenti: Tawadros aveva infatti confessato di aver colpito Anba Epiphanius tre volte in testa con una bastone di ferro mentre il monaco Falta’os controllava che nei paraggi non ci fosse nessuno. Nella sentenza di condanna si legge che i due condannati «non hanno avuto scrupoli nel commettere il loro crimine in un luogo sacro, e hanno mostrato di non tenere in alcun conto neanche l’età avanzata e la statura spirituale della vittima». Motivazioni sufficienti a pregiudicare ogni attentuante che scongiurasse la condanna alla pena capitale ora soggetta al giudizio della massima autorità islamica. «La Corte penale di Damanhur ha sottoposto la sentenza al Mufti d’Egitto, l’autorità religiosa islamica incaricata di emettere le fatwa (pareri giuridici basati sulla Sharia) su questioni rilevanti – spiega ancora Fides – In Egitto, una condanna a morte non può essere definitiva se non approvata dal Mufti. La data del giudizio definitivo è stata fissata dalla Corte per il prossimo 24 aprile». Durante il processo è comunque emerso che la reponsabilità primaria del crimine andava ascritta a Tawadaros, più volte richiamato per motivi finanziari e di disobbedienza, e già oggetto di un provvedimento di allontanamento che non rispettò, continuando a beneficiare dell’ospitalità dell’abbazia e a commettere violazioni interne (probabilmente appropriazioni indebite) fino al giorno del macabro assassinio. La stessa Chiesa Copta lo ha ridotto allo stato laicale per le pregresse violazioni disciplinari e non per l’efferato delitto.



DISCEPOLO DEL PASTORE DEL DESERTO “ERETICO”

Il compianto anacoreta ortodosso copto Matteo il Povero in egiziano Matta el Meskin

L’assassinato Anba Epiphanius, 64 anni, nativo di Tanta, laureato in medicina, era entrato nel Monastero di San Macario, nella regione del Wadi Natrun, nel 1984, era stato ordinato sacerdote nel 2002. Ricercatore e studioso, aveva lavorato alla traduzione dal greco all’arabo di diversi libri della Bibbia. I monaci del Monastero di San Macario lo avevano eletto a maggioranza come proprio abate il 3 febbraio 2013, dove aveva preso il posto che in passato era stato del suo grande maestro spirituale Matteo il Povero, in egiziano Matta el Meskin, al secolo Yūsuf Iskandar (Banha 1919- Il Cairo 2006), una delle ma una delle maggiori figure della storia contemporanea della Chiesa Copta Ortodossa contemporanea quale teologo, ecclesiologo, esegeta, scrittore spirituale tradotto in 17 lingue, ma soprattutto asceta. E come molti degli autentici devoti alla Parola di Dio fu fortemente osteggiato dalle gerarchie ecclesiastiche e soprattutto del Patriarca di Alessandria d’Egitto, Shenuda III. Proprio un anno dopo la morte di quest’ultimo e la nomina del patriarca Teodorico II, viene acclamato vescovo di San Macario, Anba Epiphanius, discepolo del monaco eremita Matteo. Ma solo cinque anni dopo è stato barbaramente ucciso da uno dei tanti Giuda che purtroppo vivono anche nelle comunità religiose.



Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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SPORCO DOPPIO GIOCO USA: ISIS LIBERO IN CAMBIO DI ORO



SOS DI TRUMP SUGLI 800 JIHADISTI EUROPEI
MA SILENZIO SUI 759 FOREIGN FIGHTERS SAUDITI.
FRENETICHE AZIONI AEREE DELL’ESERCITO USA
PORTANO TERRORISTI DAESH IN IRAK E NIGERIA

___di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___


Quattro piccioni con una fava: è questo il prodigioso risultato che sta portando a casa l‘intelligence militare Usa. Ai più allocchi ed ignoranti delle dinamiche ed evoluzioni della guerra civile in Siria sta riuscendo a far credere di aver debellato l’Isis, dallo stesso Pentagono finanziato e armato sotto la presidenza di Barack Obama e in realtà annientato primariamente dall’esercito di Bashar Al Assad con l’aiuto delle forze armate della Russia, degli Hezbollah libanesi, delle Forze Quds iraniane e della Sdf (Sirian Democratic Force) animata e controllata dai curdi del Royana sostenuti dall’esercito della coalizione a guida statunitense. Ai politici superficiali sta facendo credere che ora il problema sono gli 800 Foreign Fighters europei che la Casa Bianca, con insolita clemenza, non è intenzionata a portare a Guantanamo nelle prigioni lager dei Marines per i terroristi jihadisti aperte dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e minaccia di lasciare liberi. «Gli Stati Uniti stanno chiedendo a Gran Bretagna, Francia, Germania e altri alleati europei di prendersi gli 800 combattenti dell’Isis che abbiamo catturato in Siria e di processarli. Il Califfato è pronto a cadere. L’alternativa non è buona ed è che saremo costretti a rilasciarli» è l’inquietante tweet cinguettato dal presidente americano Donald Trump nei giorni scorsi, cui tutti i governi europei hanno fatto orecchio da mercante legittimandolo di fatto a liberarli. Ai più attenti alla geopolitica mediorientale non è sfuggito il furto di 40-50 tonnellate di oro provenienti dalle banche di Mosul in Irak e conservati dall’Isis soprattutto ad al-Dashisha nella campagna meridionale di Hasaka, bottino di guerra ottenuto in cambio ad una liberazione di comandanti Isis già iniziata a gennaio in Afghanistan e intensificata negli ultimi giorni a Deir Ezzor, la cittadina vicina all’Eufrate dove si è concentrato l’estremo attacco della Global Coalition against Daesh guidata dagli Usa nei cieli, e in terra dalla Sdf, con cui si sta sterminando l’ultima sacca di terroristi della bandiera nera. Una notizia diffusa anche dai siti americani Veterans Today e Washington Post. Ma ben pochissimi lettori di news di guerra hanno colto il particolare accuratamente taciuto dal presidente Trump sulla presenza in Siria di almeno 800 Foreign Fighters dell’Arabia Saudita, perlopiù giovani studenti, nemmeno troppo indottrinati dal Corano, probabilmente allettati dall’adrenalina di una reality wargames e dai cospicui ingaggi e premi dell’Isis fondato da Al Baghdadi. Di loro si trova traccia soltanto nell’ultimo rapporto del 5 febbraio scorso del Centre for the Study of Radicalisation (ICSR), un centro di ricerca accademica acclamato a livello internazionale con sede presso il Department of War Studies del King’s College di Londra.


DALL’ISIS TONNELLATE DI ORO PER LA LIBERTA’

Gli elicotteri dell’Us Air Force stanno portando via tonnellate di oro dalla Siria

«Mentre cerca di convincere il mondo della sua immaginaria vittoria su Daesh, (ISIS) Washington sta ancora collaborando con l’organizzazione terroristica, con l’ultimo e forse ultimo capitolo di questa cooperazione che prevede un accordo che coinvolge oro rubato». La denuncia riportata dall’agenzia Sana (Sirian Arab National Agency) è deflagrante come un missile soprattutto perché collima con quella diffusa dall’Osservatorio dei Diritti Umani in Siria (Sohr) di Coventry (Inghilterra) e della BBC, ma, come spesso accade, è stata ripresa soltanto da pochi media occidentali che si sono limitati a riportare la storia dell’oro rubato dagli Usa, non l’infamante “perché” che sarebbe la prova tangibile dello sporchissimo doppio gioco condotto dal Pentagono magari alla stessa insaputa del boccalone Trump che ormai si trangugia qualsiasi menzogna sciorinata dai generali dell’Usaf (Us Air Force) pur di continuare a combattere in Siria e a far girare a pieno ritmo la macchina da soldi delle lobbies degli armamenti: basti pensare che un solo missile Amg 114 Hellfire costa circa 160mila dollari. Non è una novità che gli Usa si approprino dell’oro accumulato dall’Isis in gran parte proveniente dalle banche di Mosul dell’Irak benestante di Saddam Hussein. E’ insolito che le casse di oro siano state trasportate via dalle truppe statunitensi ormai pronte al ritiro annunciato dal loro capo di stato, invece di essere distribuito ai guerrieri curdi dello Sdf, quelli che si sono massacrati sul campo contro i bazooka e mortai del Daesh mentre gli americani si concentravano soprattutto nei raid aerei nella Siria meridionale che hanno causato 1.140 morti civili (Irak compreso dal 2014) secondo le ammissioni della stessa Coalizione occidentale e invece quasi 12mila secondo l’IHRC, la Commissione Internazionale per i Diritti Umani (IHRC) nel Medio Oriente. «Le fonti hanno detto che gli elicotteri militari statunitensi sono atterrati a Hajin, a Deir Ezzor, a Dashisha e a Haska, trasportando i leader di Daesh che si erano consegnati alle forze americane e in seguito hanno indirizzato gli americani ai lingotti d’oro rubati, chiudendo un accordo con il quale Washington ha guadagnato centinaia di milioni dollari grazie ai leader e gli esperti sul campo dell’organizzazione terroristica» lo ha scritto Hazem Sabbagh per l’agenzia Sana ma come detto la notizia è stata ripresa anche dai media nordamericani e occidentali e pure da Al Jazeera. Uno degli ultimi preziosi voli sarebbe avvenuto domenica dopo il tramonto. In particolare Veterans Today riporta un articolo del newspaper Farnews di Teheran molto dettagliato sui movimenti di guerriglieri Isis.



LA FUGA DEI JIHADISTI ISIS IN IRAK COPERTA DAGLI USACombattenti Isis trasportati in Irak con i camion dell’esercito americano

«Decine di militanti dell’ISIL e dei loro familiari hanno lasciato la Siria orientale per la Turchia dopo aver pagato migliaia di dollari, mentre i rapporti hanno riferito che altri 3.000 sono stati probabilmente trasferiti dagli Stati Uniti in Iraq. L’Osservatorio siriano di diritti umani (SOHR), con sede a Londra, ha riferito lunedì che oltre 85 militanti dell’ISIL e i loro familiari sono stati trasferiti in Turchia attraverso le regioni occupate dalle forze democratiche siriane (SDF) e dai terroristi sostenuti da Ankara – scrive FNA Farsnews – Ha aggiunto che ogni persona ha pagato 10mila dollari per poter lasciare la regione, notando che uno dei membri uzbeki dell’ISIL ha pagato 50mila dollari per se stesso e per i suoi familiari di fuggire. Nel frattempo, Hassan al-Olow, membro del parlamento iracheno della provincia di Ninive, ha scritto sulla sua pagina twitter che circa 3000 terroristi dell’ISIL sono stati evacuati dalla regione di Baqouz nel sud-est di Deir Ezzur su oltre 30 camion e sotto la supervisione degli Stati Uniti. Ha ipotizzato che i terroristi siano stati trasferiti nelle aree desertiche nella provincia di al-Anbar nell’Iraq occidentale. Nel frattempo, il SOHR riferito che 82 militanti dell’ISIL insieme ai loro familiari, con un totale di 1.400 persone, sono stati segretamente evacuati da Baqouz su diversi camion, aggiungendo che centinaia di essi sono stati trasferiti nei territori iracheni. Il SOHR aveva anche riferito sabato che le truppe dell’esercito americano avevano aiutato decine di migliaia di terroristi dell’ISIL e le loro famiglie ad uscire dall’Eufrate orientale». Proprio l’osservatorio cita numeri da capogiro che parlano di 46mila persone in totale tra cui 2.100 sono dall’area dell’Eufrate in mezzo ai quali 40 foreign fighters, anticipando che a breve altri 3mila tra comandanti e combattenti Daesh saranno evacuati. Si tratta di un piano in parte simile a quello apertamente sottoscritto da Turchia e Russia (in rappresentanza anche dell’Iran) il 17 settembre scorso per la zona di tregua della provincia settentrionale di Idlib, una pace reiteratamente violata dai gruppi jihadisti, in quel caso in prevalenza qaedisti di Al Nusra con le inevitabili reazioni dell’artiglieria dell’esercito siriano, dove era prevista la fuoriuscita dei fondamentalisti combattenti garantita dal governo di Ankara ma mai di fatto compiuta. Con l’unica sostanziale differenza che ad Idlib fu pensato questo accordo salva-terroristi per evitare un attacco frontale militare con inevitabile strage di civili spesso usati da scudi umani dai miliziani islamici mentre a Deir Hezzor le bombe “intelligenti” di Trump hanno già fatto tra gennaio e febbraio almeno 64 morti civili tra cui 11 bambini: quindi la liberazione dei jihadisti non è stata funaizonale ad alcuno risparmio di vite umane. Onde non ripetermi non indugio sulla liberazione dei comandanti Isis in una prigione del nord dell’Afghanistan effettuata con un blitz dai reparti speciali Usaf che hanno ucciso numerosi talebani e poi elitrasportato non si sa dove i prigionieri Usa. Ma la vera vergogna di Washington giunge sul silenzio totale circa altri spostamenti mirati e gli oltre settecento Foreign Fighters sauditi che rimangono un mistero…

FOREIGN FIGHTERS ISIS PORTATI IN NIGERIAMilitanti dello Stato Islamico con la bandiera nera che identifica l’Isis

La stessa agenzia Sana riferisce inoltre modo assai circostanziato il movimento dei combattenti Isis dalla Siria all’incandescente Nigeria, fulcro dell’attività degli efferati jihadisti Boko Haram e dove si sono appena tenute con ritardi logistici le elezioni presidenziali. «Il Commissario della Commissione Internazionale per i Diritti Umani (IHRC) nel Medio Oriente, Haitham Abu Said, ha affermato il coinvolgimento degli Stati Uniti nel traffico clandestino e trasporto di terroristi dalle campagne di Raqqa e di altre aree della Siria settentrionale ai paesi dell’Africa, in collaborazione con il regime turco esercito – scrive l’agenzia d’informazione siriana – Abu Said ha evidenziato in una dichiarazione che circa 1200 terroristi di diverse nazionalità, tra cui francesi, tedeschi e ceceni, sono stati trasportati nel continente africano, e in particolare in Nigeria, con l’aiuto delle truppe statunitensi e dell’esercito turco, aggiungendo l’informazione che alcuni leader di gruppi terroristici sono entrati in Marocco. Prove e fatti confermano che esiste una stretta relazione tra l’organizzazione terroristica statunitense e Daesh (ISIS)». Notizie difficili se non impossibili da verificare essendo ben coperte dal segreto militare dagli americani dei quali sorprende il silenzio sulla massiccia presenza di Foreign Fighters sauditi ben focalizzata invece dallo centro di studio di fenomeni bellici ICSR King’s College di Londra che ha tra le sue lodevoli finalità quelle di consulenza a governi, forze dell’ordine, intelligence su come frenare il flusso di combattenti terroristi stranieri; comprendere le motivazioni della radicalizzazione per coloro che diventano quelli che i loro analisti appunto FTF (Foreign Terroristic Fighters); valutare la minaccia del rientro ed esplorare le opportunità di deradicalizzazione. «Il conflitto siriano è stato la guerra nella storia più socialmente mediata. In risposta, ICSR ha sviluppato alcuni dei più sofisticati metodi “open source” utilizzati dagli accademici oggi per comprendere meglio le origini, il ruolo e il coinvolgimento dei combattenti stranieri che vi partecipano – scrivono gli studiosi londinesi – Ciò è culminato nella creazione di un database contenente informazioni su oltre 700 volontari occidentali, fornendo una base empirica per quantificare le esperienze di questi combattenti. Questa ricerca è stata aumentata da ricerche sul campo e interviste con oltre 100 combattenti stranieri, che sono stati condotti durante il loro tempo nel teatro di guerra. In aggiunta a ciò, ICSR cura una serie di database sussidiari basati sulla raccolta di dati da fonti sia aperte che chiuse. Uno di questi comprende un archivio codificato di oltre 4000 registrazioni di ingressi di volontari dello Stato Islamico (ISIS / ISIL / Daesh), consistenti in una dettagliata suddivisione delle pratiche burocratiche che hanno completato quando hanno aderito al movimento. Queste ricche fonti empiriche forniscono la base del nostro lavoro in corso per quantificare, contestualizzare e spiegare il ruolo dei combattenti stranieri nel conflitto siriano, la loro potenziale minaccia per l’Occidente e la probabilità di una cosiddetta “minaccia di rimpatrio”».




Una delle schede del dossier del Corriere della Sera sui Foreign Fighters Isis – CLICCA SULL’IMMAGINE PER LEGGERE IL REPORTAGE COMPLETO

Come ha riferito il Corriere in un dettagliato dossier in cui specifica che i foreign fighters sarebbero addirittura 30mila (il dato ICSR è riferito solo agli arrivi monitorati) a Baghdad sono state emesse 300 condanne a morte e 185 ergastoli ma la maggior parte dei prigionieri Isis era rimasta nelle prigioni dei curdi Sdf che, privi di legittimazione internazionale a processarli e nolenti a giustiziarli sommariamente, con la complicità e regia degli Usa hanno cominciato il processo di liberazione su riscatto. Tra i gli 800 citati da Trump ci sono anche 40 italiani tra cui la 22enne padovana Meriem Rehaily, partita nel 2016. Ma da nessuna parte c’è notizia degli FTF sauditi che risultavano 759 sui 4mila monitorati da ICSR: ovvero un quinto dei combatenti stranieri Isis stimati dallo stesso centro studi londinese. Nessuno sa che fine abbiano fatto ma ovviamente il sospetto è che siano stati liberati per andare nello Yemen dove l’Arabia Saudita governata dai wahabiti-sunniti combatte contro i ribelli Huthi, nemici sciiti, con l’appoggio e gli aiuti militari degli Usa. Vediamo almeno di capire chi sono.


IL MISTERO SUI 759 FOREIGN FIGHTERS SAUDITI

Il dossier dell’ICsr di Londra sui Foreign Fighters Sauditi. Vedi link: 

«All’inizio del 2016 è stata trapelata un’enorme grande quantità di documenti con le informazioni sulle nuove reclute che tentavano di unirsi al cosiddetto Stato islamico (IS) in Siria. La stragrande maggioranza delle persone nominate in questi documenti si unì all’organizzazione terroristica negli anni 2013 e 2014 – scrive Abdullah bin Khaled Al-Saud nel suo dettagliatissimo dossier di 40 pagine pubblicato il 5 febbraio scorso sul sito del Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) – Raramente si ha la possibilità di vedere i documenti interni dei gruppi terroristici la cui sopravvivenza dipende e dipende dalla segretezza assoluta. Questo è il motivo per cui tali documenti sono così preziosi e importanti. Questo documento di ricerca presenta un’analisi approfondita dei record trapelati di 759 Foreign Terroristic Fighters dell’Arabia Saudita contenuti in questo archivio, sia cittadini che residenti, e presenta intuizioni chiave sul profilo della recluta saudita. Analizzando i record di IS e concentrandosi su quelli che riguardano individui provenienti da un paese che è sempre stato preso di mira e considerato come il premio finale per gruppi terroristici e organizzazioni (in particolare l’Arabia Saudita), questo studio rappresenta un passo importante per aumentare la conoscenza contestuale. Tale conoscenza è vitale quando si tratta di un fenomeno intricato come il terrorismo e un processo complesso quanto la radicalizzazione» L’analisi è davvero sosprendente perché evidenzia come i jihadisti volontari Isis sauditi fossero perlopiù giovani studenti né particolarmente fanatici religiosi né provenienti da ceti di estrema povertà. «Questa prima coorte di combattenti terroristi stranieri sauditi (FTF) era per lo più giovane e rappresenta una nuova generazione di jihadisti sauditi. Tuttavia, per la maggior parte, non erano né adolescenti, né solitari e emarginati – evidenzia Abdullah bin Khaled Al-Saud – Sebbene non provengano da uno specifico segmento povero e scontento della società saudita, la provincia di al-Qassim, nell’Arabia Saudita centrale, ha presentato il più alto rapporto di combattenti stranieri sauditi per 100.000 residenti con un margine significativo. La stragrande maggioranza, per auto-ammissione, non è ben introdotta nella conoscenza religiosa. Anche se questa è stata una caratteristica costante tra la maggioranza delle reclute nei confronti di gruppi terroristici in generale, è ancora più pronunciata quando si parla di IS. Questo gruppo di FTF saudita non è culturalmente sottosviluppato; quindi, sarebbe difficile affermare che soffre di mancanza di opportunità o assenza di mobilità verso l’alto. I maggiori disordini politici e l’instabilità e l’accentuato settarismo nella regione spiegano di più la radicalizzazione dei combattenti terroristi stranieri sauditi di IS rispetto alla mera ideologia socioeconomica o pura religiosa. L’IS tenta di sfruttare le faglie settarie nelle società e adattare la sua narrativa e l’approccio ai contesti storici e sociali specifici di ciascun paese. È quindi indispensabile acquisire il maggior numero possibile di conoscenze contestuali al fine di poter escogitare soluzioni efficaci per affrontare la sua minaccia». Chi vuole approfondire legga la ricerca che pubblichiamo integralmente in inglese. 
Ma di questi giovani combattenti sauditi, un quinto tra tutti i Foreign Terroristic Fighters, non si sa più nulla. Perché l’amicizia degli Usa con il Regno dell’Arabia Saudita, col quale Donald Trump si appresta a siglare un accordo per un piano nucleare, è stata appena scossa dalla barbara esecuzione dell’editorialista dello Washington Post Jamal Kashoggi, è passata indenne alla strage degli innocenti dei bambini yemeniti morti di fame per gli embarghi di Riad agli aiuti umanitari, e non sarà certo compromessa dalla gestione di qualche centinaio di terroristi inventati, armati e pilotati dall’amministrazione di Barack Obama. Secondo i più fini esperti di intelligence e geopolitica infatti l’Isis non è altro che la Gladio del Terzo Millennio, una nuova formula di quella Stay Behind che se poteva essere digerita dai governi e dalle ntelligence straniere Nato nell’era della guerra fredda non potrebbe essere certo legittimata oggi. Ecco quindi che al posto dell’ormai primitivo James Bond al servizio della MI6 britannica gli Usa hanno nuovi 007 con licenza di uccidere, sterminare e bombardare coperti dalla maledetta bandiera nera Isis che in qualsiasi momento possono essere facilmente giustiziati e condotti al silenzio tombale nell’encomio di tutti i popoli della terra.



Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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LA PERLA DI OGGI

"La codardia, in generale, è cercare l'approvazione e non la verità, le decorazioni e non l'onore, l'ascesa e non il servizio, il potere e non la salute dell'umanità."


(Jean Guitton)

Terroristi Mko alla corte di Parigi

Storicamente la Francia è stata rifugio dei più disparati e ambigui gruppi terroristici internazionali, dalle Brigate Rosse italiane ai dissidenti iraniani dell’Mko (Mojahedin-e Khalq). Quest’ultimo gruppo terroristico, osannato, difeso e finanziato dall’Occidente, è responsabile di numerosi atti di terrorismo e di violenza contro i civili sciiti iraniani e iracheni. Dopo l’instaurazione della Repubblica Islamica hanno stretto legami con il regime sionista e quello americano, tramutandosi in uno dei maggiori strumenti di Israele e del Grande Satana nel loro tentativo di rovesciare l’ordinamento della Repubblica Islamica.


L’Mko si è trasferito in Iraq nel 1986, dove ha ricevuto il sostegno di Saddam Hussein. Quasi 17mila iraniani sono stati uccisi in attentati terroristici dopo la vittoria della Rivoluzione Islamica del 1979, di cui 12mila vittime di atti di terrorismo effettuati dall’Mko. Il gruppo si è anche schierato con Saddam durante la guerra imposta durata otto anni (1980-1988), tra l’Iraq e la Repubblica islamica dell’Iran.

Il gruppo terroristico ha abbandonato l’Iran dopo la Rivoluzione islamica del 1979 e dopo aver effettuato un’ondata di omicidi e attentati che hanno causato la morte di migliaia di iraniani. L’organizzazione criminale, finanziata e sostenuta dagli Stati Uniti, Israele e dai loro alleati regionali, si è resa responsabile di numerosi atti di terrorismo contro civili e funzionari iraniani; nel 1991 ha partecipato alla sanguinosa repressione degli sciiti nel sud dell’Iraq e al massacro dei curdi iracheni nel nord del Paese.

Questa setta, a seguito dell’instaurazione della Repubblica Islamica in Iran nel 1979, nel tentativo di destabilizzare il neonato ordinamento islamico rivoluzionario, scatenò un’ondata indiscriminata di stragi e attentati che colpirono proprio quel popolo che a parole sostenevano di servire. Poco dopo l’invasione dell’Iran da parte dell’esercito di Saddam nel 1980, i “Monafeqin” (gli ipocriti) strinsero alleanza con il regime di Baghdad, spostando le loro basi e membri in Iraq, ricevendo sostegno e addestramento dai servizi segreti del Baath e lanciando numerosi attacchi e aggressioni contro la loro stessa madrepatria.
Mko in Albania

Dopo essere stati cacciati dall’Iraq, i “Mojahedin” iraniani sono arrivati in Albania come “profughi di guerra” nel 2013, dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. L’Mko, che gestisce un campo paramilitare nel villaggio di Manez, poco fuori Durazzo, è stato accusato da vari media albanesi e occidentali di svolgere attività illegali in Albania. L’Mko infrange molte leggi albanesi e internazionali, invita a compiere atti terroristici contro l’Iran. Mantengono molti dei loro membri in condizioni simili agli schiavi e subiscono il lavaggio del cervello. Se un albanese dovesse fare in Albania ciò che fa Mko e la sua leader Maryam Rajavi, si farebbe 15 anni di carcere. Tuttavia, l’Albania non applica le sue leggi sui membri Mko.

Dal suo campo paramilitare, l’Mko attacca quotidianamente l’Iran con notizie false e spionaggio, ma non solo. Le persone che hanno familiarità con i loro siti Web e pubblicazioni, sanno che l’Mko attacca anche i media albanesi e occidentali che non supportano la posizione dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Iran o mettono in dubbio le credenziali “democratiche” di questa organizzazione terroristica. Attraverso i suoi giornalisti (finanziati dall’Occidente), l’Mko ha attaccato negli ultimi mesi molte testate come Al-Jazeera English, Channel 4 News, The Guardian e The Independent. Ha anche attaccato molti media e personalità in Albania, tra cui l’ex presidente dell’Albania, Rexhep Mejdani, sostenendo che lavorano per l’Iran contro l’”opposizione democratica” di Maryam Rajavi.

All’interno della loro base, 50 volte più grande di un campo di calcio, vivono duemila membri del gruppo terroristico. Gli elementi dell’Mko non hanno accesso a telefoni cellulari, orologi o calendari, alcuni di loro sono attivi nei lavori di costruzione mentre altri siedono dietro ai computer per pubblicare notizie false sull’Iran su Twitter e Facebook o arruolare nuovi membri via Telegram.

Maryam Rajavi, leader Mko, incontra senatore americano, John McCain
Mko e il presunto attentato di Parigi

Una lettera ricevuta dai media iraniani da un ex membro del terrorista Mojahedin-e Khalq-e dichiara che due dei quattro arrestati per il presunto attacco alla riunione dell’Mko a Parigi, era costituita da ex membri che non erano più necessari al gruppo.

Mesi fa, l’ufficio del procuratore federale belga ha dichiarato che una coppia di sposi di origine iraniana è stata arrestata dopo essere stata accusata di preparare un attentato dinamitardo durante un incontro dell’Mko in Francia. L’ufficio del procuratore belga ha nominato la coppia come “Amir S [aa’douni]” e “Nasim N”. Successivamente, un vecchio amico di Amir, che ha scritto per anni sulla storia oscura del famigerato gruppo criminale, ha fornito all’agenzia stampa iraniana Mehr News Agency immagini e note che rivelavano la trama sporca dei leader dell’organizzazione contro i suoi membri. Nella sua lettera, dichiara che Amir era uno dei membri attivi dell’organizzazione in Europa.

Nella sua lettera si legge: “L’Mko ha ignorato tutto ciò che Amir ha fatto per l’organizzazione per vent’anni e lo ha etichettato come agente del governo iraniano”. L’ex membro dell’Mko ridicolizza l’affermazione dei leader dell’organizzazione terroristica secondo cui Amir avrebbe voluto attaccare il loro incontro per assassinare tutti i leader dell’Mko, dato che lo avrebbe potuto fare facilmente avvelenando il cibo durante il periodo in cui era il cuoco dell’organizzazione.

Inoltre, mette in dubbio la capacità di Amir di attaccare l’annuale meeting dell’Mko che si tiene a Parigi tra rigidissime misure di sicurezza per la partecipazione di politici statunitensi, tra cui Rudy Giuliani, l’avvocato di Donald Trump. Alla fine, la lettera descrive ulteriormente l’affermazione dell’Mko sul presunto attentato come “infondata e banale”, nonché uno spettacolo di propaganda.

Ogni anno, i terroristi dei Mojahedin-e Khalq organizzano la loro conferenza annuale a Parigi, in cui partecipano diversi leader politici occidentali, italiani compresi.

di Giovanni Sorbello