Nel 1919, J. M. Keynes ha pubblicato una bellissima monografia sulle conseguenze economiche della pace. Si tratta della sua reazione alle condizioni imposte alla Germania per la sconfitta della prima guerra mondiale. Condizioni inique, secondo Keynes, che poi avrebbero portato a una grave crisi economica e sociale e alla nascita delle funeste ideologie del nazismo, del fascismo e del comunismo.
Lo stesso titolo potrebbe essere adatto per le conseguenze economiche della pandemia di coronavirus che stiamo vivendo a livello mondiale. Si deve parlare di pandemia perché attualmente interessa più della metà dei paesi di tutto il mondo.
Le conseguenze economiche sono particolarmente gravi per l’Italia, ad oggi il secondo Paese con il maggior numero di contagi dopo la Cina.
Non è irrealistico ipotizzare, tenuto conto della durata e dell’intensità della curva dei contagi, che nel corrente anno si potrebbe registrare una perdita del prodotto interno lordo (PIL) fino ad un massimo di un mese, cioè 150 miliardi di euro. In tale ipotesi, la perdita di PIL si potrebbe collocare tra il 4 e il 5%, se non di più, con conseguenti effetti negativi sul tasso di disoccupazione. Attualmente, i principali Istituti di previsione collocano la perdita di PIL per il nostro Paese nel 2020 a causa del coronavirus tra l’1 e il 2%.
Le conseguenze sulle nostre finanze pubbliche sarebbero pesantissime, con una salita del rapporto tra debito pubblico e PIL sopra il 140%. Come conseguenza salirebbe lo spread tra il rendimentodei titoli pubblici italiani e quello dei titoli pubblici tedeschi e quindi un appesantimento del deficit al di là di quello che è consentito dalle regole europee. Attualmente, lo spread si sta avvicinando ai 300 punti base, con un aggravio per interessi sul debito pubblico dell’ordine dei 70 miliardi all’anno.
Bisogna pertanto prepararsi a questo preoccupante quadro e mettere in atto, fin da adesso, uno straordinario programma di investimenti pubblici e di politica industriale. In totale, dovrebbe trattarsi di 400 miliardi di euro in 5 anni, di cui 250 di investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali e 150 miliardi di investimenti del nostro sistema industriale, con particolare riguardo al salto verso la digitalizzazione e al conseguente aumento di produttività di cui abbiamo estremo bisogno per la nostra competitività. Ipotizzando un moltiplicatore degli investimenti molto contenuto, cioè 1,1 come media, avremmo un aumento del PIL di circa 80 miliardi di euro all’anno per cinque anni, cioè una crescita intorno al 4%. Si tratta della crescita di cui avremmo bisogno per il risanamento della nostre finanze pubbliche e per uscire dalla depressione della nostra economia, che ci accompagna danni, nell’arco di un quinquennio.
Coronavirus: il mondo occidentale punta al reshoring
I maggiori Paesi industrializzati, con in testa gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea, stanno operando per riportare in patria quote di produzione industriale emigrate all’estero negli ultimi decenni, con effetti pesanti sui loro livelli occupazionali. Si tratta del cosiddetto reshoring.
Il tema riguarda direttamente l’industria italiana e la necessità di sostenere questo processo con un’adeguata politica industriale, latitante da troppo tempo, salvo alcuni sporadici interventi riguardanti Industria 4.0.
L’obiettivo del reshoring è testimoniato dall’impegno della Commissione Europea (Un’industria europea più forte per la crescita e la ripresa economica, 2012) di passare, entro il 2020, dall’attuale 16,5% del PIL legato al manifatturiero al 20%, a cui è seguita la cospicua allocazione di fondi comunitari destinati alla ricerca e allo sviluppo nel settore industriale.
Per quanto riguarda l’Italia, ciò significa un aumento del valore aggiunto industriale di quasi 70 miliardi di euro, con aumenti di notevole significato dei livelli occupazionali nel settore manifatturiero.
La via del reshoring è particolarmente sentita negli Stati Uniti d’America che ha perso notevoli quote di valore aggiunto industriale a favore soprattutto della Cina, con pesanti ripercussioni sui livelli occupazionali e sull’andamento dei conti con l’estero. E’ questo il motivo per cui il Presidente americano Trump ha lanciato con determinazione la volontà di un forte rilancio della politica industriale per sostenere il reshoring. Tale politica è accompagnata da quella dei dazi all’importazione e dalle pressioni sulla Federal Reserve per abbassare i tassi di interesse, come è avvenuto di recente, per ridurre la forza del dollaro nei confronti delle principali valute.
Al di là di ogni giudizio che in questa sede non si desidera esprimere, tutto questo ha portato alla guerra commerciale dei dazi e ad una visione bilaterale nei rapporti economici internazionali rispetto alla visione del multilateralismo che ha caratterizzato il grande sviluppo economico del dopoguerra. Di fronte alle tendenze che sono state illustrate, è evidente che dobbiamo andare alla ricerca di un nuovo ordine economico mondiale, perché quello nato con gli accordi di Bretton Woods del 1944 è ormai entrato in una crisi irreversibile. E’ questa una delle grandi sfide che abbiamo davanti a noi: costruire un nuovo ordine economico mondiale.
Coronavirus: serve un cambio di paradigma
La pandemia di coronavirus che ha colpito tutto il mondo ci deve fare riflettere sui limiti della natura umana e sull’importanza di vedere il nostro futuro con humilitas, senza farci prendere da idee di onnipotenza come quelle del trans-umanesimo, del post-umanesimo e dell’intelligenza artificiale. Come ci ricorda Benedetto XVI nella Caritas in veritate, “Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l’uomo. Attratta dal puro affare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone” (n.74). Una visione questa, anticipata da Giovanni Paolo II nell’aureo libretto Fides et ratio del 1998 e ribadita da Papa Francesco nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 e nell’Enciclica sociale "Laudato sì" sulla cura della casa comune del 2015.
In una recente indagine condotta insieme da Italia, Germania, Polonia e Russia sui giovani e la loro idea di futuro, risulta che il bene salute risulta al primo posto della graduatoria in tutti i quattro Paesi analizzati. All’ultimo posto della graduatoria troviamo l’interesse dei giovani per la religione e la politica. Grandi dovrebbero essere pertanto gli investimenti degli Stati per la cura della salute dei loro cittadini, comprese le fasce più deboli come gli anziani. La pandemia di coronavirus ci richiama a questa fondamentale realtà che certamente era stata sottovalutata, a partire dal nostro Paese.
Abbiamo toccato con mano, con la pandemia di coronavirus, che è sbagliato ridurre le risorse per la salvaguardia della salute dei cittadini. Se la salute dei cittadini viene meno, entra in crisi tutto il sistema economico.
E’ tempo di coniugare l'etica con l’economia e con il lavoro, con l’efficienza, con gli obiettivi aziendali, con la competizione internazionale. Eravamo arrivati ad un punto in cui la libertà sembrava senza limiti. Tutto è veloce, integrato e iper-connesso.
La pandemia di coronavirus è un esempio di globalizzazione cattiva che ci deve far riflettere per cambiare il nostro modello di sviluppo, come affermano Benedetto XVI e Papa Francesco.
A inizio 2020 ci accorgiamo che anche un virus proveniente dalla lontana Cina può arrivare subito da noi. Non solo quindi merci prodotte a basso costo che potevano portarci economie ed arricchimento, ma anche un virus che minaccia la salute di molti cittadini.
Il tanto inflazionato termine economia circolare non significherà forse che anche il negativo può tornarci indietro e non solo i vantaggi?
Non appena si sono diffuse le notizie sulla portata della pericolosità del coronavirus, i mercati finanziari di tutto il mondo sono entrati in fibrillazione, con perdite di molti miliardi dicapitalizzazione di borsa. In venti giorni, la Borsa di Milano ha perso più del 40% e quella di NewYork più del 20%. Bisogna quindi prenderne atto e agire subito. La sua diffusione, infatti, si sta ora allargando anche ad altri Paesi, come Francia e Germania e ciò rende necessario modificare le regole europee in materia di bilancio, rivedendo i limiti di spesa e la possibilità di investire in deficit.
Coronavirus: i numeri sulla sanità pubblica in Italia e all'estero
In Italia serve una sana unità nazionale in grado di tutelare la salute pubblica, il vero bene comune, e misure per intervenire a sostegno dell’economia del Paese anche derogando al patto di stabilità.
Quali misure ha finora messo in campo il governo italiano? Facciamo un sintetico raffronto con quanto fatto negli Stati Uniti, dove sono stati stanziati 850 miliardi di dollari per l’emergenza coronavirus ovvero il 4,4% del PIL. Ebbene, l’Italia ha stanziato 27,5 miliardi di dollari (25 miliardidi euro), pari all’1,2% del nostro PIL. In pratica, per fare come gli statunitensi, dovremmo stanziare circa 90 miliardi di euro.
È utile inoltre riflettere sul modello economico e produttivo “impostoci” dalla globalizzazione e al quale oggi siamo tutti abituati, quello della dipendenza dalla Cina. Infatti, con il crescere della “psicosi da contagio” il coronavirus è diventato il principale nemico per lo sviluppo economico mondiale.
Occorre tenere presente che esiste una correlazione tra gli impatti economici e il cosiddetto “effetto sorpresa”, legato alla paura, all’ansietà e alla perdita di fiducia. La paura influenza le decisioni degli individui e soprattutto quelle riguardanti gli investimenti, da cui dipendono la crescita del reddito e dell’occupazione. Dobbiamo prestare molta attenzione all’effetto “mandria”, seguendo come pecorele reazioni negative degli operatori economici.
Occorre rendersi conto che è giunto il momento di correggere le distorsioni di un’economia sempre più globalizzata, che pur essendo fonte di nuove opportunità e di vantaggi economici e culturali, mostra come la crisi di un Paese, in questo caso la Cina, condizioni gli stili di vita di tutte le altre nazioni. Ma il benessere di un popolo non può dipendere dall’economia di un solo Paese, per quanto grande possa essere, che ormai produce tutto ed è diventato la “fabbrica del mondo”. La Cina ha un peso del 18% sulla popolazione mondiale, del 17% come PIL, dell’11% sul commercio mondiale,del 10% sul turismo di tutto il mondo.È necessario che la politica economica e la politica industriale valorizzino le nostre imprese mettendole nelle condizioni di produrre in Italia (reshoring), soprattutto attraverso agevolazioni fiscali e alleggerimenti burocratici. Dobbiamo dire basta ad andare all’estero per produrre con manodopera a basso costo e senza tutele. Per questo abbiamo assoluto bisogno di una visione di lungo periodo della nostra economia, facendoci trovare pronti per la fine della pandemia o per la prossima pandemia o crisi.
Non c’è dubbio che occorre agire con celerità, per salvaguardare, tra l’altro, l’occupazione con misure a tutela di tutte le categorie interessate dai provvedimenti restrittivi. Auspicabili, in particolare, il sostegno al reddito con l'utilizzo di tutti gli ammortizzatori sociali, compresa la cassa in deroga per i dipendenti delle piccole imprese e gli aiuti alle imprese con la sospensione a tempo, almeno per tre mesi, di contributi previdenziali, tassazioni, mutui e finanziamenti per garantire loro più liquidità, anche attraverso il potenziamento del Fondo Centrale di Garanzia per le piccole e medie imprese e le imprese artigiane per facilitare l’accesso al credito. Inoltre, bisogna stabilire degli automatismi per estendere i benefici, aumentandone la portata e tenendo conto dei gravi contraccolpi negativi segnalati dagli operatori nel settore del commercio e del turismo.
Coronavirus e globalizzazione
In questi momenti difficili, occorre più attenzione alle persone povere dei paesi in via di sviluppo, lottando contro la violazione dei diritti umani e della dignità delle persone.
La globalizzazione ha creato insicurezze e diseguaglianze, mettendo in pericolo anche valori fondamentali quali la dignità del lavoro, l’esercizio di una democrazia effettiva, l’affermarsi della politica ad esclusivo vantaggio degli interessi di pochi privilegiati, con l’unico obiettivo del profitto. In sostanza, ad una globalizzazione dei mercati, estranea ai diritti dei popoli, non è seguita, come affermava Giovanni Paolo II, una globalizzazione della solidarietà, ponendo l’uomo al centro dei processi di sviluppo con i suoi valori di libertà, responsabilità, dignità, creatività.
La globalizzazione, come ci ricorda Benedetto XVI, ci ha resi più vicini ma non per questo più fratelli. La fratellanza umana è fondamentale per dare un futuro al nostro pianeta, soprattutto alle giovani generazioni, speranza di un mondo migliore.
In sintesi, per le conseguenze economiche della pandemia coronavirus occorre porre grande attenzione agli effetti sulla recessione mondiale e quella sui singoli Paesi, probabilmente sottovalutati; alla nuova architettura che bisogna dare alle politiche economiche, soprattutto, per quanto ci riguarda, a quelle dell’Unione europea con un forte riequilibrio tra politica fiscale e politica monetaria; ad un ripensamento dei vantaggi e degli svantaggi della globalizzazione; ad un organismo mondiale di prevenzione degli “eventi catastrofici” in seno alle Nazioni Unite per non trovarsi impreparati ad eventi come quelli della pandemia coronavisrus e ad altre gravi calamità conosciute almeno negli ultimi vent’anni; ad una maggiore coesione e unità di intenti da parte dei Paesi dell’Unione europea, soprattutto dopo l’evento doloroso della Brexit affinchè non possa ripetersi.
L’Unione europea per il suo futuro deve assolutamente superare la “sindrome” della famiglia in disaccordo, costruendo una famiglia unita su solide basi etiche e morali come ci hanno insegnato i nostri Padri fondatori. Serve un cambio di passo radicale ed occorre pensare al dopo in maniera nuova. Lo dobbiamo ai nostri giovani che sono la speranza di un mondo migliore.