Perché l’euro è stato un fallimento? Perché una unione monetaria senza unità politica né fiscale non può che fallire, dato che lascia gli stati membri privi degli strumenti normalmente necessari a guidare l’economia nazionale, senza darne loro di nuovi. L’economista Ashoka Mody riassume sinteticamente ed efficacemente in un capitolo del suo ultimo libro sulla “eurotragedia” i motivi – noti da tempo ai nostri lettori – per cui l’euro è stato un autentico disastro per l’Europa, mostrando come è quasi incredibile che qualcuno oggi sia ancora convinto che l’unione monetaria possa in qualche modo funzionare. I leader europei, guide cieche, hanno condotto i popoli a una meta molto diversa da quella a cui aspiravano – o dicevano di aspirare.
di Ashoka Mody, 3 settembre 2018
L’euro – la moneta unica condivisa da diciannove nazioni europee – è un fenomeno unico nella storia umana.
Mai prima d’ora un gruppo di Paesi aveva creato una valuta totalmente nuova, che avrebbero condiviso. Alcuni idealisti hanno visto questa singolarità come una virtù, come l’araldo di un futuro mondo migliore dove le nazioni cooperano su una gamma più ampia di decisioni politiche ed economiche. A tempo debito sarebbe emersa un’unione politica; i parlamenti nazionali avrebbero dato maggiore autorità a un parlamento europeo, che avrebbe deciso per tutti. Con questa visione, quasi mezzo secolo fa, le nazioni europee hanno iniziato a esplorare l’idea di una moneta unica. Una simile moneta unica, affermavano i loro leader, avrebbe portato maggiore prosperità e una più grande unità politica.
A quei tempi l’Europa aveva molte qualità. Le ferite della Seconda guerra mondiale stavano svanendo nel passato. Gli europei avevano reso inconcepibile un’altra guerra. Avevano imparato a “combattere sui tavoli delle conferenze” piuttosto che sui campi di battaglia. Avevano aperto i loro confini per consentire maggiori scambi reciproci. Niente di tutto ciò era stato facile. Avevano saggiamente fatto piccoli balzi nel vuoto per lasciarsi lentamente alle spalle le ombre delle due grandi guerre combattute all’inizio del 20° secolo, e avevano imparato a fare affidamento sulla reciproca buona volontà. Erano giustamente orgogliosi del loro successo.
A quel punto, lo scopo storico essenziale – costruire la migliore difesa umana contro un’altra guerra europea – era stato ampiamente soddisfatto. La domanda era come utilizzare al meglio lo spazio aperto da questa parentesi di pace. Il compito che aspettava gli europei era di costruire sui valori liberali che i cittadini europei avevano imparato ad amare. Per creare una società aperta. Per consentire la competizione delle idee. Per promuovere la creatività e la prosperità.
A L’Aia, nel dicembre 1969, i leader europei, forse all’inizio inconsapevolmente, fecero un altro salto nel vuoto: decisero di creare una moneta unica. L’idea era che le imprese e i viaggiatori avrebbero risparmiato i costi di cambio della valuta, e quindi avrebbero commerciato e viaggiato di più all’interno dell’Europa. Inoltre, con una Banca centrale europea, la zona euro avrebbe avuto una politica monetaria uniforme, che i governi dei paesi membri non avrebbero potuto piegare ai loro scopi. Quindi, per prevenire l’inflazione interna e promuovere la crescita nazionale, i governi di tutti i paesi sarebbero stati obbligati a essere fiscalmente responsabili. I paesi della moneta unica avrebbero anche dovuto coordinare le loro politiche economiche. E mentre imparavano a cooperare, la pace avrebbe avuto fondamenta ancora più solide.
Nonostante la crisi economica e politica della zona euro negli ultimi dieci anni, c’è chi continua a credere in questa visione.
In effetti, i decisori chiave sono arrivati a comprendere molto rapidamente i pericoli del salto che stavano facendo. Capirono che i benefici di transazioni più facili all’interno dell’Europa erano piccoli. Quello su cui probabilmente non avevano riflettuto chiaramente è una affermazione economica che si avvicina a un teorema per quanto l’economia lo permette. In un famoso articolo del 1968, Milton Friedman, uno dei più importanti economisti del 20° secolo, ha spiegato che la principale funzione della politica monetaria è aiutare a minimizzare la dislocazione macroeconomica – ovvero prevenire che un boom economico diventi eccessivamente grande e ridurre il tempo che un’economia passa in recessione.
La politica monetaria, ha insistito Friedman, non può aiutare un’economia ad aumentare le sue prospettive di crescita a lungo termine. Ed ecco il pezzo forte: se la politica monetaria viene attuata male, può causare danni permanenti e quindi ridurre le prospettive di crescita a lungo termine. Come una “chiave inglese” gettata in una macchina, una politica monetaria sbagliata e inopportuna ostacola il normale funzionamento economico. Avviandosi lungo la rotta dell’unione monetaria, i leader europei rendevano più probabile che la politica monetaria europea gettasse chiavi inglesi nelle loro economie.
I leader europei potrebbero non essere stati consapevoli del “quasi teorema” di Friedman sul ruolo e sui limiti della politica monetaria. Avrebbero dovuto essere consapevoli del fatto che una moneta unica non poteva portare prosperità economica. E sicuramente sapevano che l’Italia e la Grecia avevano sempre contraddetto le direttive economiche delle autorità europee, e che quindi era improbabile che questi Paesi rispettassero gli standard di gestione economica necessari per accompagnare una moneta unica, un’unica politica monetaria.
I leader europei sapevano anche che i promessi vantaggi politici erano illusori. Sebbene ripetessero spesso il mantra dell’”unione politica”, sapevano che non avrebbero rinunciato alle proprie entrate fiscali per fornire un aiuto significativo ad altre nazioni in difficoltà. Sapevano che il rischio di conflitti tra interessi economici era reale. E i conflitti economici avrebbero creato conflitti politici. Dal momento in cui la moneta unica è stata proposta nel 1969 alla sua introduzione nel 1999, le conferme di questi avvertimenti si sono ripetute. Ancora e ancora. Ma i rischi sono stati minimizzati e i punti di vista alternativi sono stati sviati.
Il difetto essenziale della moneta unica era elementare. Rinunciando alle loro valute nazionali, i membri della zona euro hanno perso alcuni strumenti importanti. Se un paese membro entra in recessione, non ha una valuta da svalutare in modo che le sue imprese possano vendere all’estero a prezzi inferiori al dollaro USA per incrementare le esportazioni e l’occupazione. Il paese membro inoltre non ha una banca centrale che potrebbe ridurre i suoi tassi di interesse per incoraggiare la spesa interna e stimolare la crescita.
Questo difetto di base crea acute difficoltà non appena le economie dei paesi che condividono la valuta divergono le une dalle altre. Se l’economia italiana è nei guai e l’economia tedesca ha il vento in poppa, il tasso di interesse comune fissato dalla Banca centrale europea (BCE) sarà troppo alto per l’Italia e troppo basso per la Germania. In questo modo, i problemi economici dell’Italia continueranno e l’economia tedesca crescerà ancora di più. È insito nella natura della moneta unica che, una volta che le economie dei paesi membri iniziano a divergere l’una dall’altra, il tasso di interesse comune faccia aumentare la divergenza.
Considerati questi problemi basilari, gli economisti alla fine degli anni ’60 conclusero che se la moneta unica poteva avere una possibilità – una sola possibilità – ci sarebbe stato bisogno bisogno di trasferimenti fiscali significativi dai paesi col vento in poppa a quelli depressi. In un’unione che forma uno stato unico con una moneta unica, come gli Stati Uniti, gli stati ricevono più fondi dal bilancio federale; inoltre, i residenti degli stati colpiti duramente dalla recessione pagano tasse federali inferiori rispetto ai residenti degli stati che sono colpiti meno gravemente. Quando questi benefici vengono forniti, nessuno protesta, perché nell’attuale struttura politica (gli Stati Uniti) sono leciti. Di fatto, alcuni stati degli Stati Uniti, come il Connecticut e il Delaware, effettuano consistenti trasferimenti permanenti verso stati come il Mississippi e il West Virginia. Gli economisti hanno quindi concluso che per far fare all’euro un balzo in avanti fosse necessario un bilancio comune sotto un’unica autorità fiscale.
Se l’Europa avesse voluto percorrere questa strada, i parlamenti nazionali avrebbero avuto bisogno di cancellare dei seggi; avrebbero principalmente trasferito risorse a un budget comune. Un ministro delle Finanze europeo che riferisce a un parlamento europeo avrebbe utilizzato fondi tratti da un bilancio europeo comune per stimolare l’economia del paese in difficoltà e quindi abbreviare la sua recessione. I trasferimenti fiscali non avrebbero comunque garantito il successo, ma senza di loro il rischio sarebbe stato pericoloso.
Dal primo giorno, tuttavia, risultò chiaro che gli europei non sarebbero mai stati disposti a mettersi d’accordo su un bilancio comune. I tedeschi erano comprensibilmente preoccupati che, se avessero accettato di condividere le loro entrate fiscali, sarebbero diventati il finanziatore di tutti i tipi di problemi nel resto d’Europa. Pertanto, un bilancio comune per facilitare il percorso verso gli Stati Uniti d’Europa con l’euro come moneta comune era politicamente escluso.
Anche se hanno descritto il progetto in termini grandiosi, gli europei hanno iniziato a creare una “unione monetaria incompleta”, che aveva una politica monetaria comune, ma che mancava di salvaguardie fiscali per smorzare i boom e le recessioni. All’interno di questa struttura incompleta, era destino che sorgessero conflitti sulla conduzione della politica monetaria e fiscale.
Per essere chiari, conflitti simili sorgono anche all’interno degli stati-nazione. Ma all’interno di una nazione, in genere sono previste procedure politiche per raggiungere una soluzione. Nel progetto europeo della moneta unica invece non esisteva alcun contratto politico sul modo in cui i conflitti sarebbero stati risolti. Al verificarsi di crisi finanziarie, non ci sarebbe stato un modo reciprocamente accettabile per risolverle. Alcuni paesi avrebbero “perso” e altri “vinto”; i “vincitori” sarebbero diventati “più uguali” degli altri. Le divergenze tra i paesi sarebbero aumentate e l’unione monetaria sarebbe diventata ancora più ingestibile. L’unione monetaria incompleta conteneva già i semi della propria rottura.
A peggiorare le cose, la rottura dell’unione monetaria incompleta sarebbe stata estremamente costosa. Se un paese uscisse durante una crisi, la sua valuta nazionale si svaluterebbe rapidamente e il governo, le imprese e le famiglie del paese pagherebbero i loro debiti in euro (o in dollari) nella loro valuta deprezzata. Molti farebbero default. Soprattutto se il paese è grande, le insolvenze potrebbero scatenare il panico, portando ad altre uscite dall’euro e ad un crescente circolo di disordini finanziari.
Perché gli europei hanno tentato una simile impresa senza benefici evidenti, ma con enormi rischi? Come hanno conciliato le sue ovvie contraddizioni? Come si sono manifestate queste contraddizioni una volta lanciato l’euro? Dove è finita l’Europa?
C’è una risposta generale a tutte queste domande. I leader europei non avevano idea nédel perché né di dove stessero andando. E come è stato detto, se non sai dove stai andando, finisci da qualche altra parte. Nonostante la loro visione idealistica, gli europei sono finiti altrove. Come ci si poteva aspettare, questo altrove non è un bel posto. L’euro ha azzoppato molti dei suoi paesi membri. Ha creato aspre divisioni tra gli europei. Se Aristotele fosse vivo oggi, vedrebbe come uomini e donne “eminentemente buoni e giusti” hanno messo in scena la tragedia dell’euro, “non con il vizio o la depravazione”, ma con “l’errore o la fragilità”.
Tratto da EuroTragedy: A Drama in Nine Acts (Oxford University Press). Copyright 2018.
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