Perché lo ha fatto? E soprattutto perché glielo hanno lasciato fare? Sono due domande che forse resteranno senza risposta dopo l’uccisione di Cherif Chekat, fulminato dalle squadre speciali dell’anti-terrorismo in quelle strade di Strasburgo dove era nato e cresciuto, a poche centinaia di metri dove aveva fatto perdere le sue tracce. Fatto di per sé già clamoroso. In quelle strade dove lo conoscevano perché frequentava più il bar che la moschea, più per l’alcol e gli spinelli che non per la devozione al Corano. Anche la rivendicazione del Califfato attraverso l’agenzia Amaq _ “era un nostro soldato” _ sembra qualche cosa di esotico e di esagerato per un criminale comune che pure veniva definito dalle “fiche S” a pericolo di radicalizzazione. Eppure anche Cherif, nonostante le sue contraddizioni e forse proprio per queste sue ambiguità, appartiene a quella che lo studioso francese Olivier Roy definisce la Generazione Isis.
Olivier Roy propone una chiave di lettura sconcertante: non è l’integralismo islamico la prima causa di questo terrorismo ma un disagio tutto giovanile, un’esigenza folle, violenta e fuori controllo di rottura generazionale. Certo per compiere questa rottura c’è bisogno di un pretesto. E questi giovani lo trovano facilmente nell’odio puro ostentato dall’Isis, che ha ormai perso la propria territorialità in Siria e in Iraq ma che continua a mantenere una sua fascinazione, attraverso il web o la radicalizzazione in carcere.
In Francia i protagonisti del terrorismo di marca islamica spesso sono passati per la criminalità e le gang giovanili prima di conoscere una rapida conversione religiosa: la loro traiettoria di adesione all’Isis o al jihadismo si accompagna, e si nutre, di una evidente fascinazione per la morte che, non a caso, rappresenta spesso l’epilogo del loro percorso che si conclude con un attentato suicida o con l’uccisione.
E la stessa finalità del loro terrorismo si esaurisce nel gesto, soprattutto se ha contenuti simbolici ed è ripreso dai social media e dalla rete. In poche parole si rifanno a un Islam ridotto all’osso e a slogan semplici e ripetitivi ma non hanno legami veri e profondi con il mondo musulmano. La loro è una religione senza cultura. Certo il Califfato nonostante le rivendicazioni, per i jihadisti alla Cherif Chekat non appare una meta. Nei jihadisti francesi, ma non solo tra loro, il fine non è una società ideale come quella del Califfato ma dare un senso alla loro vita, una sorta di nichilismo che nasce dal vuoto individuale.
Ma mentre farsi domande su Cherif rischia di restare un esercizio senza risposte certe, sono le autorità francesi che dovranno spiegare come martedì sia riuscito a sfuggire alla cattura un criminale ben conosciuto con 27 condanne, come abbia potuto sfruttare le falle della sicurezza, come sia potuto sopravvivere a un paio di scontri a fuoco.
Ci sono oltre 20mila “fiche S” in Francia, individui a rischio terrorismo, monitorarli tutti è un’impresa impossibile. O forse era lo stesso Cherif che doveva pedinarsi da solo e seminare tracce che dovevano in qualche modo portare ad altre piste. Lo stragista di Strasburgo non può più parlare e magari qualcuno accoglierà la sua morte con sollievo.
Alberto Negri
Nessun commento:
Posta un commento