giovedì 14 febbraio 2019

Così i nazisti sottrassero l'oro della Banca d'Italia

Con l'8 settembre l'Italia precipitò in una situazione di caos enorme. Ci andò di mezzo anche la riserva aurea della Banca d'Italia. Un quantitativo enorme di ricchezza che nessuno fu capace di salvare dalle rapaci mani dei nazisti: per la precisione 119.252 chilogrammi d'oro. La storia ha dell'incredibile e i contorni della vicenda non sono mai stati chiariti del tutto. Già nel 1941 Mussolini aveva pensato di far trasferire le nostre riserve a L'Aquila. I lavori per creare le necessarie strutture blindate, però, procedettero enormemente a rilento. Nella primavera del '43 il problema divenne ancora più pressante e si stava pensando a un qualche luogo nel nord Italia, anche l'Aquila iniziava ad apparire come troppo vulnerabile. Poi la caduta del regime, il 25 luglio, congelò qualunque piano. Anche se, a quanto pare, il governo Badoglio tornò rapidamente a porsi il problema.


E qui cominciano i misteri e i rimpalli di responsabilità. Badoglio sicuramente disse al governatore della Banca, Vincenzo Azzolini, di organizzare un trasporto blindato dell'oro verso nord in località sicura e vicina alla Svizzera (per poter spostare l'oro oltre confine?). Azzolini sostenne a più riprese di aver girato l'incarico organizzativo al direttore generale Giovanni Acanfora. Nei processi seguiti al Conflitto Acanfora negò di aver ricevuto qualunque delega. Sta di fatto che le 119 tonnellate rimasero a Roma in via Nazionale. Così quando la città cadde il loro destino fu segnato. La storia di come l'oro prese la strada della Germania e di quanto fu difficile per l'Italia recuperarne almeno una parte (circa 2/3) è raccontato nel saggio scritto da Sergio Cardarelli e Renata Martano I nazisti e l'oro della Banca d'Italia. Sottrazione e recupero (1943-1958). 


L’ORO DELLA BANCA D’ITALIA. IL FURTO DEL MILLENNIO, PROBABILMENTE.

UN ARTICOLO MOLTO INTERESSANTE DEL 2016 CHE CONTRIBUISCE A FARE CHIAREZZA SULLE GIUSTE PRETESE DEL GOVERNO ITALIANO RISPETTO ALL'ORO PATRIO. I 5 STELLE CHIEDANO LUMI A GRILLO CIRCA GLI SCELLERATI ACCORDI DEL "BRITANNIA"..... 

Il tema delle sovranità è la questione centrale dell’epoca in cui viviamo, anche se la percezione che ne hanno i nostri connazionali è confusa e alterata dalle menzogne del sistema politico, economico e mediatico. Una questione da troppi ignorata, ma dalle dimensioni immense, è quella delle riserve d’oro italiane, che ammontano a 2.452 tonnellate e sono al terzo posto nel mondo. Alle quotazioni correnti del metallo giallo, il controvalore in euro è di almeno 75/80 miliardi. Le domande fondamentali sono almeno tre: dove sia custodito l’oro, chi ne abbia la proprietà, a che cosa può servire.
Le risposte sono drammaticamente negative per il nostro popolo. Negli ultimi mesi, alcuni deputati  sono riusciti a visitare i santuari-caveaux della Banca d’Italia. I fatti sono i seguenti: solo circa 1.200 tonnellate si trovano a Palazzo Koch, storica sede di Bankitalia ,meno della metà. La proprietà, giuridicamente, è in capo alla stessa Banca, che, repetita iuvant, è un organismo privato, sia pure investito di funzioni pubbliche, partecipante della Banca Centrale Europea, ed i suoi azionisti sono le maggiori banche “italiane”, tranne uno striminzito 5 per cento in mano all’INPS . Le virgolette poste sull’aggettivo italiane riguarda il fatto che tutte, diciamo tutte, le banche interessate  hanno importanti azionisti esteri, in alcuni casi sono controllate da istituti stranieri, a partire dai due giganti Unicredit e Intesa San Paolo.  Anche la Banca detta d’Italia, che alcuni ancora chiamano banca “nazionale” è quindi eterodiretta, ed i suoi domines sono il gotha della finanza mondiale.
Quanto all’uso o alla funzione della riserva aurea, le cosiddette autorità finanziarie  affermano che  essa “costituisce un presidio fondamentale di garanzia per la fiducia nel sistema Paese”. Due osservazioni: poiché Bankitalia fa parte dell’Eurosistema, la garanzia si estende agli altri Stati che fanno parte dell’Eurozona, il che pare quanto meno improprio; se poi occorre garantire attraverso l’oro il “sistema Paese”, orribile espressione sinonimo di Italia, chi, se non lo Stato, deve detenerla ed eventualmente deciderne un utilizzo, attraverso governo e parlamento ? Eh no, poiché , dicono lor banchieri, la riserva è nostra, è della sacra istituzione di cui è governatore Ignazio Visco.  Ebbene, questo è il punto: le riserve auree sono indiscutibilmente proprietà del popolo italiano nella sua continuità storica, di cui la banca di emissione ( ormai ex, il potere è di BCE) è solo uno strumento tecnico.
Due righe di storia: la Banca d’Italia nacque nel 1893, per volontà governativa a seguito dello scandalo della Banca Romana . Le furono conferite, insieme con i poteri di emissione, circa 150 tonnellate d’oro, provenienti per la metà dalle casseforti delle banche regnicole dei deposti Borbone. Non dimentichiamo che la quantità di moneta emessa , oggetto principale dello scandalo del 1893, era legata al possesso di riserve in metallo prezioso. Dopo la seconda guerra mondiale, e varie vicissitudini e trasferimenti che determinarono la perdita di 25 tonnellate, la riserva aumentò sino all’attuale consistenza, nell’ambito della proprietà pubblica dell’istituto di Via Nazionale, attraverso le banche di interesse nazionale di cui alle leggi bancarie del fascismo.
La sua privatizzazione fu conseguenza degli scellerati, criminali accordi del panfilo Britannia, presenti Andreatta, Carlo Azeglio Ciampi ed il giovane allora dirigente di Goldman & Sachs  Mario Draghi, ma le banche azioniste, comprate per poco più di un tozzo di pane, non hanno mai acquisito ufficialmente la proprietà dell’oro. Fortunatamente, per statuto, non possono disporne, come del resto neppure i sedicenti proprietari, ovvero l’istituto privato di diritto pubblico ( un ircocervo !) Banca d’Italia. Non vi è dubbio che l’oro è stato acquisito con il sacrificio di molte generazioni di italiani, e che dunque la proprietà deve essere restituita al nostro popolo.
Giulio Tremonti riuscì a far approvare una legge, la 262 del 2005, che stabilisce la proprietà pubblica di Bankitalia. Legge inapplicata, come tante altre del nostro incredibile Stato, ed il perché è piuttosto evidente, e si può riassumere nell’avviso scritto sui tram di una volta: non disturbare il manovratore.
Disturbiamolo, invece, lanciando una campagna civile morale e patriottica prima che politica perché sia restituito al legittimo proprietario, noi, l’oro che è simbolo del sudore di milioni di italiani. Prima ancora, occorre sapere ufficialmente dove si trovi e perché sia lì la metà abbondante del tesoro, che, ricordiamolo, nelle nostre mani potrebbe cambiare il corso della storia economica nazionale, e forse anche ristabilire la sovranità economica della Patria. Probabilmente, la maggior parte è in America, presso la Federal Reserve, altri lingotti dormono nei forzieri della banca centrale svizzera e della Bank of England. Le spiegazioni ufficiali fanno sorridere, verrebbero forse credute nelle prime classi elementari: si afferma che la custodia in varie casseforti avrebbe ragioni di sicurezza e di cautela rispetto ad instabilità politiche ed economiche.
La realtà è ben più grave: innanzitutto, esiste ancora quell’oro? Quali furono, e sono, i motivi della sua esportazione? C’entrano forse clausole indicibili del trattato di pace con le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale ? Chi, ed a quali condizioni ha titolo per chiederne, o pretenderne il rimpatrio ? Esiste un recente caso, in cui la Germania (leggasi Bundesbank) ha chiesto ed ottenuto dagli Usa la restituzione di  parte della sue riserve. Analoghe richieste di restituzione provengono , per la Francia, da parte di Marine Le Pen. Troppi segreti si celano attorno all’oro, anzi all’ ”oro fisico”, come lo chiamano nel mondo di carta della finanza speculativa. La Cina sta rapidamente aumentando le sue disponibilità, ed ha inaugurato quest’anno un mercato di metalli preziosi denominato in yuan a Pechino, la stessa Russia sta cautamente procedendo ad acquisti.
Qualunque motivazione abbia portato il nostro oro lontano dall’Italia, forse venduto, forse dato in pegno, è comunque da considerare criminale ed i responsabili, in  tempi seri, sarebbero chiamati a rispondere di alto tradimento.  C’è anche chi sospetta che l’oro sia stato prestato più volte, generando illegalmente un interesse che, su somme così ingenti, sarebbe comunque una cifra assai importante, oppure che sia stato oggetto di spericolate manovre per manipolare il prezzo del metallo sul mercato.
Insomma, un altro furto, quello del millennio, a danno di tutti noi. Quel che colpisce profondamente è il disinteresse della classe politica, ma la spiegazione non è tanto difficile: chi tocca i fili muore. Ne sa qualcosa il governo italiano di centro-destra, pessimo ma legittimo, oggetto di un colpo di Stato per motivi finanziari del 2011. Tremonti chiedeva gli Eurobond, sgraditi a Francoforte, Berlusconi ipotizzava forse di uscire dall’euro, si accordava con Putin , il novello Gengis Khan e con Gheddafi, prima statista rispettato, poi nemico pubblico franco- britannico. Agli italiani, però, potrebbe interessare conoscere la storia di 80 miliardi di euro ( ma la somma è destinata a salire) spariti dalle loro mani.
Perché, però, l’oro continua ad essere tanto importante per gli uomini e gli Stati , anche adesso che non esiste più la riserva obbligatoria, abolita da Nixon il 15 agosto 1971, e che gli usi industriali dell’oro non giustificano la corsa al metallo color del sole?  Da un punto di vista metastorico, ne dette una spiegazione molto suggestiva Mircea Eliade , il grande studioso rumeno delle tradizioni e delle civiltà tradizionali, nel seguente passo : “L’oro non appartiene alla mitologia dell’homo faber ma è una creazione dell’homo religiosus; questo metallo cominciò infatti ad assumere valore per motivi di natura essenzialmente simbolica e religiosa. L’oro è stato il primo metallo utilizzato dall’uomo, pur non potendo essere adoperato né come utensile né come arma. Nella storia delle rivoluzioni tecnologiche – cioè nel passaggio dalla tecnologia litica alla produzione del bronzo, poi all’industria del ferro ed infine a quella dell’acciaio – l’oro non ha svolto alcun ruolo […] E tuttavia, dai tempi preistorici fino alla nostra epoca, gli uomini hanno faticosamente perseguito la ricerca disperata dell’oro. Il valore simbolico primordiale di questo metallo non ha potuto essere abolito malgrado la desacralizzazione progressiva della Natura e dell’esistenza umana. “
Più prosaicamente, il mercato dell’oro resta elemento centrale del mondo economico, ed è dominato, manco a dirlo, dalla finanza, in particolare da quella legata alla galassia Rothschild.  L’oro è il bene rifugio per eccellenza, ed i nostri anni tempestosi di conflitti e uragani economici lo rendono ancora più appetito. Dal punto di vista mineralogico, nell’ultimo quarto di secolo le quantità estratte sono state ampiamente superiori ai nuovi filoni scoperti: anche l’oro, dunque, viene sfruttato in misura maggiore di quanto ne rimanga disponibile.
Il vero choc, però, è quello relativo al suo mercato. Centro del business è Londra, ed il suo London Bullion Market, di cui sono soci Barclay, Deutsche Bank, Société Generale, HSBC e Scotia Mocatta, fondato da un Rothschild nel 1919. Cinque persone, rappresentanti delle entità citate, ne fissano due volte al giorno il prezzo in dollari ad oncia troy (31,1035 grammi).  La gran parte delle transazioni avviene  over the counter, cioè fuori dai canali ufficiali e in qualche misura controllabili, per cui la manipolazione dei prezzi e l’illegalità è sospetto costante. Ogni cinque giorni  la finanza muove sulla piazza londinese certificati legati all’oro, futures, derivati e tutte le altre pirotecniche invenzioni dei signori del denaro, per oltre 15 milioni di once, che è la produzione annua di quell’entità esoterica che è l’”oro fisico”. Circolano per il vasto mondo , dunque, pezzi di carta legati all’oro in quantità infinitamente superiore al fino realmente esistente .
Anche qui, scommesse sul nulla gestite da biscazzieri in grisaglia, aggiotaggio, insider trading e tutto il resto. I croupier fanno girare la pallina a Londra due volte al giorno per conto dei soliti noti, ma il tavolo verde non c’è ed i giocatori da spennare sono al buio. Inevitabilmente, in condizioni di instabilità politica , crisi economica e deflazione monetaria,  il prezzo dell’oro aumenta. Come negli altri settori, si scambiano promesse, previsioni, possibilità. Di oro vero, fisico, poco o nulla. Poi qualcuno scuote la tovaglia e il banco, più ancora che al casinò, vince sempre.
Probabilmente, sino al punto di rapinare senza un fruscio l’oro dei popoli depositato nelle banche che un tempo si chiamavano centrali e nazionali, compresa quella che ha il nome dell’Italia.
Dobbiamo ribellarci, ed almeno sapere e capire, oppure la schiavitù è il nostro normale destino, di cui siamo artefici e colpevoli, come si dicono Bruto e Cassio nel Giulio Cesare di Shakespeare, o come già intuiva la pratica saggezza romana populus vult decipi, il popolo vuol essere ingannato, per cui , proseguono i nostri progenitori, lo si inganna.  I Rothschild conoscono bene la lezione, i loro colleghi altrettanto. Noi paghiamo il conto.

ROBERTO PECCHIOLI

MA DOV'È FINITO L'ORO?


C’era una volta un tempo in cui l’oro circolava regolarmente come moneta: poi, nel 1933, vent’anni dopo la privatizzazione della FED (la banca centrale americana) avvenuta nel 1913, il cosiddetto New Deal di Roosevelt dichiarò illegale la circolazione delle monete auree, con la sola eccezione di quelle da collezione e dei gioielli.
In compenso la quantità di moneta-debito che veniva emessa per la collettività restava ancora vincolata al mattone giallo.
Quarant’anni dopo si andò oltre: il Presidente Nixon decise che tale copertura non era più fattibile, e da quel momento si cominciò a stampare letteralmente… della carta straccia, che però aveva valore poiché la comunità mondiale – pressoché disinformata dello storico cambiamento – continuava indisturbata le sue transazioni.
Da allora, pian piano, l’oro delle nazioni – e dunque dei cittadini – fu concentrato e trattenuto nelle cosiddette bullion banks – banche del lingotto – tra cui Fort Knox, nel Kentucky (USA) e soprattutto la FED, considerata tutt’oggi la cassetta di sicurezza del Pianeta.
Si stima che Fort Knox oggi possegga più di 4.000 tonnellate di oro, mentre la FED più di 10.000.
La differenza tra i due forzieri è che il primo contiene l’oro americano (almeno in prevalenza) mentre il secondo l’oro di tre quarti del Pianeta, soprattutto delle nazioni che hanno perso le guerre mondiali e i vari conflitti successivi con gli Stati Uniti. 
Sappiamo per certo, dunque, che anni addietro le banche centrali di molte nazioni furono costrette ad affidare il loro oro agli Stati Uniti, cosa che, a detta di molti insider, viene oggi venduto e rivenduto… dichiarando molto di più di ciò che si possiede (in sostanza la FED rilascia pezzi di carta, tanto nessuno controlla l’effettiva quantità dei metalli, visti i sistemi di sicurezza e il grande alone di mistero e segretezza sull’oro “statale “ e/o di “proprietà” degli americani).
Qualcuno potrà chiedersi come sia possibile che ciò accada: be’, cosa vi aspettate da un sistema economico folle, che genera denaro dal nulla e indebita fintamente tutto il mondo generando crisi e giochi di fame? Onestà? Trasparenza, forse?
Fort Knox, dal canto suo, rimane una struttura chiusa, presidiata solo da forze militari e, stando alle parole di un funzionario rimasto anonimo, è dal 1974 che nessun politico americano vi mette piede. 
Presso la banca centrale, invece, si organizzano visite guidate nei caveau per ciascuna nazione: il punto è che il personale della FED sposta i lingotti da un posto all’altro, e ciascuno stato depositario può contare e verificare solo quelli di propria pertinenza.
Un’altra certezza è che oggi molti di questi lingotti sono fatti di tungsteno, alias un metallo simile all’oro ma dal valore notevolmente inferiore.

Una strana coincidenza – purtroppo – proviene dal casato dei Rothschild: questi hanno dominato il mercato mondiale dell’oro dal 1919 al 2014, stabilendone ogni giorno il valore nei loro uffici londinesi. Poi, improvvisamente, si sono ritirati: che l’oro – quello vero – sia ormai un miraggio?
Non mi stupirei di nulla, dico davvero!
Proprio nel 2014, la Germania ha chiesto un censimento del metallo prezioso agli Stati Uniti: la corte dei conti tedesca, infatti, ha ordinato alla banca federale, la Deutsche Bundesbank, di verificare le riserve auree del paese, che ammontano a circa 3.400 tonnellate, e sono le seconde più grandi del mondo. 
Come la Germania, anche il Venezuela ha chiesto la ricognizione del proprio oro, mentre la Svizzera ha mostrato molta agitazione in proposito, forse perché si sta comprendendo – vista la crisi pilotata dall’alto – che l’oro non è più dove deve essere (o almeno non è lo stesso).
In sostanza i lingotti sarebbero solo coperti d’oro, ma il substrato – appunto – sarebbe tungsteno.
In questo momento l’oro è gestito in modo molto strano a livello planetario, con indecifrabili e ingiustificate ripartizioni tra Banca d’Inghilterra (una banca privata) Banca di Francia (idem) e FED (idem).
Ma il punto nodale è che l’esistenza del metallo prezioso ormai è un problema irrilevante, nel senso che l’unica cosa che conta è la contabilità: se la FED dichiara che la Bundesbank possiede 3.400 tonnellate di oro, la banca centrale tedesca agirà proprio come se le possedesse. 
Insomma anche se la corte dei conti tedesca non dovesse accettare certi meccanismi, poco importa: l’ispezione fatta da banchieri… nei confronti di altri banchieri porterà sempre alla “positività”, mentre la totale restituzione resterà ovviamente un miraggio.
Sono convinto che quando sarà scoperto lo scandalo dei finti lingotti e della sostanziale inesistenza dell’oro a livello mondiale, l’attuale sistema economico affonderà completamente, dato che l’ultimo pilastro di fiducia dei cittadini è proprio il metallo aurifero.
Tutto ciò, forse, accadrà a tempo debito, quando i mondialisti saranno pronti a sferrare il loro famigerato “Governo Mondiale”.
Mi spiace per loro, però: sempre più persone ormai hanno capito il gioco delle tre carte dell’economia mondiale, e fossi in loro, mi procurerei sul serio e a breve… una bella astronave!



IL VENEZUELA COME LA LIBIA


J’accuse di Colombani: «Così l’Italia finisce nell’orbita di Putin»

DICHIARARE CHE IL GOVERNO ITALIANO USI LA FRANCIA DI MACRON COME CAPRO ESPIATORIO DELLA RECESSIONE SEMBRA DAVVERO TROPPO. ANCHE PERCHE', LA SITUAZIONE DIFFICILE DEL POPOLO FRANCESE E' SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI, E UN'ALLEANZA SOVRANISTA E POPULISTA TRA PAESI FA PAURA A MOLTI EUROCRATI, MACRONIANI IN PRIMIS. MA POI, COSA C'ENTRA PUTIN?! COME AL SOLITO, VIENE TIRATO IN BALLO A SPROPOSITO....

Intervista all’ex direttore di Le Monde



«Quanto durerà? Considerando i protagonisti, temo abbastanza». È pessimista Jean- Marie Colombani, giornalista e saggista, tra i fondatori di Slate. fr storico direttore diLe Monde quando gli chiediamo se vede una soluzione alla crisi diplomatica esplosa giovedì scorso tra Parigi e Roma. E dopo che, per «accuse reiterate», «attacchi senza fondamento» e «dichiarazioni oltraggiose» il ministro degli esteri francese ha ritirato l’ambasciatore Christian Masset.

È di ieri la conferma che l’ambasciatore tornerà a Palazzo Farnese «a tempo debito». A che punto siamo di questa inedita battaglia diplomatica?
Certamente è una crisi grave: per trovarne una analoga bisogna risalire ai peggiori anni bui del xx secolo ed è davvero spiacevole per la Francia e ancora di più per l’Italia, che certo da un simile atteggiamento ha molto più da perdere che da guadagnare. Quale alternativa avrebbe al di fuori di una relazione stretta con la Francia nell’Unione europea: diventare un satellite della Russia? Fare come Viktor Orban e mettersi sulla scia di Putin? È assurdo anche perché questa situazione è frutto di considerazioni determinate esclusivamente dalla politica interna che si riflettono su entrambi i paesi.

A cosa si riferisce?
Tutti hanno capito bene qual è il gioco di Matteo Salvini e con quale profitto, visto che ha appena vinto le elezioni in Abruzzo e non può che felicitarsene. Ma il nuovo governo ha portato l’Italia in recessione, cosa che non accadeva da tempo, e lo ha fatto attuando misure non sufficienti e andando a cercare un capro espiatorio, la Francia di Emmanuel Macron quando avrebbe potuto agire in maniera diversa e scegliere atteggiamenti non violenti. Il fatto che Di Maio sia venuto ad incontrare non i Gilet jaunes ma uno dei leader dei Gilet jaunes ( Chalençon, ndr), il peggiore, che incita al colpo di stato militare e chiede che i generali prendano il potere e il fatto che lo abbia fatto solo perché in competizione elettorale con Salvini è evidentemente assurdo e irresponsabile.

Tra italiani e francesi c’è un rapporto che oscilla tra antichi risentimenti e passioni altalenanti. Cosa pesa oggi su questa relazione le scelte del passato o gli atteggiamenti più recenti?
Vede, in passato sono state fatte scelte anche errate. Prendiamo l’accordo con Fincantieri: Macron l’ha riconsiderato più per rivalsa nei confronti di Hollande che in risposta all’Italia e anche in quel caso la politica interna ha pesato sulle relazioni bilaterali. Oppure la politica che Parigi mette in atto alle frontiere, a Mentone per esempio, che è eccessivamente dura. Potrei fare un elenco di torti che un paese ha fatto all’altro su questioni che solitamente si gestiscono in parità, senza polemiche o scandali. Oggi però si è andati oltre: quello che trovo disastroso è che Salvini e Di Maio sono riusciti a creare negli italiani un sentimento anti- francese il che è assurdo in questo momento. Nessuno dei nostri paesi resisterà nel mondo che stiamo costruendo se l’Europa non si rafforzerà e questo non può accadere se si resta su piani differenti: è una constatazione storica e l’Italia, come la Francia, non deve trascurare il suo ruolo nel cuore dell’Unione. Ma non è rivoltandosi contro la Francia che le cose miglioreranno.

A cento giorni dalle elezioni europee bisogna credere che questa situazione sia davvero il frutto di strumentalizzazioni a fini elettorali? È una delle accuse che il Quai d’Orsay muove all’Italia…
Certo, sono strumentalizzazioni che continueranno fino al voto europeo. Salvini e Di Maio sono all’interno di una battaglia elettorale e penso che ritengano si debba continuare così.

Quali tracce resteranno di questo affaire?
Non saprei ma spero sinceramente che non ce ne siano. Mi auguro davvero che le persone apprezzino quello che c’è tra i nostri due paesi e spero che non si faccia ulteriormente largo questo movimento di opinione anti- francese. Bisogna risalire al 1400 o al 1500 per trovare qualcosa di simile. Spero che la saggezza prenda il sopravvento ma purtroppo questo non è un periodo in cui c’è molto spazio per questo: siamo in un’epoca di irrazionalità e di demagogia e questo è spaventoso.



Dunque qual è oggi l’urgenza per la Francia? Risolvere la crisi con i Gilet jaunes? E quale per l’Italia?
La priorità della Francia è innanzitutto trovare una via d’uscita a questa rivendicazione che è sempre più malsana perché sta generando risentimenti e atteggiamenti antisemiti, appelli alla violenza, odio per il sistema repubblicano come negli anni Trenta. Il grand débat ( il dibattito nazionale lanciato dal presidente Macron, ndr) può aiutare a uscire da questa situazione perché permette di dimostrare che discutendo si possono risolvere i problemi, che la democrazia è la risposta, non la violenza. Sfortunatamente, questo è un cammino molto molto lento. Quanto all’Italia, deve quanto prima ritrovare una gestione corretta che la possa rimettere sui binari: non è su questo che si era scommesso e che il vostro paese sia in recessione non è normale.

«Io medico, pago per aver detto no al mobbing dell’Asl Roma B»


Nel 2006 il dottor Antonio Auricchio chiede, all’azienda sanitaria presso cui presta servizio, orari e condizioni meno sfibranti: «Lì inizia il mio calvario, fatto di referti che negano i danni alla salute e stipendi tagliati, che ora mi lasciano con una pensione da 800 euro»

Si può essere stritolati dal mobbing perché “antipatici”? Pare di sì, almeno ad ascoltare l’amarezza di Antonio Auricchio, 66 anni, medico in servizio all’Asl Roma B fino al 2017, dall’anno scorso in pensione e in condizioni economiche indegne di un ente previdenziale come l’Enpam. «Sopravvivo con 800 euro al mese perché ho preteso di vedere riconosciuti i miei diritti», dice. «Mi spiego: ho lavorato all’Asl per oltre un quarto di secolo, dal 1991. Mansioni durissime: visite fiscali ai detenuti ai domiciliari o agli inquilini destinatari di sgomberi. Nel 2006 chiedo di poter lavorare per qualche ora settimanale in più ma in condizioni meno sfibranti. L’Asl lo prende come un affronto. Mi ammalo. E a quel punto inizia un calvario di visite mediche in cui la mia stessa Azienda sanitaria di appartenenza non riconosce le patologie gravi che imporrebbero di risarcirmi. Al contrario, giacché sono in stato di malattia, mi decurtano lo stipendio, ed ecco perché oggi ho una pensione da fame».

Ha chiesto l’invalidità permanente, l’esenzione dai ticket e agevolazioni banali come la tariffa ridotta sugli autobus della Capitale: «Niente da fare, grazie a certificazioni predisposte ad arte, come vendetta per aver osato chiedere condizioni di lavoro migliori». Sette anni fa, in un colloquio con la legale di Auricchio, Federica Giandinoto, il direttore amministrativo dell’Ordine dei medici di Roma, Dino Cosi, taglia corto: «Il suo assistito? Puntano a farlo fuori, così si liberano del problema».

Esagerazioni? Intanto pende, non archiviato, un fascicolo presso la Procura di Roma aperto in seguito a un esposto di Auricchio, che ancora due settimane fa ne ha presentato un altro ai Carabinieri di Casalbertone. «Sono stato penalizzato, hanno ignorato i rischi di trombosi e di infarto, riscontrati da altre strutture sanitarie già nel 2012. Infarto che poi si è verificato. Nei certificati prodotti dall’Asl», racconta Auricchio, «le mie richieste di non essere calpestato, come dipendente e come persona, sono ribaltate in diagnosi del tipo ‘affetto da disturbi paranoici’, ‘soggetto vendicativo e disforico’. Ho chiesto a un noto psichiatra di verificare queste valutazioni, ha trovato nulla più di qualche inevitabile sintomo ansioso-depressivo. Hanno persino negato che l’ipotiroidismo mi fosse stato provocato da orari e condizioni incompatibili con il diritto del lavoro».

Resta in ogni caso l’assurdo di un medico ridotto in condizioni drammatiche, a cui neppure si riconosce la piena invalidità e che forse ha il solo torto di essersi battuto con ostinazione. Anziché adattarsi all’adulazione gerarchica, unico infallibile sistema di autopromozione per i dipendenti pubblici.

A 35 anni dal caso Tortora, le associazioni denunciano: «Le vittime degli errori giudiziari senza risarcimento»


Risultati immagini per FOTO arresto Enzo Tortora

LA MAGISTRATURA DOVREBBE RIPENSARE L'INTERO IMPIANTO DELLE DEPOSIZIONI E UTILIZZO DELLE "INFORMAZIONI" DEI COSIDDETTI "PENTITI", CHE POI COSI' PENTITI NON SONO MAI. UN CRIMINALE RESTA UN CRIMINALE SOPRATTUTTO QUANDO, PER SALVARSI DA UNA LUNGA DETENZIONE, NON CI PENSA DUE VOLTE AD ACCUSARE UN INNOCENTE! SONO NECESSARIE PROVE CERTE E RISCONTRATE PRIMA DI ROVINARE LA VITA AD ALTRE PERSONE! I CASI TORTORA E GULOTTA NE SONO LA DESOLANTE TESTIMONIANZA.... 


Disse Ferdinando Imposimato (giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro) che l’errore giudiziario è un virus, capace di inocularsi in qualsiasi parte del processo e di rimanerci se il sistema non è in grado di espellerlo. Reazione che, talvolta, non avviene e che, dal più famoso caso di Enzo Tortora – del quale ricorre il trentacinquesimo anniversario dal suo ingiusto arresto – passando per il più eclatante, quello di Giuseppe Gulotta, ha prodotto, dal 1991 a oggi, circa ventiseimila e cinquecento errori giudiziari, compresa l’ingiusta detenzione, e per risarcire i quali lo Stato, dal 1992 al 2017, ha speso 768.361.091 milioni di euro, quasi 29 milioni di euro l’anno.

Utilizzati, principalmente, per corrispondere gli indennizzi per le ingiuste detenzioni, che oggi, dopo la legge Carotti che li elevò da cento milioni di lire a un miliardo, hanno un tetto massimo di 516mila euro. «L’unico che lo ottenne fu Clelio Darida, ex guardasigilli e sindaco di Roma. Per tutti gli altri, è una somma simbolica che viene elargita come ristoro», racconta a Left, il presidente dell’associazione Art643, Gabriele Magno. Che precisa: «Il vero problema è l’abuso della questione della custodia cautelare preventiva, ossia per il solo fumus del reato, i presunti colpevoli vanno in carcere o ai domiciliari: per loro non è previsto il risarcimento (che, invece, spetta a chi ha subìto condanna definitiva e solo dopo la revisione del processo, grazie a nuove prove, viene assolto) bensì un indennizzo». Sempre più spesso poco riconosciuto: «un po’ perché, così facendo, si cerca di tutelare l’infallibilità del magistrato e un po’ per una questione di principio», continua Magno. Per esempio, «i magistrati che hanno assolto Enzo Tortora – prosegue Magno – sono stati ampiamente criticati perché assolvendolo hanno creato i presupposti perché vincesse il referendum dei radicali sulla responsabilità civile dei giudici».
Quello del tetto massimo dell’indennizzo e quello relativo agli errori del magistrato sono due limiti che l’associazione Art643 ritiene da superare. «La nostra casistica – riferisce il suo presidente – ci ha portato a constatare che chi è stata vittima di un’ingiusta detenzione, nei due anni successivi all’assoluzione – il tempo previsto per proporre istanza di riparazione – si preoccupa di recuperare i propri rapporti umani, deteriorati e persi». E, raramente, di pensare all’indennizzo. Ma, spiega Magno, «dietro il termine dei due anni dall’assoluzione, si cela (furbescamente) la prescrizione dell’errore del magistrato. E la cosa scandalosa è che, in Italia, non abbiamo una casistica: la legge c’è ma non è stata mai applicata per evitare precedenti. Senza precedenti, il problema non esiste».
Non solo. «Dal governo Monti in poi, c’è stato un grosso restringimento per il riconoscimento per l’ingiusta detenzione: i requisiti per ottenerlo sono giudicati in maniera molto più severa tanto che, in un anno, dei circa mille e settecento che finiscono in carcere ingiustamente, è accolto solo il 40 per cento delle domande», aggiunge Valentino Maimone, cofondatore, insieme a Benedetto Lattanzi, di Errorigiudiziari.com, il primo archivio on line su errori giudiziari e ingiusta detenzione. Che continua: «Le cause che stanno alla base degli errori giudiziari sono tante e molto diverse tra loro. Per citarne alcune, la superficialità delle indagini durante la fase investigativa che genera tante falle; poi, una certa propensione dei magistrati a innamorarsi delle tesi degli investigatori; inoltre, la scarsa affidabilità dei testimoni oculari, come dimostrano ormai diversi studi scientifici, della quale, invece, si tiene poco conto; e, infine, le false confessioni indotte dalla pressione psicologica esercitata dagli investigatori durante le indagini».
E, così, le persone, distrutte in un solo giorno, subiscono una “condanna a morte” (anche) mediatica: dal mostro sbattuto in prima pagina all’assoluzione relegata a un trafiletto, quando, addirittura, non riportata. Chissà che con l’approdo della riforma del sistema carcerario in Commissione giustizia alla Camera – il cui iter è rimasto inconcluso nella scorsa legislatura – i nuovi deputati, oltre a prestare attenzione alle (indiscutibili) garanzie della vita detentiva e al lavoro dei reclusi, tengano nella giusta considerazione anche la riabilitazione dell’immagine di quei tanti certi innocenti.

22 anni in cella da innocente: Giuseppe Gulotta chiede 66 milioni allo Stato




Accusato dell’omicidio di due carabinieri, fatto confessare a suon di botte e condannato all’ergastolo viene scagionato al processo di revisione.


Per la prima volta, nella storia italiana, viene citata l’Arma dei carabinieri per responsabilità penale nella richiesta di un risarcimento di oltre 66 milioni di euro per il danno esistenziale da errore giudiziario subito da Giuseppe Gulotta, vittima di uno degli errori giudiziari più gravi della storia della Repubblica. L’atto è stato depositato al Tribunale di Firenze dagli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini, che lo hanno assistito sin dal processo di revisione. Vengono citati, tra gli altri, la presidenza del Consiglio, il ministero dell’Interno, il ministero della Difesa e il ministero dell’Economia. Ad aprile del 2016, ricordiamo, la vittima da errore giudiziario, è riuscito ad ottenere sei milioni e mezzo di euro di risarcimento per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente.

Per decenni era stato considerato un assassino, dopo che lo hanno costretto a firmare una confessione con le botte, puntandogli una pistola in faccia, torturandolo per una notte intera. Si era autoaccusato: era l’unico modo per farli smettere. Ricordiamo che Giuseppe Gulotta oggi ha 60 anni. Quando ne aveva appena 18, nel 1976, è stato accusato di aver ucciso due giovani carabinieri che dormivano nella caserma Alkmar di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Arrestato, è stato costretto sotto tortura a confessare un reato mai commesso.

Chi fece il suo nome? Dopo quella strage, una Fiat, correndo ad alta velocità, si schianta tra due muri. Interviene una gazzella dei carabinieri nelle vicinanze. L’uomo è armato, si chiama Giuseppe Vesco, ha 22 anni. Gli viene sequestrata una pistola calibro 7,65, stesso calibro di quella che ha fatto fuoco sui carabinieri di Alkamar.

Vesco viene arrestato e trasportato in caserma ed ammanettato ad un termosifone. Il ragazzo, sotto ordine del comandante, viene massacrato di botte da altri carabinieri. Il brigadiere Renato Olino sente le urla di Vesco, protesta con il suo comandante, ma non viene ascoltato. Nel pomeriggio Vesco viene denudato, viene fatto sdraiare su delle grandi casse e legato da braccia e gambe. Viene messo un imbuto nella bocca del ragazzo e, tappato il naso, viene costretto ad ingoiare ingenti quantità di acqua e sale.

Dalla bocca di Vesco devono uscire fuori necessariamente dei nomi. Non avendo successo con litri di acqua e sale, viene eseguita la successiva atrocità: vengono collegati ai testicoli di Vesco degli elettrodi, collegati ad un generatore di corrente. Dopo un interminabile supplizio di acqua e sale e scariche elettriche, il ragazzo, esausto, pronuncia quattro nominativi: Giovanni Mandalà, i minorenni Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, compreso il diciottenne Giuseppe Gulotta. Al processo di primo grado, Gulotta, è stato assolto per insufficienza di prove, ma dopo vari gradi di giudizio è stato definitivamente condannato all’ergastolo nel 1990. Con lui furono accusati innocentemente degli omicidi altri quattro ragazzi, nomi citati da Vesco sotto tortura. Due fuggirono in Brasile per scampare al verdetto, uno venne ritrovato impiccato in cella, un altro ancora morì di tumore in carcere, privato delle cure in ospedale perché ritenuto un pericoloso ergastolano.

Dopo 36 anni, di cui 25 trascorsi dietro le sbarre, Gulotta ha ottenuto la revisione del processo grazie alla confessione dell’ex brigadiere Olino. È stato assolto definitivamente nel 2012. Poi, nel 2016 riuscì ad ottenere un primo risarcimento di 6,5 milioni di euro, la cifra più alta che lo Stato italiano abbia mai sborsato per riparare a un errore giudiziario. Ora chiede il risarcimento per il danno esistenziale da errore giudiziario, sì perché tale richiesta rappresenta un caso emblematico dello “sconvolgimento esistenziale” che ha procurato l’intera vicenda.

Ci sono due aspetti che sono contenuti nella richiesta: il primo riguarda la responsabilità dello Stato per non aver codificato negli anni il reato di tortura; mentre il secondo è quello che attiene agli atti di tortura avvenuti in una sede istituzionale da personale appartenente all’Arma che ha generato un gravissimo errore giudiziario.






OGGI SAN VALENTINO. PREGHIERE AL SANTO

14 FEBBRAIO

SAN VALENTINO


PREGHIERA a SAN VALENTINO
 Nel mio cuore, Signore, si è acceso l'amore per una creatura che tu conosci e ami.
Fa che non sciupi questa ricchezza che mi hai messo nel cuore.
Insegnami che l'amore è un dono e non può mescolarsi con nessun egoismo,
che l'amore è puro e non può stare con nessuna bassezza,
che l'amore è fecondo e deve, fin da oggi, produrre un nuovo modo di vivere in me e in chi mi ha scelto.
Ti prego, Signore, per chi mi aspetta e mi pensa, per chi ha messo in me tutta la sua fiducia, per chi mi cammina accanto, rendici degni l'uno dell'altra.
E per intercessione di San Valentino fa che fin da ora le nostre anime posseggano i nostri corpi e regnino nell'amore.


ORAZIONE A SAN VALENTINO 

O glorioso martire San Valentino, 
che per la vostra intercessione liberaste
i vostri devoti dalla peste e da altre terribili malattie,
liberateci, vi supplichiamo, dalla peste
terribile dell'anima, che è il peccato mortale.
Così sia.


PREGHIERA a SAN VALENTINO

Glorioso San Valentino, dagli splendori della gloria dove state beato in Dio, rivolgete pietoso lo sguardo sui vostri devoti, che fidenti nella potenza di intercessione che godete in Cielo per le sante opere vostre, invocano il vostro amoroso patrocinio.
Benedite le nostre famiglie, i terreni e le industrie nostre, tenendo lontani da noi i castighi, che purtroppo abbiamo meritato coi nostri peccati.
Ma soprattutto sostenete e avvalorate in noi quella Fede, senza la quale è impossibile salvarsi e della quale voi foste apostolo e martire invitto.
Proteggete, o gran Santo, la Chiesa di Gesù nelle lotte funeste, che tanto la travagliano in questi tempi infelicissimi, e fate che sempre più cresca lo stuolo dei santi e valorosi leviti, che, informati dal vostro spirito, camminino sulle vostre orme luminose, a gloria di Dio, a onore della Chiesa, a salute delle anime nostre.
Così sia.
Pater, Ave, Gloria.


A SAN VALENTINO patrono di Terni

O nostro protettore San Valentino, che fosti in vita esempio di virtù, pastore vigilante, padre dei poveri e martire di Gesù Cristo, ora che risiedi glorioso nel cielo soccorrici con la tua celeste protezione.
Proteggi la nostra città, affinché da essa allontanata ogni disgrazia, vi risieda la benedizione di Dio, la pace fraterna e la fede di Gesù Cristo.
Guarda i giovani che da te attendono aiuto e protezione, ottieni loro la grazia del discernimento necessario, dell'impegno e della serietà nel cammino intrapreso e del rispetto reciproco.
Dà alle nostre famiglie l'amore di Gesù Cristo perchè sappiano rendere grazie a Dio nella gioia, ritrovarsi nelle difficoltà, perdonarsi nella debolezza, sostenersi nella fatica del cammino che porta alla vita eterna di Dio da cui ognuno è venuto.
Amen.

SAN VALENTINO, IL VESCOVO CHE REGALAVA ROSE AI FIDANZATI




SAN VALENTINO, IL VESCOVO CHE REGALAVA ROSE AI FIDANZATI
14/02/2019 Secondo la leggenda il vescovo di Terni, decollato sotto l’Imperatore Aureliano a Roma il 14 febbraio 273, era amante dei fiori che regalava alle coppie di fidanzati per augurare loro un'unione felice. Oggi è festeggiato in tutto il mondo come il "Santo dell'amore". A Vienna, vengono distribuite alle coppie le "Lettere d'amore da parte di Dio"
Perché il vescovo e martire Valentino è il Santo degli innamorati? La leggenda vuole che la sua festa, a metà febbraio, si riallacciasse agli antichi festeggiamenti di Greci, Italici e Romani che si tenevano il 15 febbraio in onore del dio Pan, Fauno e Luperco. Questi festeggiamenti erano legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità. Divenuti troppo orridi e licenziosi, furono proibiti da Augusto e poi soppressi da Gelasio nel 494. La Chiesa cristianizzò quel rito pagano della fecondità anticipandolo al giorno 14 di febbraio attribuendo al martire di Terni la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati indirizzati al matrimonio e ad un’unione allietata dai figli. Da questa vicenda sorsero alcune leggende. Le più interessanti sono quelle che dicono il santo martire amante delle rose, fiori profumati che regalava alle coppie di fidanzati per augurare loro un’unione felice. Oggi in tutto il mondo la festa di San Valentino è celebrata ovunque come “Santo dell’Amore”.


LA BIOGRAFIA: UNA VITA DI CARITÀ CHE GLI COSTÒ IL MARTIRIO

Le notizie storiche su di lui cominciano nel secolo VIII quando un documento ci narra alcuni particolari del martirio: la tortura, la decapitazione notturna, la sepoltura ad opera dei discepoli Proculo, Efebo e Apollonio, successivo martirio di questi e loro sepoltura. Altri testi del secolo VI, raccontano che San Valentino, cittadino e vescovo di Terni dal 197, divenuto famoso per la santità della sua vita, per la carità ed umiltà, venne invitato a Roma da un certo Cratone, oratore greco e latino, perché gli guarisse il figlio infermo da alcuni anni. Guarito il giovane, lo convertì al cristianesimo insieme alla famiglia ed ai greci studiosi di lettere latine Proculo, Efebo e Apollonio, insieme al figlio del Prefetto della città. 

Imprigionato sotto l’Imperatore Aureliano fu decollato a Roma. Era il 14 febbraio 273. Il suo corpo fu trasportato a Terni al LXIII miglio della Via Flaminia. Fu tra i primi vescovi di Terni, consacrato da San Feliciano vescovo di Foligno nel 197. Oggi a Terni è nata la “Fondazione San Valentino”, che cura il culto del Santo durante l’intero mese di febbraio attraverso varie iniziative di fede e di cultura, di arte e di scienza, di spettacolo e di divertimento.

LE TRADIZIONI 

Nella Mitteleuropa (in particolare Francia, Belgio, Germania e Austria) la festa di San Valentino è assai diffusa sin dal Medioevo al pari di santi come Nicola e Martino. Secondo il Fair Trade Austria, ad esempio, il fatturato della vendita di fiori in Austria in concomitanza con il 14 febbraio, la Festa della Mamma e giorno di Natale è pari ad un quarto del totale di un intero anno. Solo di rose, nel paese delle stelle alpine, ne vengono vendute più di 110 milioni.

Anche varie diocesi austriache, come quelle di Eisenstadt e Linz, Salzburg con Graz-Seckau e Innsbruck, si sono attrezzate per momenti di festa e riflessione con le coppie di innamorati. Tra le iniziative, le “Lettere d’amore da parte di Dio”, distribuite non solo nelle parrocchie, ma soprattutto all’esterno, in giro per la città da parte dei volontari con una frase biblica sull’amore di coppia, voluto e benedetto da Dio. Nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna anche una solenne Benedizione degli innamorati con l’imposizione delle mani e al termine un concerto romantico.