domenica 28 ottobre 2018

PREGHIERA PRIMA DI DORMIRE







Bambino di 7 anni a scuola con i coltelli, testata alla maestra

A sette anni ha colpito con una testata al naso la sua maestra intenta a fare lezione in classe. E’ successo in una scuola primaria di Firenze nei giorni scorsi.

L’aggressione, come riporta La Nazione, sarebbe avvenuta all’improvviso mentre la maestra era seduta in cattedra.

Solo il giorno prima, il bambino si era presentato a scuola con dei coltelli lanciandone uno davanti ai suoi coetanei prima di essere fermato dai docenti. L’insegnante è stata trasportata in ambulanza al pronto soccorso per la sospetta frattura del naso dover ha ricevuto una prognosi di sei giorni. ANSA
Benché il caso sia noto ormai da mesi, non è stato preso alcun provvedimento per la tutela degli altri bambini e del corpo docente.

Bologna: 14enne pakistano a scuola con un pugnale nello zaino

Andava a scuola con un grosso coltello nello zaino: precisamente un pugnale, con impugnatura in legno a una lama di ben 18 cm. L’arma è stata sequestrata dai Carabinieri a un 14nne di origine pakistana, che frequenta la prima in un istituto superiore in zona Barca, a Bologna.

La scuola, insieme ad altre fra la città e la provincia, negli ultimi giorni è stata interessata da uno dei periodici controlli dei Carabinieri, che hanno ispezionato le aule e gli spazi comuni con i cani antidroga. Stupefacenti non ne sono stati trovati, ma nello zaino del ragazzino (controllato a quanto pare perché dava segni di nervosismo) è stato scoperto il pugnale, posto sotto sequestro. Il 14enne è stato denunciato per porto illegale di armi.

Germania: pesante sconfitta per Merkel in Assia. Crollano Cdu e Spd

ANCHE IN GERMANIA COMINCIANO A FIUTARE L'INGANNO MERKEL?
Pesante sconfitta elettorale per la cancelliera Angela Merkel in Germania il suo governo di grande coalizione: crollo della Cdu e batosta anche per la Spd nelle regionali in Assia.
Secondo i primi exit poll divulgati dalla Zdf, i cristiano-democratici si attestano al 27% (contro il 38,3% del 2013), mentre i socialdemocratici si accontentano del 20% (cinque anni fa ottennero il 30,7%).
I Verdi volano raggiungendo il 20% (11,1% nel 2013). L’ultradestra di Afd arriva al 13% (4,1% cinque anni fa). I liberali si attesterebbero al 7% (5%) mentre la Linke al 6,5 (5,2%). — AGI —

L’Ue si piega alle minacce di Trump Boom di gas e soia dall’America


trump usa
Donald Trump minaccia, l’Unione europea risponde. Ma non come le risposte dure di Donald Tusk e Angela Merkel farebbero pensare. In realtà, dalle notizie che arrivano dalla Germania, la strategia Usa di alzare il tiro con l’Europa sembra stia dando i suoi frutti proprio in favore di Washington. E nonostante le reazioni pubbliche inferocite dei partner europei, l’economia statunitense potrebbero trarne beneficio.
Il gas americano arriva in Germania

Il primo esempio arriva direttamente sul fronte del gas, uno dei settori più importanti nel delicato equilibrio di potere economico e politico fra Russia e Stati Uniti. Berlino è legata a doppio filo a Mosca grazie all’importazione di gas. E il gasdotto North Stream 2 ne è il simbolo principale. Un legame che Washington cerca da sempre di sradicare, consapevole che l’asse del gas fra Germania e Russia escluderebbe l’oro blu americano dal mercato europeo mentre consegnerebbe le chiavi dell’energia del Vecchio Continente al Cremlino.

Le sanzioni Usa hanno colpito indirettamente il progetto di raddoppio del gasdotto fra i giacimenti russi e il mercato tedesco. Un obiettivo strategico che Washington ha voluto colpire anche obbligando la Germania a comprare gas liquefatto americano. Trump ci sta riuscendo? Dalle ultime informazioni sembrerebbe di sì. E lo ha fatto proprio attraverso la minaccia di imporre dazi sulle automobili tedesche, una delle industrie principali del Paese europeo.

La scorsa settimana, come riportato da Reuters, la Germania ha annunciato di aver avviato l’iter per scegliere dove costruire un terminale per il gas naturale liquefatto (Gnl) entro la fine del 2018 “come un gesto per gli Stati Uniti che vogliono spedire più gas in Europa”. Ad affermarlo è stato il ministro dell’Economia di Berlino.

“Questo è un gesto per i nostri amici americani”, ha detto Peter Altmaier. “Abbiamo tre città in competizione e prenderemo una decisione prima della fine dell’anno”. Il ministro ha ribadito che il piano non è collegato al sostegno della Germania per North Stream 2. Ma è chiaro che di mezzo ci sia il gas russo e lo scontro fra Usa e Russia sul mercato gasiero europeo. E non è un caso che queste dichiarazioni siano giunte a margine dell’incontro fra Altmaier e Maros Sevocic della Commissione europea.
Il boom della soia americana

La minaccia dei dazi statunitensi ha evidentemente provocato più di un sussulto in sede europea. E a confermare questo effetto delle minacce di Washington c’è un altro dato su cui riflettere: l’aumento dell’importazione di soia americana dall’Europa. 

Come scrive Italia Oggi, “secondo i dati diffusi ieri dalla Commissione Ue, nel mese di luglio le importazioni di soia americana da parte dei paesi Ue sono aumentate del 283% rispetto allo stesso mese dell’ anno scorso (da 92mila a 360 mila tonnellate). Un’ impennata destinata ad aumentare, come rivelano alcune fonti europee, in virtù di un accordo commerciale siglato ufficialmente alla Casa Bianca due mesi fa, ma già operativo nelle settimane precedenti”.

Il patto sulla soia è uno degli accordi conclusi da Trump e Jean-Claude Juncker a luglio durante il loro vertice alla Casa Bianca. Un incontro in cui il risultato è stato che il presidente degli Stati Uniti ha rinunciato a imporre dazi all’Unione europea in cambio di maggiori acquisti da parte dell’Europa di prodotti americani. E così la minaccia di una guerra commerciale ha fatto sì che Bruxelles chinasse il capo. Del resto, gli interessi tedeschi in ballo erano enormi. E quest’Europa, che rappresenta in larga parte gli interessi commerciali del Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, non poteva non prendersi cura dei rischi dell’industria tedesca.
Una vittoria politica

A giudicare da quanto avvenuto, per Trump si è trattato di una doppia vittoria. Da un punto di vista commerciale, ha guadagnato un mercato ricco come quello europeo. Ma da un punto di vista politico, anche interno, la mossa è stata particolarmente utile.

I coltivatori di soia del Midwest rappresentano una delle colonne portanti dell’elettorato repubblicano. La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti ha bloccato l’export di soia americana verso Pechino, che invece ne richiedeva in quantità molto elevate grazie alla crescita degli allevamenti intensivi di maiali. Xi Jinping ha imposto il blocco dell’import di soia. E questo ha prodotto una grave perdita all’economia americana. Da qui l’ accordo con Juncker, in cui in sostanza l’Europa ha sostituito la Cina nel mercato della soia per evitare di subire i dazi. 
I rischi per l’Italia

Tutti contenti? Forse statunitensi e tedeschi. Perché invece gli italiani non sembrano cantare vittoria. Come ricorda sempre Italia Oggi, “l’Italia è il primo produttore europeo di soia, con circa il 50% della produzione Ue (1,1 milioni di tonnellate l’ anno), davanti alla Francia. La nostra autosufficienza, tuttavia, non va oltre il 20% del fabbisogno, e rende necessario un import robusto e crescente per la zootecnia, che ha già messo in allarme la Coldiretti”. Come segnalato da Roberto Moncalvo, già prima dell’accordo tra Juncker e Trump l’importazione di soia americana in Italia era aumentato del 31%.

Milano, “L’orrore dello spaccio nell’ex scuola occupata”

MILANO, 25 OTT – “L’orrore dello spaccio nell’ex scuola abbandonata”: così Silvia Sardone, consigliere regionale e comunale del Gruppo Misto, ha intitolato su Facebook il video del suo sopralluogo in via Zama, dove dice di essersi trovata di fronte una “scena simile al dramma di DESIREE a Roma: abbiamo trovato – racconta – una ragazza italiana giovanissima tra spacciatori e sbandati“.
Sardone era già stata in via Zama, in zona Mecenate, un paio di mesi fa e dice che da allora “nulla è cambiato, anzi la situazione è addirittura peggiorata. Gli immigrati nordafricani che occupano lo stabile sono sempre al loro posto, ma quello che fa più preoccupare è il viavai di giovani ragazze denunciato dai residenti della zona. Ho infatti incontrato – racconta – una ragazza italiana molto giovane al secondo piano in compagnia di un algerino e in evidente stato di alterazione dovuto probabilmente all’assunzione di droga. Una situazione che non vorrei diventasse esplosiva come quella di via dei Lucani”.

Modena: edifici abbandonati rifugio per sbandati e spacciatori

E' URGENTE CHE IL GOVERNO PORTI AVANTI UN PROGRAMMA E UN PIANO DI ABBATTIMENTO E RIQUALIFICAZIONE DI TUTTI GLI STABILI ABBANDONATI, CHE NEL FRATTEMPO VANNO PRESIDIATI E CONTROLLATI DALLE FORZE DELL'ORDINE  
Dalle baracche immerse nella boscaglia a Modena Est ai casolari sconosciuti senza dimenticare i luoghi storici. Si moltiplicano in città gli edifici abbandonati che diventano residenze di fortuna per sbandati, spacciatori, mendicanti, senza tetto.
In questo video alcune delle situazioni esistenti in città, in centro e in periferia.  Video di Gino Esposito
Non solo Roma quartiere san Lorenzo, praticamente accade in tutte le città.

Quella sfida internazionale dietro la costruzione del Tap




Giuseppe Conte ha confermato l’impegno dell’Italia nella costruzione del Tap. Una scelta in controtendenza rispetto alle idee della base del Movimento Cinque Stelle e che conferma gli impegni presi dai precedenti governi italiani.

Come ha detto il premier, “gli accordi chiusi in passato ci conducono a una strada senza via di uscita. Non abbiamo riscontrato elementi di illegittimità. Interrompere la realizzazione dell’opera comporterebbe costi insostenibili, pari a decine di miliardi di euro. In ballo ci sono numeri che si avvicinano a quelli di una manovra economica. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, non lasciando nulla di intentato. Ora però è arrivato il momento di operare le scelte necessarie e di metterci la faccia”. 

L’opera si farà dunque. Ed è un segnale importante che, escludendo il dibattito politico intento, investe inevitabilmente la nostra politica estera. Il governo italiano conferma quanto fatto dalle amministrazioni precedenti, quindi si conforma a una linea dei partiti che oggi rappresentano l’opposizione. Ma si allinea, in ogni caso, a una strategia di più ampio respiro voluta dagli Stati Uniti e dall’Unione europea che consiste nella diversificazione delle fonti energetiche. In particolare, in questo caso, del gas.

La diversificazione delle fonti si traduce, in maniera abbastanza evidente, nella volontà di sganciare l’Europa dalla dipendenza dal gas russo. È Mosca oggi ad essere la vera grande potenza esportatrice di gas all’interno del continente europeo. E per quantità estratta e vicinanza territoriale, resta sicuramente il produttore più conveniente e utile per tutti i Paesi europei. La Russia non si può certo considerare un monopolista del mercato gasiero del Vecchio Continente: ma p sicuramente un giocatore fondamentale.

Ed è proprio questa sua posizione di forza ad aver attivato da tempo sia Bruxelles che Washington per fare in modo di evitare che il Cremlino abbia in mano il controllo del gas per l’Europa. Per l’Unione europea, l’interesse prioritario è quello della diversificazione, della concorrenza, ma anche di evitare di dipendere da un attore considerato ostile dall’attuale amministrazione continentale.

Vladimir Putin non è considerato un partner affidabile dall’Unione europea e le sanzioni alla Russia ne sono la dimostrazione. Mentre le precedenti Commissioni europee hanno cercato di non dividere Mosca dall’Europa, l’attuale governo dell’Ue ha proposto un approccio molto più duro. E questo si ripercuote inevitabilmente anche nel gas, che è un’arma fondamentale per la geopolitica russa.

Per gli Stati Uniti, il discorso è diverso. È chiaro che Oltreoceano l’interesse non è identico a quello europeo, ma è identico lo scopo: evitare che sia la Russia ad avere il controllo di una larga fetta del mercato del gas continentale. Il motivo è strategico, perché avere il rubinetto dell’energia equivale ad avere un controllo effettivo sulla vita degli Stati. E la Casa Bianca non vuole che questo ruolo lo abbia il Cremlino.

Ma c’è un motivo anche prettamente economico: l’Europa è un mercato ricco e la domanda di gas è in forte ascesa. Le riserve europee si stanno lentamente esaurendo, i giacimenti russi garantiscono produzione continua, e gli Stati Uniti hanno deciso che non possono rimanere estranei a tutto questo. Donald Trump si è detto pronto a entrare prepotentemente nel mercato dell’oro blu d’Europa. E lo sta facendo sia attraverso accordi politici per l’esportazione diretta di Gnl americano, sia attraverso il sostegno a progetti di gasdotti che, come il Corridoio Sud, sostituiscano (almeno nelle intenzioni) l’export russo.

Il Tap, e quindi l’Italia, si inseriscono in questo difficile equilibrio fra potenze del gas. E il compito del governo italiano è complesso poiché si trova a dover confrontarsi con interessi del tutto divergenti fra loro e non facilmente amalgamabili. Escludendo i dati tecnici, e rimanendo sul piano politico, è evidente che la conferma di questo gasdotto si inserisce all’interno della politica di equilibrio che sta svolgendo il governo Conte con Russia e Stati Uniti.

Donald Trump ha dimostrato in questi mesi di essere un forte sostenitore del governo giallo-verde. L’incontro con Conte alla Casa Bianca è stata la manifestazione più evidente di un rapporto estremamente positivo fra Roma e Washington. Ma questo rapporto positivo è anche evidentemente un rapporto d’interesse. E gli Stati Uniti hanno messo da subito in chiaro quale fosse la loro volontà: vedere il Tap approvato. In questa fase di rapporti molto tesi fra Italia e Unione europea, gli Stati Uniti rappresentano una potenza essenziale per mantenere questa politica di confronto acceso con Bruxelles. Se con l’Ue non riusciamo ad avere rapporti positivi, è evidente che la sponda dall’altra parte dell’Atlantico risulta essenziale, sia politicamente che economicamente.

D’altro canto, non è un mistero che nelle diverse anime del governo composto da Lega e Movimento 5 Stelle vi sia un sentimento di apertura nei confronti della Russia. Conte sin dal suo discorso d’insediamento ha detto di volere a tutti i costi interrompere le sanzioni a Mosca che colpiscono, oltre alla loro economia, le aziende italiane. E i viaggi di Matteo Salvini e dello stesso capo di governo hanno confermato questo obiettivo italiano. Ora: è chiaro che il Tap non possa far piacere a Mosca, perché da un punto di vista strategico, a lungo termine, indica un obiettivo di progressivo sganciamento dal gas proveniente dalla Russia.

Ma se la scelta del Tap è apparsa obbligata per i nostri impegni con l’Occidente, è altrettanto evidente che questo possa essere il preludio per una graduale apertura economica nei confronti della Russia. Trump si è dimostrato un presidente negoziatore: è un businessman a cui piace trattare per raggiungere un compromesso che soddisfi tutti. Il gasdotto che arriverà a Meledeugno, soddisfa gli interessi americani. E forse questo potrebbe a un allentamento della pressione su Mosca. Un do ut des? Possibile. Ma del resto è questo il difficile gioco italiano, che oscilla fra l’aquila e l’orso. Non possiamo essere una superpotenza: ma possiamo fare in modo che la sfida per il nostro Paese si trasformi in concorrenza.

SOVRANITA' E DOMINIO MONETARIO AI TEMPI DI DRAGHI

Il potere rivendicato dalla BCE, inteso a soverchiare le leve fiscali degli Stati e la loro politica economica, a partire dall’Italia. [Pino Cabras]



Un'attivista spaventa Draghi



di Pino Cabras.

Riporto qui di seguito due articoli, rispettivamente di Giuseppe Masala e Simone Santini, che commentano le dichiarazioni del presidente della BCE Mario Draghi in merito al potere rivendicato dalla Banca Centrale Europea, un potere inteso a soverchiare le leve fiscali degli Stati e la loro politica economica, a partire dall’Italia. Mi riservo alcune annotazioni in coda agli articoli.


1) Viviamo in un regime di ‘Monetary Dominance’?


di Giuseppe Masala.


Mentre tutti si stracciano le vesti per le accuse di Luigi Di Maio a Mario Draghi ("Avvelena i pozzi") generando panico, nessuno si interroga sulle gravissime parole del professore Draghi espresse ieri a Francoforte. Secondo il Presidente della BCE, osannato da tutte le testate di giornale e da tutte le tv, vivremmo in un regime di “dominanza monetaria”.


A me risulterebbe altro: la Banca Centrale Europea (così come all'epoca la Banca d'Italia) agisce in indipendenza e autonomia. Ma un "regime di monetary dominance" è un'altra cosa: è la subordinazione delle politiche fiscali poste in essere dalle Istituzioni democraticamente elette alle autorità monetarie e dunque ai tecnocrati delle banche centrali. Inutile sottolineare che per qualunque scelta politica del governo democraticamente eletto sono necessarie le risorse poste a disposizione dalla leva fiscale per diventare realtà pratica e concreta. Dire dunque che siamo in un regime di monetary dominance significa dire chiaro e tondo che viviamo sotto la dittatura dei banchieri centrali. Dittatura ormai peraltro pubblicamente e platealmente rivendicata.


Inutile sottolineare che siamo di fronte ad una rivendicazione di qualcosa che già è stato ostentatamente e pubblicamente rivendicato dalla BCE nel 2011: le lettere con filma in calce del Presidente Trichet per quanto riguarda la Spagna e a doppia firma del Presidente Trichet e di quello entrante Draghi per quanto riguarda l'Italia. Missive dove si elencavano i provvedimenti che i Governi dovevano porre in essere se volevano evitare la crisi fiscale grazie all'intervento della BCE. Incidentalmente, quell’intervento sarebbe stato peraltro dovuto e non condizionato, visto che i Draghi stanno lì a fare quello: evitare le crisi di liquidità dei sistemi bancari dei paesi aderenti all'eurosistema.


Ma il punto non è manco quello: il punto è che almeno in Italia (in Spagna non mi pronuncio non avendo la più pallida idea) la Costituzione non dà alcun predominio (alcunamonetary dominance) alla banca centrale sulle istituzioni democraticamente elette. Anzi, per il vero, le mie umili resipiscenze della Costituzione Italiana mi suggeriscono che la Banca Centrale non è manco nominata.


Qui invece siamo alla smaccata rivendicazione della Sovversione dell'Ordine Democratico e Costituzionale. Non mi risulta manco che i trattati europei ai quali l'Italia ha aderito conferiscano una "monetary dominance" alla BCE.


Insomma siamo di fronte ad una cosa che se fossero stati vivi Togliatti, Pertini, Saragat e Lussu a Draghi queste parole sarebbe costate carissime. Ma non mi viene manco difficile ipotizzare che questo principio della "monetary dominance" avrebbe spinto anche Aldo Moro - persona notoriamente pacifica - a perdere le staffe.


Mario Draghi è un pericolo reale e concreto per la democrazia e va fermato (democraticamente). Chi non lo capisce è complice.

DI MAIO CONTRO DRAGHI

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di Simone Santini.


Nella polemica tra Di Maio e Draghi ha ovviamente ragione Di Maio. O, meglio, ha ragione Paolo Savona.

Draghi avrebbe dovuto distinguere i rischi del sistema Italia e distinguere quali sono le possibilità di intervento della BCE. Avrebbe dovuto correttamente dire che l'aumento del pagamento degli interessi sul debito (semplificato ormai urbi et orbi nello "spread") è un problema di medio-lungo periodo che riguarda lo Stato italiano e su cui la BCE non interverrà.

Ma dallo stesso problema deriva un rischio per la tenuta del sistema bancario italiano e quello È PIENAMENTE un rischio di competenza della BCE.

Invece che gettare dubbi allarmistici ("avvelenare il clima", locuzione perfetta) Draghi avrebbe dovuto dire che è compito della BCE evitare che il sistema bancario italiano entri in crisi.

Alla obiezione che gli sarebbe stata posta, ovvero che per evitare ciò, gli strumenti a disposizione della BCE sono gli stessi che impedirebbero allo spread di aumentare, ab origine, (e quindi avrebbe finito per aiutare lo Stato italiano, ciò che non è suo compito) Draghi avrebbe dovuto e potuto correttamente dire: "La BCE farà solo quanto sarà necessario. E sarà sufficiente". Fine della storia. Lo spread sarebbe tornato a 200 nel giro di pochi giorni e lì sarebbe rimasto fino alle elezioni europee.

Perché Draghi non l'ha fatto? La risposta è semplice. Draghi non è lì su quella poltrona a Francoforte come italiano o finto italiano. Non deve dare giudizi tecnico-economici (che il presidente della BCE debba essere un economista è, in fondo, un incidente di percorso). Draghi compie azioni POLITICHE e presidia un POTERE POLITICO che è quello eminentemente oligofinanziario. Ragiona come un politico che detiene un potere. Ma in questo scontro di potere in atto è, al momento, dalla parte del clan perdente (i poteri oligofinanziari non sono un monolite, anzi, si scontrano spesso - continuamente - al loro interno) o forse sarebbe più corretto dire, deve tenere in equilibrio più piatti sull'asticella come un bravo funambolo.

Per cui, all'Italia va data libertà di manovra ma al tempo stesso la si deve tenere al guinzaglio, un guinzaglio né troppo stretto, né troppo lungo. Hai visto mai, infatti, che al cagnolino Italia cominci a piacere un po' troppo la libertà?


Annotazioni di Pino Cabras.

I due articoli sopra esposti, in modi diversi, sottolineano un elemento decisivo del ruolo della BCE e di chi la incarna: la Banca Centrale Europea non funziona secondo astratte regole ispirate da oggettiva razionalità economica, né come una tipica banca centrale. È semmai un organo che piega i rapporti di forza rispetto agli Stati usando criteri di dominio squisitamente politico.

Per interpretare questa situazione mi aiuta un libro che ho appena letto, un saggio del 2000 intitolato Alla ricerca della sovranità monetaria”, scritto dall’economista e attuale ministro Paolo Savona. 
Savona evidenzia innanzitutto che «è sovrano chi decide e impone la sua volontà, con la forza, con la legge o con la creazione di uno stato di fatto». Mi viene da ricordare che fu Carl Schmitt a dire che «la sovranità significa capacità di dichiarare uno stato d’eccezione» (Ausnahmezustand). L’organo in grado di emanarlo è l’organo sovrano per eccellenza. Nell’epoca delle crisi finanziarie che possono portare a strangolare governi e Stati da parte di pochi soggetti inflessibili che stabiliscono inesorabilmente cosa sia emergenza, quei soggetti assumono una preponderanza che non si fa scrupolo di ignorare e capovolgere le decisioni che provengano invece da soggetti di emanazione democratica. Tutti ricordano il referendum greco del 2015, che rigettava le condizioni capestro della trojka, e tutti ricordano come Draghi fu spietato nel chiudere i rubinetti alle banche elleniche fino alla totale capitolazione del governo Tsipras.

Savona, già nel 2000, ripercorrendo la storia della moneta nella penisola italiana nei secoli spiegava le varie forme di sovranità. Possiamo vedere la sovranità monetaria in un senso stretto, molto tecnico, ma anche in senso lato, di tipo storico politico. «Con il primo s’intende il potere e la capacità dei governanti di fissare il prezzo (cioè il tasso d’interesse) o, alternativamente, la quantità di moneta. Con il secondo, la capacità degli stati di fare scelte di governo, indipendentemente dall’influenza estera, sia di tipo politico generale, sia di tipo strettamente monetario e finanziario».

Ecco, le scelte di governo tengono conto di una «influenza estera». Savona sottolinea la questione in modo ancora più preciso: «il tema della sovranità monetaria si lega ormai strettamente a quello della foreign dominance(cioè del dominio esterno, ndr), e non a quello della fiscal dominance (cioè del dominio fiscale, ndr)». Anche se un paese dispone di una Banca centrale indipendente dal governo e dai suoi obiettivi di politica fiscale non è detto che riesca a essere pienamente “sovrano” sul piano monetario: sono tanti i fattori che stanno fuori dai confini nazionali e sono in grado di alterare le sue condizioni economiche.

Draghi, nelle sue ultime dichiarazioni, non ha fatto altro che ribadire che la cessione della sovranità economica a quella particolare forma di foreign dominance rappresentata dalla BCE implica un vincolo strettissimo, un condizionamento che va a detrimento di ogni pretesa di politica economica progressiva contenuta in decine di articoli della Costituzione repubblicana. Perciò male fa Marco Travaglio a leggere in queste dichiarazioni del presidente BCE qualche ciambella di salvataggio. Lui che è sempre attento ai precedenti, dovrebbe essersi accorto che quando Draghi tira un salvagente, alla fine si rivela un cappio.

Dunque lo scontro fra Roma e Bruxelles (e Roma e Francoforte) non potrebbe essere più politico di così. Non è un caso che accada ora. Il contratto di governo fra M5S e Lega mette insieme due formazioni assai diverse fra di loro. Eppure, prima del giorno in cui le strade si divideranno di nuovo, un punto di accordo è chiarissimo, come sempre accade in casi di alleanze fra soggetti molto diversi: e questo punto è che le due forze politiche vogliono restituire alla Repubblica italiana i mezzi, i metodi, gli istituti occorrenti a fare autonomamente politica economica, ossia tutti gli strumenti per i quali la Repubblica è stata invece da molti anni esautorata dall’attuale struttura istituzionale europea, che ha favorito un impoverimento sempre più grave dei cittadini e della cosa pubblica, con un progressivo svuotamento della sovranità popolare.

Altre sponde forti sembrano non essercene, fra le forze politiche italiane. Sarà un passaggio difficile che richiederà molti sforzi paragonabili a quello di Paolo Savona, nel momento in cui – con il documento “Una politeia per un’Europa diversa” - delinea un modo nuovo di avere il «perseguimento del bene comune europeo». Un ordine delle cose contro cui Draghi e i suoi amici lotteranno con ogni energia in nome della monetary dominance.