(Mauro Faverzani) Come la Polonia. Come l’Ungheria. Anche negli Stati Uniti il Coronavirus lo si affronta aprendo le chiese, non chiudendole. Non tanto per questioni di distanziamento: più Messe, meno fedeli ad ognuna. Quanto perché ritenute «luoghi essenziali, che forniscono servizi essenziali». Quali? È presto detto: la preghiera. E, ad affermarlo senza mezzi termini, è stato proprio il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha ordinato ai governatori degli Stati federati di riaprire «ora» gli edifici sacri, tutti, minacciando di esautorare quanti non lo facciano, magari quegli stessi, ha aggiunto, che viceversa hanno permesso l’apertura delle cliniche abortiste e delle licorerie.
«In America abbiamo bisogno di più preghiere, non di meno preghiere», ha chiarito Trump. Così i Cdc-Centers for Disease Control and Prevention, Centri per la Prevenzione e il controllo delle malattie inizieranno a far applicare tali disposizioni a partire proprio da quegli Stati, che vi si siano dimostrati più «resistenti».
Vi sono governatori – ha chiarito il presidente americano – che ritengono «corretto che tali luoghi di fede così importanti ed essenziali aprano comunque», nonostante la pandemia. Altri, «molti», soprattutto nelle fila dei «democratici, credono invece che sia una buona politica tenere chiusi gli edifici sacri. Ma cosa stanno facendo? Si fanno del male da soli. Stanno danneggiando il proprio Stato e questo non va bene». Occorre rispetto, ha aggiunto, verso tutti questi edifici. A chi gli ha domandato se ritenesse addirittura «prioritaria la loro riapertura rispetto a quella di altre istituzioni», il presidente americano ha risposto di non ritenerla prioritaria, bensì di pari importanza: «Sono molto importanti per la sensibilità della nostra gente. Sono essenziali. È meraviglioso starsene a casa» e seguire riti e funzioni sul computer portatile, «ma non sarà mai come trovarsi in chiesa e starvi» con i propri cari, con i propri amici, condividendo la stessa fede e vivendo la stessa liturgia: «Per milioni di americani il culto a Dio è parte essenziale della propria vita. I sacerdoti sono i garanti di una comunità in salvo, in salute, quando si riunisce per pregare. Lo so bene. Essi amano le loro comunità, la loro gente, non vogliono che accada loro nulla di male». Ed ecco la ragione, per cui stare insieme: pregare Dio.
Sulla stessa lunghezza d’onda si è posto anche il presidente de El Salvador, Nayib Bukele, che, su Facebook, ha ufficialmente proclamato domenica scorsa «Giornata nazionale di Preghiera», sollecitando tutti i fedeli a recitare orazioni, «affinché Dio guarisca la nostra gente e ci permetta di vincere la pandemia».
«Nel pieno dei miei poteri costituzionali – ha scritto – come Presidente della Repubblica de El Salvador, decreto che questa domenica, 24 maggio 2020, sia proclamata la “Giornata nazionale di Preghiera”». Detto, fatto. Non si è limitato ad un post via social, tuttavia, ma ha trasformato il proprio intento in un decreto presidenziale, regolarmente pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, quindi una decisione legalmente valida su tutto il territorio nazionale. Ovviamente «l’adesione è su base volontaria, come dev’essere qualsiasi vera orazione», invitando però «tutti i credenti» a pregare, per chiedere che il Signore salvi loro ed il mondo intero dal morbo.
La Conferenza episcopale spagnola ha invece raccomandato a tutte le diocesi di organizzare una «Giornata di preghiera per le persone colpite dalla pandemia»: dovrebbe tenersi, a discrezione dei Vescovi, o il prossimo 26 luglio, festa di San Gioacchino e Sant’Anna, patroni degli anziani ovvero della categoria più colpita dal Coronavirus, oppure il giorno prima, il 25 luglio, solennità di San Giacomo apostolo, patrono di Spagna. In tale giornata è prevista in tutte le chiese la celebrazione della Santa Messa, chiedendo l’eterno riposo per tutti i defunti, nonché conforto e speranza per le loro famiglie. Già i prossimi 6 e 7 luglio, comunque, la Commissione Permanente della Conferenza episcopale spagnola, riunita a Madrid, celebrerà l’Eucarestia per le vittime della pandemia nella cattedrale di La Almudena.
Sono tutte notizie che confortano, quelle giunte la scorsa settimana, settimana iniziata bene già con la decisione a sorpresa, giunta dal Consiglio di Stato francese, di costringere il presidente Macron a consentire il culto religioso pubblico, «revocando entro una settimana il divieto generale e assoluto» di riunirsi in chiesa. Tale sentenza è giunta dopo le vibrate critiche rivolte dai vescovi d’Oltralpe all’Eliseo, per il fatto di ostinarsi a tener serrate le chiese, ed anche dopo l’esplicita richiesta rivolta in tal senso al massimo organo costituzionale per vie legali dal presidente del Partito Democratico Cristiano, Jean-Frédéric Poisson, nonché da altre associazioni cattoliche tradizionali.
Sono informazioni, anche, su cui molti dovrebbero meditare, soprattutto i Vescovi italiani, distintisi viceversa per la fretta, con cui – in tanti casi addirittura prima che giungesse loro l’ordine governativo – hanno sbarrato i portoni di cattedrali, chiese, cappelle ed oratori. Grazie a Dio, vi sono loro Confratelli e addirittura Presidenti di intere nazioni, che, all’estero, lontano da Roma, lontano dal cuore della Cristianità, sanno comportarsi diversamente.