Le pressioni della Trilateral Commission e del gruppo Bilderberg sulle commissioni europee e l’invenzione del Patto di stabilità per estromettere i governi nazionali dalle scelte economiche: quando la politica, obbligata a fare i conti con il voto e il consenso popolare, è un lusso che il neoliberismo non si può più permettere
Poche cose generano disinteresse negli italiani quanto l’Unione europea, le sue regole, i vari trattati che l’hanno creata, le istituzioni. Un disinteresse radicato, nonostante la consapevolezza, o il sentore, che l’Unione stia fagocitando pian piano l’autonomia decisionale di ogni Paese membro.
Le ultime elezioni europee del 2009 hanno visto un’affluenza del 65%, in calo rispetto alle votazioni precedenti dell’8%. Una persona consapevole ma ottimista (quasi un ossimoro) potrebbe valutare il disinteresse come una presa di coscienza da parte degli italiani del fatto che la politica, in Europa, ha un peso talmente irrisorio, che esercitare il proprio diritto di voto per decidere da chi farsi rappresentare al Parlamento europeo è una farsa a cui si sottraggono volentieri. Ma proprio in virtù dell’ossimoro, risulta difficile dare questa interpretazione. Più probabile che la complessità delle strutture europee, e quindi l’impegno che richiede il conoscerle e farsi un’opinione, sia la ragione alla base del disinteresse.
Nel 1992, anno della firma del Trattato di Maastricht, l’Unione europea era stata presentata agli italiani come la terra promessa, l’unica possibile salvezza da un sistema Paese in fallimento, in preda a Tangentopoli, falcidiato nella sua classe politica corrotta; come il solo modo per uscire dalla dinamica di un debito pubblico in perenne aumento e da una lira buttata fuori dal Sistema monetario europeo (Sme). In nome dei parametri del Trattato – inerenti ai valori di debito pubblico, deficit, inflazione, tasso d’interesse a lungo termine e permanenza nei due anni precedenti nello Sme – fu lanciata la campagna delle privatizzazioni delle imprese pubbliche (svendute ai grandi gruppi privati come nemmeno a un mercato delle pulci); fu approvata dal Parlamento italiano – 1996, governo Prodi – una manovra economica da 62.500 miliardi di lire, perno dell’affannata rincorsa, risultata vittoriosa, per entrare nel primo gruppo che avrebbe adottato l’euro. Quel che a tutti i costi si doveva agguantare, infatti, era l’unione economica dell’Europa: il treno del libero mercato, lanciato a piena velocità.
La mano invisibile, la legge naturale della domanda e dell’offerta che genera i giusti prezzi e la competizione tra pari: nel ’92 il libero mercato era già divenuto quel che Foucault avrebbe definito un ‘regime di verità’. Aveva cioè già imposto il proprio processo di veridizione, stabilendo in modo autoreferenziale l’insieme delle regole che sanciscono che cosa è vero e che cosa è falso. Tra quelle vere, la principale è l’automatismo delle dinamiche del mercato, che produce maggior ricchezza per tutta la popolazione a patto sia lasciato libero di agire. A patto, dunque, che la politica adotti la logica del ‘governo minimo’ – privatizzare, abbandonare il welfare, ritirarsi dal ruolo di mediatore dei conflitti sociali e dal tavolo della contrattazione collettiva sul lavoro. Le sue azioni quindi non sono più giudicate sulla base di criteri come legittimo o illegittimo, ma esclusivamente sugli effetti che producono in termini di utilità. Il ‘governo del fare’, ben prima che Berlusconi lanciasse lo slogan.
Ne nasce, inevitabilmente, un primato dell’economia sulla politica, e un governo della società in tal senso. Non è una novità (con la definizione di struttura/sovrastruttura, Marx aveva già individuato e analizzato questa dinamica), ma viene a mancare quel discorso dialettico che politica ed economia sono sempre state costrette a tenere in piedi, con le conseguenze che questa mancanza comporta. Prima fra tutte, la questione della libertà degli individui, che perde la caratteristica giuridica – naturale, direbbe Rousseau – per abbracciare quella mercantile. Il libero mercato ‘consuma’ libertà, ne deve dunque produrre per sopravvivere: libertà del venditore, dell’acquirente e del consumatore; libertà di proprietà, d’impresa e del mercato del lavoro. La formula del liberalismo, scriveva Foucault, non è ‘sii libero’, ma: ‘ti procurerò di che essere libero’.
Al ricco banchetto del libero mercato, siede però un convitato di pietra: i cittadini. Non tanto perché possono scendere in piazza a protestare – dato che il concetto di democrazia ormai sacralizzato, vuole che il conflitto sociale sia pacifico, colorato, fantasioso negli slogan e rispettoso delle ‘zone rosse’: quando trasgredisce queste regole, si trasforma automaticamente in facinoroso e terrorista e opinione pubblica, mass-media e politica fanno a gara per condannarlo. Il problema è che i cittadini hanno il diritto di voto.
La politica, in realtà, ha già trovato il modo per rendere innocuo tale diritto, creando quel che a tutti gli effetti è un sistema unipolare: la visione economica infatti è una, destra e sinistra hanno entrambe abbracciato l’ideologia del libero mercato. Ma l’inseguimento del consenso elettorale, per giochi di potere, produce inevitabilmente lentezze decisionali, che provocano gravi danni in un contesto economico che vive di rapidità e immediatezza, ancora più necessarie in una fase di crisi come quella attuale. Lo dichiara candidamente anche lo stesso Sacconi, in un’intervista rilasciata al Corsera l’8 novembre scorso, quando afferma che la crisi ha innescato un passaggio epocale: da una parte vi sono Paesi come la Cina, “con sistemi istituzionali molto semplici e perciò veloci nelle decisioni, dall’altra i Paesi di vecchia industrializzazione che non possono più far leva sul debito pubblico, come l’Italia”. Far leva sul debito pubblico, nelle parole del ministro, significa sostenere quella politica di welfare che produce consenso elettorale. Non è più possibile farlo, e per ragioni ormai evidenti: il mercato, lasciato totalmente libero di agire, penalizza, attraverso la speculazione finanziaria, i Paesi troppo indebitati. Tuttavia non è nemmeno possibile diventare la Cina: la democrazia è sacra, con il suo diritto di voto, e non si può tornare indietro, a un regime dittatoriale.
La soluzione trovata a questa impasse è l’esautorazione della politica dalle decisioni economiche, e l’Europa vi è riuscita così bene che Bernanke, governatore della Fed, la indica come la futura strada maestra.
In un convegno a Rhode Island, il 4 ottobre scorso, egli afferma che il progressivo aumento e invecchiamento della popolazione in tutti i Paesi occidentali – data la crescita delle aspettative di vita creata dal benessere economico – rischia di generare enormi spese sanitarie e pensionistiche, che andranno ad aumentare sempre più i debiti pubblici. Tagliare e privatizzare tutto è l’unico modo per evitarlo, dato che le imposte sulle imprese, i redditi alti e i patrimoni non si possono aumentare – sono i principali attori del libero mercato, non li si può ‘impoverire’ – e nemmeno si può più spennare un pollo – il ceto medio-basso – ormai rimasto senza piume. Una soluzione tuttavia che rischia di provocare problemi di consenso elettorale. Occorre dunque affidare la politica economica a organismi non elettivi e vincolarla all’applicazione di rigide ‘regole fiscali’, impersonali, asettiche, non derogabili.
L’invidia di Bernanke nasce dal fatto che l’Europa, ben prima degli Stati Uniti, è riuscita a mettere in pratica l’esautorazione, con l’invenzione del Patto di stabilità. Comodo paravento dietro cui la politica si nasconde, evitando così di rispondere del fatto che è essa stessa ad aver innalzato il libero mercato a luogo di verità – dal momento che ancora, il potere legislativo è unicamente nelle sue mani – i cittadini si sentono dire che non è responsabilità del governo italiano una manovra economica da 24 miliardi di euro, perché la esige l’Unione europea, il Patto di stabilità, la difesa dalla speculazione.
Il processo di veridizione si è talmente compiuto che Tremonti è, nell’elettorato di destra come in quello di sinistra, il ministro più apprezzato: ha tenuto i conti pubblici in ordine, recita il mantra trasversale. Senza che alcuno si chieda quale ordine dovrebbe essere ritenuto legittimo, per uno Stato che non ha sottoscritto alcun contratto economico con chicchessia bensì, al limite, un contratto sociale con i propri cittadini.
Gli attori protagonisti dell’intero sistema sono diventati i banchieri. Tengono per lo scroto sia gli Stati, sia l’economica produttiva, che agisce ormai con un unico fine: creare gruppi industriali sempre più grandi. La ragione è duplice: realizzare quelle economie di sistema che permettono di essere competitivi e (dolce chimera) agguantare posizioni dominanti o addirittura di monopolio; e diventare talmente grandi da non poter fallire. Raggiungere ossia quella posizione per cui il fallimento dell’impresa trascinerebbe con sé nel baratro talmente tante banche creditrici, che sono loro stesse a correre continuamente in soccorso con nuovo credito. In un circolo vizioso e virtuale di un giro di denaro che esiste ormai solo dentro i computer.
Non stupisce, in tale contesto, che si siano creati consessi di poteri forti, lobby chiuse, ristrette, riservate; spazi in cui banchieri, politici e industriali tracciano le linee guida comuni e strategiche per salvaguardare il sistema e possibilmente farlo crescere, e rappresentanti del mondo accademico e dell’informazione si occupano di mettere in circolo il pensiero unico del ‘vero’ e del ‘falso’ sancito dal processo di veridizione. La Trilateral Commission, il gruppo Bilderberg. Nomi che il solo pronunciare genera accuse di complottismo e dietrologia. Nulla di tutto questo. Come nulla di più normale che un sistema basato su pochi attori principali crei spazi adibiti al confronto programmatico: né più né meno di un consiglio di amministrazione.
La Trilaterale nasce nel 1973, su iniziativa di David Rockefeller. Il nome rimanda alle tre aree all’epoca punto di riferimento dell’economia del libero mercato, nord America, Europa e Giappone, in cui sono tuttora presenti le tre direzioni regionali, a Washington, Parigi e Tokyo. Nel tempo il gruppo si è allargato, inglobando i vari Stati dell’est Europa e dell’Asia che abbracciavano il neoliberismo, e dai 180 membri iniziali – 60 per ogni area – si è arrivati oggi a circa 400, suddivisi per Paese in base a un principio di rappresentanza stabilito sul doppio parametro Pil/popolazione.
La struttura è insomma quella di un Parlamento globale, ma con meno membri della sola Camera italiana e, soprattutto, non elettivo: si entra a farne parte su invito, e vi si contano soprattutto banchieri (tutti i presidenti dei grandi istituti, compresi quelli centrali delle varie nazioni, della Banca europea, della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, e gli amministratori delegati dei maggiori fondi speculativi); politici (ministri e parlamentari seduti nelle Camere dei loro Paesi e/o in quella europea e nelle commissioni europee); industriali (i rappresentanti delle principali multinazionali: Coca Cola, Nokia, Rothschild, Shell, Sony ecc.); rappresentanti del mondo accademico, giornalisti e soprattutto editori (Les Echos, Le Figaro, Financial Times, Frankfurter Allgemeine Zeitung, El Pais, Politiken [Danimarca], Helsingin Sanomat, The New York Times, Time Magazine, The Wall Street Journal, The Globe and Mail [Canada], New York Daily News, The Asahi Shimbun [Giappone]). Si riunisce in seduta plenaria una volta l’anno, a rotazione nei diversi Paesi membri, e la sua mission è favorire la globalizzazione. Nella riunione del 1975, i tre relatori principali – il francese Michel Crozier, l’americano Samuel Huntington e il giapponese Joji Watanuki – analizzarono la crisi economica del periodo come il risultato di un “sovraccarico del sistema decisionale”: la soluzione proposta fu quella di spingere per un radicale cambiamento, verso la riduzione dell’intervento statale e un rafforzamento del potere politico esecutivo a scapito del Parlamento e degli istituti di democrazia diretta, come il referendum (1).
L’elenco completo dei partecipanti alla riunione del 2010 è appetitosa e scaricabile dal sito stesso della Trilateral (2), vale la pena giusto indicare qualche nome, italiano e non, conosciuto (vedi box Trilateral Commission).
Il Gruppo Bilderberg è ancora più ristretto: un comitato esecutivo (di cui si conosce solo il nome del presidente, l’ex commissario europeo V.E. Davignon, e non l’identità e il numero dei componenti) e circa 120 persone – alcuni ospiti fissi ai meeting annuali, altri saltuari – tra politici, banchieri, industriali, accademici e giornalisti appartenenti all’area del nord America e dell’Europa. La prima riunione data 1954. Rispetto alla Trilateral, è più chiuso e riservato: i suoi ritrovi sono off-the-record (a ogni partecipante è imposto l’obbligo della segretezza), blindati alla stampa e protetti da rigide misure di sicurezza.
È riuscito a restare praticamente nell’ombra fino agli anni Duemila, quando sono iniziate a circolare voci – fuori dall’ambiente politico/economico il quale, al contrario, della sua esistenza ha sempre saputo. Per la sua segretezza è stato più volte accusato di essere una loggia massonica coperta. Probabilmente è per questo che recentemente ha iniziato un percorso di parziale (o simil) trasparenza, con un sito ufficiale (3) in cui sono pubblicate le date, i luoghi, le scalette tematiche degli incontri annuali dal 1954 a oggi e, dalla riunione del 2008, anche le liste dei partecipanti (quanto complete non è dato saperlo: il presidente del Consiglio europeo, Van Rompuy, per esempio, pare che a domanda diretta non abbia smentito la sua partecipazione alla riunione del 2009; eppure, nell’elenco disponibile sul sito non compare).
Gli argomenti affrontati in quelli che vengono definiti dei semplici forum riguardano l’economia globale, la finanza, il mercato monetario, la governance mondiale, la sicurezza internazionale, le risorse energetiche, i conflitti militari. In un’intervista del settembre 2005 alla BBC (4), il presidente del Bilderberg dichiara che il gruppo nasce semplicemente perché persone influenti sono naturalmente interessate a parlare con altre persone influenti; parla di common sense, senso comune, che lega fra loro i dirigenti politici ed economico/finanziari interessati a far crescere il libero mercato mondiale; afferma che il fatto che importanti leader politici (Bill Clinton, Tony Blair e tutti i presidenti della Commissione europea) prima di diventare tali abbiano fatto parte del Bilderberg, non significa che il gruppo selezioni la classe dirigente del mondo occidentale ma semplicemente che fa del suo meglio per valutare chi siano gli astri nascenti: appartenere al Bilderberg, dice Davignon, non è un caso nella loro carriera, ma poi dipende dalle loro capacità. Reti informali e private come il Bilderberg hanno contribuito a oliare gli ingranaggi della politica mondiale e della globalizzazione per mezzo secolo, conclude Davignon; e finché affari e politica resteranno reciprocamente dipendenti, queste reti continueranno a prosperare.
Anche per il Bilderberg, l’elenco dei partecipanti alle riunioni è appetitoso, quanto se non più della Trilateral (vedi box Bilderberg).
Dal 1998 inizia ad apparire, al Parlamento europeo, qualche sporadica interrogazione parlamentare (5) che chiede di far luce sulla ragione della presenza di numerosi commissari europei alle riunioni del Bilderberg (tra cui anche Emma Bonino, nel 1998); alcune chiedono anche se Mario Monti e Romano Prodi facciano parte del comitato esecutivo del gruppo. Le richieste di chiarimenti si intensificano negli anni. Le risposte sono sempre le medesime: i commissari partecipano in quanto invitati, e certamente sono invitati in qualità dei ruoli che rivestono; la loro partecipazione resta comunque a titolo personale, e soprattutto non significa che si fanno rappresentanti degli interessi del gruppo Bilderberg all’interno dell’Unione europea né di quelli dell’Unione europea all’interno del Bilderberg. Negazione categorica, invece, per quanto riguarda la partecipazione di alcuno al comitato direttivo, sia del Bilderberg che della Trilateral.
Il progetto dell’Unione europea è ormai giunto al suo compimento. E non è un caso che l’unica unione realmente attuata sia quella economica: non quella politica, né tanto meno quella sociale, dal basso, identitaria. Due ultimi passaggi hanno definito le regole di appartenenza all’Unione: uno già completato, con il Trattato di Lisbona, l’altro in via di attuazione.
Il primo è l’inserimento della possibilità di recesso volontario e unilaterale di uno Stato membro dall’Unione. La logica è economica, e risponde alla regola del più forte: non ce la fai a stare nel gioco? Ne devi uscire. Sia il Bilderberg che la Trilateral, d’altra parte, sono realtà ‘a invito’. Poiché è indubbio che al recesso volontario un Paese possa esserci spinto, con forti pressioni; o, al contrario, che la minaccia dell’uscita possa essere usata nei confronti di quei Paesi i cui governi, recalcitranti per ragioni di consenso, si attardino a varare quelle ‘riforme’ non ancora attuate e profondamente necessarie al libero mercato – pensioni e mercato del lavoro, soprattutto.
Il secondo riguarda il nuovo Patto di stabilità e l’istituzione del Fondo anti-crisi.
Il patto sarà reso ancora più stringente, con un inasprimento delle regole e un meccanismo di sanzioni, per lo Stato che le viola, quasi automatico. Germania e Francia – le economie forti dell’Unione – vorrebbero anche introdurre una sanzione politica: la sospensione del diritto di voto nel Consiglio europeo per i Paesi non in regola con i parametri del Patto.
Il Fondo, oggi provvisorio, sarà reso permanente e vi potranno accedere non solo gli Stati ma anche i privati. L’Unione europea si prepara dunque a sostenere banche, fondi d’investimento e chissà quale altra realtà finanziaria privata, e a farlo con soldi pubblici – la parola ‘pubblico’ suona ormai stonata accostata alla Ue, resta il fatto che in quanto istituzione politica è per definizione pubblica. E lo farà bypassando i governi nazionali. Perché se è vero che degli 85 miliardi di euro concessi all’Irlanda (22,5 dall’Unione e i restanti tra Fmi, prestiti bilaterali internazionali e contributo irlandese proveniente dalle riserve di cassa e dal Fondo nazionale di riserva per le pensioni), 35 vanno nelle casse delle banche private del Paese per evitarne il fallimento, è pur vero che la scelta della forma sotto la quale concedere il denaro è stata finora una prerogativa della politica nazionale: entrare come Stato nella proprietà della banca o semplicemente concedere a prestito.
Le sanzioni politiche e l’istituzione del Fondo, per essere rese operative, necessitano di una modifica del Trattato di Lisbona. Secondo le regole che lo stesso Trattato si è dato, una simile variazione dovrebbe passare attraverso un referendum popolare. Non avverrà, ovviamente. Gruppi di studio sono già al lavoro per trovare i giusti cavilli giuridici e far rientrare le modifiche tra quelle che non devono essere sottoposte alla verifica della volontà popolare.
Poco male, una farsa in meno. La stessa Costituzione europea uscita dalla porta, grazie ai referendum negativi di Francia e Olanda, è poi rientrata dalla finestra praticamente variata solo nel nome: Trattato di Lisbona. Ci eviteremo così il teatrino di un ulteriore inutile esercizio del voto, e prima o poi, magari, si smetterà anche di parlare di democrazia. In modo consapevole, e pessimista.
(1) Cfr. La crisi della democrazia: rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione Trilaterale, Michel Crozier, Samuel Huntington, Joji Watanuki, Franco Angeli, 1977 (con prefazione di Gianni Agnelli)