Jacques Sapir commenta la rivolta dei giubbotti gialli in Francia, le sue cause profonde, le sue caratteristiche e i possibili sviluppi. Non si tratta di una semplice protesta fiscale: dietro c’è una prolungata esasperazione e un forte sentimento di ingiustizia che, al di là di organizzazioni partitiche o sindacali, individua nell’altezzoso presidente, nel suo establishment e nella sua corte dei francesi “bobo” il suo antagonista naturale. Qualsiasi sarà l’evoluzione del movimento, a breve o a medio termine per il governo francese è l’inizio della fine.
di Jacques Sapir, 19 novembre 2018
Il 17 novembre, il giorno dei “giubbotti gialli”, è stato un enorme successo, con oltre 2.000 posti di blocco contro i 1.500 che erano stati annunciati. I dati sulla partecipazione diramati dal ministero degli Interni sembrano ampiamente sottovalutati. Purtroppo questo successo è stato oscurato dalla morte di una manifestante e dai molti feriti, nella maggior parte dei casi dovuti ai tentativi di forzare il blocco con le auto. Questo successo sfida i movimenti politici e i sindacati. Se la maggioranza (LaREM, sigla de La République en marche) con i suoi giornalisti su commissione lo presentano come un fenomeno odioso ed esecrabile, sarebbe invece necessario farsi qualche domanda sul significato di questo movimento e le sue possibili conseguenze.
Il giorno della collera
Questo movimento è stato innescato dall’annuncio di un aumento dei prezzi del carburante. Tuttavia, riflette una rabbia molto più profonda e cause molto più complesse. La questione dei prezzi del carburante rimanda alla cosiddetta “compressione dei consumi” delle famiglie delle classi popolari. Quando non si hanno mezzi di trasporto alternativi e si devono fare ogni giorno decine di chilometri per andare al lavoro, ebbene sì, il costo del carburante rappresenta un pesante onere. Detto in termini economici, in questo caso non vi è alcuna elasticità del consumo rispetto al prezzo.
Tuttavia, un semplice aumento dei prezzi del carburante non avrebbe certamente causato una tale collera se non fosse arrivato in aggiunta ad altri aumenti e ad una pressione fiscale che le classi lavoratrici considerano eccessivamente onerosa. Le riforme fiscali realizzate lo scorso anno dal governo – tra cui la rimozione della ISF (Imposta di solidarietà sul patrimonio) – e le misure adottate dai governi precedenti – tra cui ricordiamo i 44 miliardi di sgravi fiscali del CICE (credito d’imposta per la competitività e l’occupazione) concessi alle grandi imprese in cambio della creazione di qualche posto di lavoro – sono alla base di questa rabbia. Si parla di una “esasperazione fiscale”; in certi casi ci si può arrivare. Ma qui si tratta soprattutto di un senso di ingiustizia fiscale.
A questo aggiungiamo le più che infelici osservazioni di un presidente della Repubblica il quale evidentemente non prova alcuna empatia per le classi popolari, affascinato com’è dagli “start-upper” e dalla ricchezza di coloro che, per usare la sua espressione, “si sono fatti dal nulla”. I termini estremamente dispregiativi che egli ha usato per anni contro le classi popolari sono ben noti. Non sono stati dimenticati da coloro a cui sono stati rivolti. I francesi, si dice, hanno la memoria corta. Invece hanno appena dimostrato l’esatto opposto.
Tutti questi sono stati fattori di coesione di una rivolta emersa dalle profondità della “Francia periferica”, per riprendere l’espressione del geografo Christophe Guilluy. L’odio dei rappresentanti organici della Francia “bobo” (bourgeois-bohème, corrispondente all’italiano radical-chic, ndt) segnala dove si trova la frattura. Questa frattura, e qualcuno non se ne dispiaccia, è una frattura di classe. Gli slogan politici che abbiamo sentito non sono dovuti alla presenza di attivisti e di organizzazioni di partito, ma piuttosto al fatto che queste classi popolari identificano spontaneamente il governo e il presidente come loro nemici.
L’auto-organizzazione, i suoi precedenti, i suoi limiti e il suo futuro
Questa rivolta è stata in gran parte non organizzata, o più esattamente auto-organizzata. È partita da iniziative individuali, e si è amplificata sui social network. Un gran numero di manifestanti del 17 novembre erano alla loro prima esperienza di manifestazione, di lotta collettiva. Questa esperienza, questa forma specifica di socializzazione è di estrema importanza. Perché imparando a coordinarsi, a parlare insieme, queste persone smettono di essere individui isolati. Diventano consapevoli della loro forza. È per questo motivo che questo movimento, eterogeneo nella sua ideologia, i cui partecipanti sono disomogenei e tra loro differenziati, è fondamentalmente un movimento sociale progressista. Perché ogni esperimento sociale che oggi permette agli individui di uscire dal loro isolamento ha un carattere progressista.
Il disorientamento di certi partiti, ma anche di certi sindacati, di fronte a questa manifestazione è stato dirompente. La partecipazione dei dirigenti della France Insoumise, come Jean-Luc Mélenchon, François Ruffin, o Adrien Quatennens, mostra che questo movimento ha compreso la natura profonda di quanto stava accadendo. Bisogna anche dire che alcuni altri partiti hanno sostenuto l’evento, alcuni più timidamente altri con più convinzione. Per riprendere una espressione del mio ottimo collega Bruno Amable, la domanda che oggi si pone è se su questa base si verrà a formare un “blocco anti-borghese” in grado di contrastare il “blocco borghese” ora al potere.
Perché la forza dei giubbotti gialli può essere anche la loro debolezza. Se la mobilitazione vuole essere duraratura, e per affrontare l’intransigenza del governo è chiaro che deve esserlo, dovrà darsi una forma di organizzazione. Ma allora la pressione del governo aumenterà di conseguenza. Basti ricordare come Georges Clemenceau, allora ministro degli Interni, riuscì a manipolare Marcelin Albert, il leader della rivolta dei vignaioli del Mezzogiorno e in particolare della regione di Béziers nel 1907, di cui ci è rimasta la canzone “Gloire au 17ème“, che celebra la fraternizzazione dei soldati del 17° battaglione con i manifestanti. I giubbotti gialli avrebbero quindi interesse a strutturarsi in comitati di azione con coordinamenti regionali e nazionali, consentendo un controllo democratico che vada oltre la preparazione di una giornata di dimostrazione.
Oltre a questo rischio, sempre presente, la mobilitazione deve porsi la questione dell’allargamento del movimento, ma anche delle forme che deve assumere e degli obiettivi che deve darsi. La persistenza dei blocchi e delle manifestazioni nella giornata di domenica 18 novembre, l’estensione ai territori di oltremare, tutti questi sintomi indicano che potremmo essere alla vigilia di qualcosa di molto più importante di una semplice protesta contro le tasse.
La cancellazione dei sindacati e il potenziale di questa mobilitazione
Tuttavia, dobbiamo tornare alla cancellazione dei sindacati e al suo corollario: la mancanza di rappresentanti istituzionali dei giubbotti gialli. Ci sono molte ragioni per questa cancellazione, e il fenomeno della burocratizzazione delle grandi centrali è una di queste. Ma quando il governo fa tutto il possibile per eliminare i sindacati come forze sociali, poi non può lamentarsi dell’assenza di rappresentanti istituzionali nel movimento del 17 novembre, rappresentanti con cui potrebbe, nel caso, negoziare.
Nel maggio del 1968, furono i sindacati, e prima di tutto la CGT, gli artefici del compromesso – l’accordo di Grenelle – che permise al movimento di trovare una via d’uscita non rivoluzionaria. Questi accordi sono stati talmente significativi che la parola “Grenelle” oggi è ripresa in tutte le salse. Sarà difficile che un fatto del genere si ripeta.
Il governo si trova quindi di fronte a un movimento di tipo nuovo, un movimento di protesta che porta direttamente in sé la natura di una protesta politica. A meno di cedere molto velocemente, ed è molto difficile che questo possa accadere, il governo rischia di dover affrontare due gravi ostacoli.
Il primo è che questa mobilitazione continui a montare e che si arrivi, qua e là, a una fraternizzazione con le forze dell’ordine. Questo è lo scenario peggiore per questo governo. Anche se al giorno d’oggi è poco probabile, implicherebbe la trasformazione di questa mobilitazione in un movimento insurrezionale.
Il secondo, più verosimile, è che questa mobilitazione finisca per logorarsi per mancanza di opportunità concrete e per non riuscire a collegarsi con altri settori della popolazione. Ma, anche se questo movimento andrà ad esaurirsi, sarà solo in apparenza. La rabbia, e ora anche l’amarezza, saranno sempre lì, in attesa di un pretesto per riaffiorare, e un’opportunità, soprattutto elettorale, per esprimersi.
Il governo deve dunque affrontare una grande minaccia a breve termine, ma una minaccia altrettanto formidabile a medio termine. Ma qualunque cosa faccia, non si sbarazzerà del pericolo.
E, per gli amatori, le prime strofe della canzone.