lunedì 9 marzo 2020

«Nelle acque di Pavia i super batteri resistenti ai farmaci»

«Nelle acque di Pavia i super batteri resistenti ai farmaci», mentre in Cina una mail avvertiva i medici di tacere....

I risultati dello studio dell’unità di Microbiologia dell’università «Sono immuni agli antibiotici, rischio polmoniti e infezioni»


I super-batteri farmaco resistenti, portatori di polmoniti, infezioni all’intestino e alle vie urinarie, sono in giro per la città. O meglio, nelle sue acque superficiali. Lo prova uno studio fatto da una squadra di ricercatori e professori dell’Unità di Microbiologia del dipartimento di Scienze clinico-chirurgiche dell’università di Pavia, squadra diretta da Roberta Migliavacca e Federica Marchesini.

Lo studio

«Abbiamo analizzato alcuni piccoli rigagnoli e stagni di Pavia – spiega la professoressa Roberta Migliavacca – Siamo andati nella zona della Vernavola vicino a San Genesio, al Vernavolino, alla lanca Montebolone, alla sorgente di viale Lodi e al Navigliaccio di via Brambilla. Abbiamo preso campioni da esaminare, per trovare quanti batteri, e quali, in ambiente naturale antropizzato, presentino resistenze agli antibiotici più comuni, come le penicilline, i beta lattamici, e i carbapenemici. Ciò che abbiamo scoperto è purtroppo preoccupante».

I risultati

Lo studio è stato fatto prendendo campioni d’acqua perché l’acqua è una miscela facile da analizzare, che può inglobare dentro di sé elementi differenti dell’ambiente esterno. Ecco i dati: a Pavia, in una misura tra 61 e mille millilitri è stata trovata una media di 27 specie di batteri farmaco resistenti. Tra questi il 66.6% sono del tipo Escherichia coli, che provoca infezioni intestinali; il 14.8% sono Klebsiella pneumoniae, che può essere causa di polmoniti; al 7.4% si segnala il tipo Citrobacter freundii, motivo di infezioni alle vie urinarie; al 7.4% c’è la Kluyvera intermedia, che dà infezioni ai tessuti; al 3.7% è l’Enterobacter aerogenes, causa ancora di infezioni alle vie urinarie.

Pericolo per tutti

«Le percentuali sono il segnale che l’insorgenza di organismi immuni agli antimicrobici, cioè di super-batteri, sta crescendo – dice Migliavacca – Nei centri urbani come Pavia, dove ci sono cliniche che somministrano ai loro pazienti gli antibiotici per le cure; dove nelle vicinanze ci sono campi agricoli o allevamenti, che usano gli antibiotici per fare crescere le piante e tenere in salute gli animali; è facile che si sviluppino batteri più forti, resistenti ai medicinali. Inoltre, i geni di resistenza si propagano, popolando il resto degli spazi cittadini». «Lanciamo l’allarme - chiarisce la docente - La farmaco resistenza nell’uomo è pure in aumento e, per impedirla, dobbiamo monitorare con attenzione l’utilizzo dei farmaci, diminuirlo. Altrimenti anche chi è sano può incappare in super-batteri e prendersi, ad esempio, una polmonite davvero pericolosa». 

QUELLA STRANA MAIL A WUHAN CHE VIETAVA LA DIVULGAZIONE


La mail spedita il 2 gennaio dall’Istituto di Virologia di Wuhan metteva in allarme la comunità scientifica cinese ed era perentoria su un punto: vietato divulgare. Niente. Nulla deve uscire dal Paese, su canali ufficiali e non ufficiali. Il mondo non deve sapere. «Il comitato sanitario nazionale richiede esplicitamente che tutti i dati sperimentali dei test, i risultati e le conclusioni relative a questo virus non siano pubblicati su mezzi di comunicazione autonomi», si legge nella lettera, cioé i social media. E ancora, «non devono essere divulgati ai media, compresi quelli ufficiali e le organizzazioni con cui collaborano». Si chiede di «rispettare rigorosamente quanto richiesto». E poi si fanno gli auguri. La direttrice dell’Istituto, Wang Yan Yi, la manda ai vari dipartimenti di virologia e ricerca dopo gli ordini di Pechino.

Gli auguri, però, sono fatti al mondo intero, visto che ancora oggi il mondo intero è sconvolto dal coronavirus, che nessuno sa come debellare. Le prime avvisaglie saranno di venti giorni dopo, quando l’epidemia arriva fino negli Usa, con un 35enne americano, che aveva fatto visita ai suoi familiari a Wuhan. Torna a casa malato: il 20 gennaio, in una clinica della contea di Snohomish nello Stato di Washington, il sanitari provano a trattare il paziente con metodi tradizionali, ma lui peggiora. Il 27 gennaio, la decisione di somministrargli un nuovo farmaco ancora in via di sperimentazione e non ancora approvato dalla Fda (l’organo federale di controllo americano). Si chiama «Remdesivir», è un antivirale concepito per contrastare il virus dell’ebola. Così, le condizioni del 35enne migliorano, il 30 gennaio i sintomi spariscono. I risultati vengono pubblicati sul New England Journal of Medicine il giorno successivo.


La «ricetta» non resta entro i confini Usa, ma il caso strano è la tempistica con cui la Cina si interessa al remdesivir. Il 21 gennaio, ovvero sei giorni prima che Washington tenti l’uso del farmaco anti-ebola, l’Istituto di Virologia della dottoressa Wang Yan Yi, avanza una richiesta del brevetto. Il motivo? Trattamento di pazienti malati di «nuovo coronavirus». Una richiesta che il centro scientifico tra i migliori al mondo, che fa parte della Cas (Chinese Academy of Science) ovvero la più grande organizzazione di ricerca del mondo, con 60 mila ricercatori e 114 istituti, pubblicherà solo il 4 febbraio sul suo sito. «Per il farmaco Remdesivir non ancora commercializzato in Cina - dicono - e che presenta barriere alla proprietà intellettuale, abbiamo chiesto un brevetto di invenzione cinese il 21 gennaio in conformità con la pratica internazionale e dal punto di vista della protezione degli interessi nazionali (resistenza al nuovo coronavirus nel 2019)». La Cina offriva, inoltre, di far contribuire le società straniere interessate alla prevenzione e al controllo dell’epidemia cinese (a quel punto uscita allo scoperto in tutto il mondo). «Per il momento non avremo bisogno dell’attuazione dei diritti rivendicati dal brevetto», concedevano i cinesi. «Speriamo di lavorare con società farmaceutiche straniere per ridurre al minimo l’impatto della prevenzione del controllo delle epidemie».


Tante le domande a cui le autorità cinesi dovrebbero rispondere, a partire dall’invio di nascosto della mail. Come ha potuto l’Istituto di Virologia di Wuhan prevedere che un farmaco ancora in fase sperimentale, e non approvato dalla Fda, potesse essere una soluzione a una materia di sicurezza nazionale, quando ancora il 21 gennaio non si erano neppure adottate le misure di sicurezza (quarantena per la città da cui è partito il contagio) necessarie a dichiarare lo stato di emergenza? Nella lettera, proprio nei giorni in cui Li Wenliang denunciava i casi di una nuova Sars, si fa cenno a una «polmonite le cui cause sono ignote». Si trattava del Covid-19? E perché i risultati dei test sul virus avrebbero dovuto non essere divulgati ai media? Tutte questioni a cui Wuhan e il governo di Xi Jinping, nonostante i rumors sempre più insistenti che circolano tra i loro cittadini, si rifiutano di rispondere.



Nessun commento: