mercoledì 26 febbraio 2020

La Norimberga del comunismo. In memoriam di Vladimir Bukovskij


(Renato Cristin) Esattamente quattro mesi fa, il 27 ottobre 2019, si interrompeva il sentiero esistenziale di Vladimir Bukovskij, stroncato purtroppo da un attacco cardiaco, solo una decina di giorni prima del trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, data in cui avevamo pensato di lanciare l’iniziativa alla quale abbiamo lavorato insieme in quelli che sono purtroppo diventati gli ultimi mesi della sua vita.

Gli avevo infatti scritto, nell’estate 2019, ricordandogli l’idea di cui mi aveva parlato nel 2005 a Berlino, di istituire una Norimberga per il comunismo. Egli ne fu entusiasta e decidemmo di redigere insieme un documento (reso pubblico il 7 novembre in una conferenza stampa che si è tenuta a Roma presso il Senato della Repubblica, e in poche settimane abbiamo ricevuto l’adesione di alcune centinaia di personalità di tutto il mondo, esponenti di vari partiti politici e anche di persone estranee alla politica, musicisti e letterati, studiosi e docenti universitari, giornalisti e intellettuali, imprenditori e manager, esponenti delle varie professioni. Ora, nella memoria di Vladimir Bukovskij, la cui scomparsa ci addolora e ci impegna, stiamo proseguendo su quella via, onorandone il cammino di libertà e di verità.

La sua vicenda intellettuale e politica è stata infatti sempre segnata dal bisogno di verità, da quell’istanza che prima ancora di essere scientifica o culturale è di carattere etico, soprattutto nel suo caso, quando si è trattato di denunciare, pur consapevole delle ritorsioni alle quali si sarebbe esposto, quello spaventoso sistema di coercizione e di violenza, di negazione della libertà che il regime sovietico aveva instaurato. Da quando poco più che ventenne, nel 1963, fu arrestato dal KGB, fino alla sua liberazione-espulsione nel 1976, iniziò per lui la tragedia dell’incarcerazione continua, la via crucis dei penitenziari, nella quale al carcere classico si alternarono gli ospedali psichiatrici, quelli duri, manicomi criminali concepiti con sadismo ideologico non per far scontare una pena o per riabilitare, ma per annullare la mente dei detenuti. Ma Vladimir non era né pazzo né delinquente, bensì soltanto un uomo libero, che voleva vivere da uomo libero, all’interno di un apparato che temeva anche soltanto la parola «libertà», perché essa si coniugava con l’altra parola terribile e impronunciabile: «verità». Libertà e verità erano per Bukovskij come armi, ma in mani troppo fragili per poter vincere l’onnipresente controllo del linguaggio e la soppressione di ogni critica, troppo umane per contrastare il disumano potere sovietico. Fu quindi condannato per l’uso che il regime considerava improprio, ma che in realtà era troppo proprio, della libertà e della verità.

Stoicamente e, diciamolo pure, eroicamente, egli ha opposto a quel regime criminale tutta la resistenza che la sua forza mentale e morale poteva fornirgli, ma non sappiamo quanto ancora avrebbe potuto reggere a quella pressione psico-fisica inaudita, finché una mossa della provvidenza fece metaforicamente incrociare l’anti-comunista Bukovskij con l’anti-comunista Pinochet: un intellettuale imprigionato nel Gulag sovietico per aver testimoniato la verità, e un militare disprezzato dagli intellettuali occidentali per essersi assunto il terribile compito di difendere la libertà del suo paese dall’aggressione dell’internazionale comunista fomentata e foraggiata in primo luogo proprio dall’Unione Sovietica. A portare alla liberazione di Bukovskij fu infatti l’accordo fra il segretario generale del PCUS Brežnev e il generale Pinochet per uno scambio alla pari: Bukovskij per Luis Corvalán, un ormai sempre più scomodo dissidente russo per il capo dei comunisti cileni, detenuto da due anni e mezzo per insurrezione armata. Lo scambio avvenne nel dicembre del 1976 a Zurigo, da dove poco dopo Bukovskij raggiunse l’Inghilterra, la città di Cambridge, antichissima sede universitaria e come tale simbolo imperituro di quella libertà e verità che finalmente avevano per lui riacquistato il loro senso originario: semantico e filosofico, storico e scientifico, pragmatico ed etico.

Di quel mondo rovesciato e infernale che Solženicyn ha definito «arcipelago Gulag», Bukovskij è stato infatti una vittima e uno dei grandi accusatori, uno dei maggiori studiosi per esperienza diretta: internato per dodici anni (sia pure non ininterrottamente) nelle carceri psichiatriche, gironi non immaginari come quelli dell’inferno dantesco, ma crudelmente e cruentemente reali, nei quali la vita era un incubo da cui non ci si risvegliava, non ci si poteva svegliare, perché era la realtà stessa.

Quello che Bukovskij ha definito «il sistema della criminalizzazione di ogni opinione che si differenziasse da quella dominante», era il meccanismo per la sistematica distruzione di ogni energia che potesse minacciare il potere comunista, uno strumento di annientamento radicale e totale, come egli affermò con una chiarezza agghiacciante in una memorabile conferenza berlinese del 2005: il sistema comunista e il suo braccio letale, il Gulag, erano «la via per riplasmare l’intero tessuto della società; tutti gli strati della popolazione venivano annientati e rielaborati fino alla morte nel Gulag. E normalmente erano le persone migliori: così, come esito della dittatura comunista, perdemmo i migliori agricoltori, i migliori operai, i migliori artigiani, i migliori intellettuali, i migliori in ogni professione, in ogni ambito di lavoro e di vita. Fu un genocidio; non c’è altro nome per questo».

Usando la parola genocidio, Bukovskij vuole indicare la volontà di annichilimento delle coscienze oltre che delle persone in carne ed ossa, perché un popolo si elimina anche disgregandone la coscienza, distruggendone l’identità. Questo è il senso originario del genocidio comunista, il male che si annida fin nel primo anello della catena genetica della sua ideologia. Questo è il senso autentico del Gulag. Questo è il male che Bukovskij ha svelato e combattuto, e nel suo sforzo titanico sta la grandezza morale prima ancora che culturale o politica del suo impegno civile, di tutta la sua esistenza. In questo egli era socratico e al tempo stesso realista: il bene non si raggiunge semplicemente praticandolo, ma anche opponendosi al male, e poiché quest’ultimo è privo di scrupoli morali, combatterlo è un atto di suprema moralità, perché è espressione di una giustizia universale che, a sua volta, esprime l’essenza ideale della vita sociale e dell’essere umano in generale.

I non pochi squallidi intellettuali che ancora oggi pontificano sulla intrinseca bontà delle intenzioni del comunismo e sugli involontari esiti negativi dei suoi esperimenti di applicazione, sul fine positivo dell’idea comunista e sull’inevitabilità dei mezzi violenti per realizzarla, dovrebbero vivere le esperienze di Bukovskij o almeno leggere le sue opere, insieme a quelle di molti altri dissidenti e perseguitati dei vari regimi comunisti, di quelli implosi e di quelli ancora vegeti sparsi nel mondo.

Il cosiddetto «socialismo reale» non è, come quegli intellettuali sostengono, un aborto della teoria marxista-leninista o la forma istituzionale del carattere dittatoriale dello stalinismo, ma è la forma politico-statuale con la quale tale teoria doveva logicamente e necessariamente concretizzarsi. Quindi, la critica al socialismo reale, cioè all’Unione Sovietica, ai suoi Stati satelliti (ma anche a tutti i governi, anche attuali, ispirati a tale teoria), deve implicare, fin dall’inizio e fino in fondo, la critica dell’ideologia comunista.

Di tutto ciò Vladimir Bukovskij era tanto convinto che, proprio nel corso di quel convegno berlinese del 2005, dedicato alla memoria dei totalitarismi (e che fu l’edizione tedesca del Memento Gulag creato da Dario Fertilio e da Bukovskij stesso), egli mi parlò dell’idea di istituire una Norimberga del comunismo, che potesse portare a un giudizio storico e morale di condanna, analogo a quello che ha giustamente condannato e definitivamente bandito il nazismo dal mondo civile. Un’iniziativa necessaria per depurare la coscienza storica collettiva dalle tossine che l’ideologia comunista ha sparso ovunque e per riequilibrare la coscienza morale del mondo occidentale, di quel mondo libero che troppo spesso, per pigrizia o per malafede, nasconde la verità del comunismo, occultando la criminogena essenza di un’ideologia ancora attiva e letale.

Ecco dunque la motivazione, etica prima ancora che storica e politica, della Norimberga del comunismo, che ora diventa una obbligazione morale anche nei confronti del suo ideatore.

La pagina web per leggere e firmare l’appello è: https://nuremberg.vladimirbukovsky.com/.

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