A un certo punto, a oltre metà dell'intervista e una volta esaurito il tema del referendum costituzionale, il direttore di Repubblica passa alla crisi dell'Europa e il presidente emerito gli risponde esprimendo «forte preoccupazione ma senza cedere alla tentazione di toni catastrofici» parlando quindi di Brexit, populismi, euroscetticismi vari. Allora Calabresi gli chiede, ovviamente, "cosa si dovrebbe fare?" e a quel punto Napolitano risponde così:
Non so se lo avete notato, ma a me ha colpito.
E - giuro, con tutta l'onestà intellettuale di cui sono capace - non per prevenzione o pregiudizio verso Napolitano, sulla cui presidenza ho peraltro un giudizio ambivalente.
Insomma, per farla breve: mi ha colpito che - in nessun modo, in nessun rigo, in nessuna parola, né rispondendo a quella domanda né alle altre - l'ex comunista Giorgio Napolitano abbia ritenuto di fare un accenno, seppur vago, alla questione sociale. Alle disuguaglianze crescenti. Alle élite economiche e finanziarie che, in Europa come negli Stati Uniti, si sono gradualmente mangiate robusti pezzi di democrazia ed enormi fette di ricchezza. Alla condizione di disagio e di solitudine degli ex ceti medi impoveriti. All'atomizzazione degli individui, alla frustrazione delle generazioni che non possono costruirsi un futuro come abbiamo fatto noi.
Niente, non una parola.
La ricetta per rispondere alla crisi dell'Europa è la «riaffermazione dell'autorità delle norme e delle istituzioni comuni». L'idea che queste autorità e che queste norme abbiano provocato un disastro, e quindi abbiano grossi margini di trasformazione e miglioramento, non sembra sfiorare i pensieri del presidente emerito. Né pare sfiorarlo l'idea che alla base di tutto (populismi e "furie iconoclaste", come le chiama lui) ci sia l'esigenza di superare un modello che ha fallito.
Immagino che Napolitano, uomo di solida cultura, abbia letto i libri di Piketty, Atkinson, Stiglitz, Reich, Bauman. Eppure, niente: gli sono scivolati come la visione di un telefilm ambientato su Marte.
Ma, ripeto, non ce l'ho in particolare con Napolitano. E non mi interessa la "character assassination" dell'ex inquilino del Quirinale.
Quello che credo sia interessante, invece, è Napolitano come metafora. Sì, come metafora di una sinistra del Novecento che - già bolscevica, poi eurocomunista, quindi socialista, poi ancora socialdemocratica e infine social/liberale - conclude la sua parabola nella totale amnesia verso la questione sociale.
E mi chiedo, inevitabilmente, se questa amnesia non abbia qualcosa a che fare proprio con la diffusione dei fenomeni che preoccupano Napolitano: populismi, politica della rabbia, furia iconoclasta.
Me lo chiedo, ma temo sia una domanda retorica.
Nessun commento:
Posta un commento