lunedì 22 luglio 2019

SCOMPARSO BORRELLI, L’IMPERATORE DELLE TOGHE ROSSE


MORTO A 89 ANNI L’EX PROCURATORE DI MILANO
GRANDE CONDOTTIERO DI MANI PULITE:
PER I COLLEGHI BALUARDO DELLA MAGISTRATURA
PER BOBO CRAXI «FECE UN GOLPE DI STATO»
LASCIA IN EREDITA’ LA CASTA DEGLI INTOCCABILI

__di Fabio Giuseppe Carlo Carisio ___

Se oggi i togati invischiati nel Palamara-Gate sugli incontri galeotti tra magistrati e politici del Partito Democratico per pilotare le nomine nelle Procure di Roma e Perugia e fare così affidamento su pubblici ministeri amici nel procedimento penale sugli appalti miliardari Consip, in cui è indagato l’ex ministro pd Luca Lotti, non hanno ancora sentito il tintinnare di manette nonostante la gravità dei reati, devono ringraziare lui.

Francesco Saverio Borrelli, fu paladino dell’indipendenza ad oltranza della magistratura, fu l’imperatore delle Toghe Rosse capace di aizzare una spedizione garibaldina dei pm di sinistra contro il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dopo aver eliminato il suo mentore politico Bettino Craxi «con un colpo di Stato» come rileva oggi Bobo Craxi.L’ex procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borelli

Borrelli, ex procuratore generale di Milano, è morto ieri, sabato 20 luglio, all’età di 89 anni, nella sede milanese dell’Istituto Nazionale dei Tumori dove era ricoverato da un paio di settimane. Nato a Napoli il 12 aprile 1930 seguì le orme del padre Manlio, già presidente della Corte d’Appello di Milano, e sulla china di un classico nepotismo di casta fece la sua grande carriera proprio nel Palazzo di Giustizia meneghino, in sfregio a qualsiasi opportunità di evitare rischi di inquinamento ambientale-amicale.

“Resistere, resistere, resistere” fu il motto con cui invitò la magistratura a combattere la riforma della giustizia del Governo Berlusconi orientata verso quella separazione delle carriere tra magistrati pm e giudici che oggi qualcuno rievoca come panacea ed antidoto alle derive di corruzione in atti giudiziari che dai Tribunali del Meridione sono diventate epidemiche fino al Nord Italia insinuandosi persino tra i togati del Consiglio Superiore della Magitratura. Lo ha palesato in modo sconcertante lo scandalo delle toghe sporche che ruota intorno al sostituto procuratore romano Luca Palamara, sospeso dallle funzioni e dallo stipendio, che ha indotto alle dimissioni il consigliere di Csm Luigi Spina ed alla richiesta di prepensionamento del Procuratore Generale di Cassazione, Riccardo Fuzio, per aver aggiornato il collega sulle indagini a suo carico.

Francesco Saverio Borrelli, figlio e nipote di magistrati, trasferitosi a Firenze, ha studiato al conservatorio (la musica, insieme alla montagna, è stata una delle sue passioni) e si è laureato in legge con una tesi su “Sentimento e sentenza” di cui fu relatore fu Piero Calamandrei. Vinto il concorso nel 1955, è entrato in magistratura come giudice civile a Milano, nel palazzo dove il padre era la più alta carica. Passato dal civile al penale, ha presieduto sezioni di tribunale e di Corte d’Assise, giudicando anche le Brigate Rosse. Negli anni Sessanta è stato tra i fondatori della corrente di Magistratura Democratica che portò l’ideologia di sinistra ed il conseguente attivismo politico a manifestarsi apertamente negli ambiti di gestione del pianeta giustizia.

Il 17 marzo 1988 Borrelli è succeduto a Mauro Gresti alla guida della Procura della Repubblica, dove dal 1983 era procuratore aggiunto. E’ diventato noto con Mani Pulite, la maxi-inchiesta che ha coordinato con il vice Gerardo D’Ambrosio, collega ed amico scomparso il 30 marzo 2014 e con il quale, peraltro, si è talvolta trovato in disaccordo sui temi di politica giudiziaria. Dal 1999 al 2002 come Procuratore Generale ha difeso con fermezza il principio costituzionale della indipendenza della magistratura.

I funerali di Francesco Saverio Borrelli si svolgeranno lunedì pomeriggio, a partire dalle ore 14.45 presso la chiesa di Santa Croce in via Sidoni, proprio a pochi passi dai luoghi in cui si è svolta gran parte della vita del capo del pool di Mani Pulite, ovvero il Conservatorio e il Palazzo di Giustizia. Sempre domani, nel Palazzo di Giustizia sarà aperta la camera ardente dalle 9.30 alle 12 per l’ultimo saluto al magistrato.

Il prcuratore capo milanese nel 1992 divenne la stella cometa dei giornalisti d’inchiesta che videro nella sua volontà di fare luce sulla corruzione nella politica e nell’amministrazione pubblica un faro irrinunciabile. Fu il miraggio della pulizia e trasparenza nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica ma si rivelò invece come il demiurgo di una rivoluzione etica faziosamente pilotata dalla quale uscirono distrutti gli esponenti del Partito Socialista, Repubblicano, Socialdemocratico e Liberale insieme ad una parte della Democrazia Cristiana.

Abbacinato dalla sua aura di condottiero nella lotta degli onesti, anch’io fui tra i cronisti piemontesi in trincea per la battaglia di Mani Pulite. Con le mie inchieste diedi un significativo contributo alle indagini della Guardia di Finanza di Vercelli che culminarono il 1° ottobre con il primo arresto di un’intera Giunta Municipale. Perciò conosco bene virtù e vizi di quell’era che pareva destinata ad una depurazione morale della Res Pubblica ma purtroppo si rivelò soltanto come uno strumento di epurazione di alcuni potentati politici, come quello del premier Bettino Craxi, ormai divenuti troppo ingombranti nella geopolitica del Deep International State e delle strategie USA-CIA nella penisola.

Il 17° presidente della epubblica Giorgio Napolitano con il suo successore Sergio Mattarella

Le forche caudine delle confessioni indotte con la carcerazione preventiva falcidiarono solo i “nemici” di una certa parte politica lasciando pressochè integri la nomenklatura di sinistra del Pci e della Dc, da cui nacque il Partito Democratico capace di portare al Quirinale proprio due esponenti di spicco della Prima Repubblica come l’ex comunista Giorgio Napolitano, ritenuto dallo stesso Craxi, durante le deposizioni ai processi, altrettanto consapevole del sistema del finanziamento illecito ai partiti, e l’ex democristiano Sergio Mattarella, erede della cultura politica siciliana del padre Bernardo, addidato da molteplici fonte storiche per le sue contiguità con ambienti mafiosi.

L’attuale Capo dello Stato fu anche “graziato” dall’assoluzione dalle accuse per un’imbarazzante regalia di buoni carburanti ricevuti da un mafioso e quasi tutti democristiani trinacrii scamparono al rischio della Tangentopoli di Palermo, abortita sul nascere dell’inchiesta Mafia-Appalti, per la prematura scomparsa dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fatti saltare in aria insieme alla loro scorta ed alla loro sete di giustizia senza bandiera.

Proprio Mattarella ha espresso cordoglio per la morte di Borrelli “magistrato di altissimo valore, impegnato per l’affermazione della supremazia e del rispetto della legge, che ha servito con fedeltà la Repubblica”. “Un grande capo che ha saputo anche proteggerci, un grande magistrato che ha fatto la storia di questo Paese”. Sono le prime parole di Francesco Greco, capo della Procura di Milano e che faceva parte del pool Mani Pulite, mentre il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso ha rimarcato che “scompare un baluardo resistente a difesa e a tutela dell’indipendenza della magistratura”.

Bobo Craxi, già sottosegretario nel Governo Prodi e deputato Psi, figlio dello statista Bettino Craxi

Di tutt’altra opinione Bobo Craxi, ex deputato Psi e figlio dello statista socialista Bettino, morto esule in Tunisia per sfuggire alle inchieste della Tangentopoli milanese: «Ebbe la funzione di guidare un sovvertimento istituzionale da parte di un corpo dello Stato nei confronti di un altro. Non è una mia opinione personale, i giuristi lo chiamano colpo di Stato. E’ stato protagonista della storia di questo Paese e ha saputo negli ultimi anni esprimere un secco revisionismo su quell’azione che ebbe risvolti politici a tutti noti. Seppe fare un’analisi obiettiva». In riferimento agli anni di Mani Pulite, Bobo Craxi ha aggiunto in una dichiarazione all’Ansa che quei magistrati «svolsero un’azione politica che loro stessi consideravano rivoluzionaria e i presupposti rivoluzionari non hanno il problema di dover applicare i manuali».

Il recentissimo e clamoroso scandalo che ha sconquassato anche il Consiglio Superiore della Magistratra con due dimissionari e quattro autosospesi per gli intrecci tra toghe ed esponenti del Partito Democratico, avvenuto sotto gli occhi del presidente del Csm Sergio Mattarella, conferma l’ennesima volta che gli agenti virali della Prima Repubblica si sono rafforzati nel tempo, anche grazie al senso d’impunità lasciato in eredità alla magistratura, sempre più casta degli intoccabili, ed alla politica di sinistra da Borelli e dai suoi adepti.

Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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“MAFIA-APPALTI-POTERI OCCULTI: FALCONE E BORSELLINO UCCISI PER L’INFORMATIVA CARONTE”



DOCUMENTO ESCLUSIVO COMMISSIONE ANTIMAFIA: LA RELAZIONE CHOC DELL’EX PROCURATORE GRASSO SULL’INCHIESTA DEI CARABINIERI ROS DI MORI SVELA I RETROSCENA DEGLI ATTUALI PROCESSI PER TRATTATIVA STATO-MAFIA E DEPISTAGGI


____Fabio Giuseppe Carlo Carisio____
«Se dobbiamo parlare di aspetti inquietanti, ce ne sono diversi, certamente per la strage di Borsellino. Il mio ufficio, come Procura nazionale, nei limiti dei suoi compiti istituzionali, non si è fermato nel cercare di rivedere il più possibile tutte le acquisizioni, le carte e gli accertamenti fatti non solo per la strage di via D’Amelio, ma anche per tutte le altre, partendo dall’attentato all’Addaura, per proseguire poi con le varie fasi dell’omicidio Lima, della strage di Capaci e di quella di via D’Amelio, per arrivare a Firenze, Roma, Milano e quella – fallita – all’Olimpico».
Queste parole virgolettate sono state pronunciate dall’ex Procuratore Nazionale Antimafia, Pietro Grasso, davanti alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulla Mafia in merito ai Grandi Delitti e sulle Stragi di Mafia 1992-1993. Le frasi dirompenti ed i quesiti inquietanti emersi dalla sua audizione del 22 ottobre 2012 nella 115° seduta dell’organismo bicamerale presieduto da Giuseppe Pisanu, contenuti in un atto già pubblico dell’Archivio del Parlamento della Repubblica Italiana, sono di sconcertante attualità alla luce delle inchieste e dei processi ancora in corso.



Il magistrato Pietro Grasso, procuratore nazionale Antimafia dal 2005 al 2012

Grasso, divenuto Presidente del Senato con il Partito Democratico nella precedente legislatura ed ora senatore eletto nelle file Leu, nel suo lungo colloquio coi parlamentari evidenziò da un parte i limitati poteri della Procura Nazionale Antimafia dall’altra la sua visione “politica” sugli attentati compiuti da Cosa Nostra quale «agenzia di servizi criminali» per conto di «centri occulti di potere». Si tratta di 42 pagine fitte di riferimenti, a volte anche assai circostanziati, a terroristi estremisti esperti di esplosivi piuttosto che alla massoneria fino alla citazione dei rapporti scottanti della Dia e degli Sco che con «la palla di cristallo» previdero «azioni criminali devastanti» indicando però altre piste investigative che rimasero binari morti…
Infine c’è il movente degli interessi convergenti sulla «economia criminale»: un allarme lanciato 7 anni orsono divenuto certezza nell’ultimo rapporto semestrale 2018 della DIA (Direzione Investigativa Antimafia) in cui si evidenzia l’ormai acclarata infiltrazione mafiosa nell’alta finanza ed il riciclaggio di denaro provento di illeciti all’interno di attività pulite nell’ambito turistico di alberghi e ristoranti.


I giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino insieme in una memorabile immagine


Solo alcune parti, poco più di un’ora su 5 di audizione, furono secretate perché ritenute dallo stesso magistrato Grasso inerenti questioni allora oggetto di indagini. L’importanza cruciale di quel resoconto dell’allora Procuratore Nazionale deriva soprattutto dalla circostanza che è una delle rarissime occasioni in cui la cosiddetta Trattativa Stato-Mafia è stata approfondita parallelamente alle inchieste sulla strage di Via Capaci, in cui morirono i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, sua moglie, insieme agli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, e sull’eccidio di Via d’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino con gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

LA TRATTATIVE STATO-MAFIA E IL DOSSIER SCOTTANTE

Ma soprattutto è stato uno dei pochi momenti di analisi del contesto giudiziario siciliano in cui si sviluppò la cosiddetta Informativa Caronte, l’indagine sugli intrecci mafia-appalti avviata dai Carabinieri del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) sotto il coordinamento di Falcone, ripresa da Borsellino per fare luce sull’attentato mortale dell’amico collega, e rapidamente archiviata dalla Procura di Palermo, a due giorni dall’uccisione dello stesso Borsellino, tanto da essere stata ancora di recente oggetto delle recriminazioni della figlia Fiammetta in un’intervista su RAI 1. Nella relazione di Grasso il cerchio tra mafia, imprenditoria, politica, massoneria, deep-state, servizi segreti, si chiude come un anello prodigioso destinato prima o poi a donarci il miracolo della tanto sospirata verità.

Successivamente a quell’inchiesta mafia-appalti, il Palazzo dei Veleni si trasformò in un urna di misteri che a distanza di 27 anni rimbalzano da un processo all’altro. C’è stato quello davanti alla Corte d’Appello di Palermo (che approderà in Cassazione) per cui sono stati condannati nell’aprile 2018 proprio gli autori di quel dossier, l’allora generale dei Ros Antonio Subranni, il colonnello Mario Mori (poi generale di brigata e direttore del Sisde), ed il capitano Giuseppe De Donno per la presunta trattativa Stato-Mafia, da cui però era stato assolto, nel 2015 in un procedimento stralciato, sia il loro presunto “mandante”, l’ex ministro Calogero Mannino, che l’ex Ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza ed al centro della polemica sulla cancellazione delle sue intercettazioni telefoniche con l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano, divenuto presidente della Repubblica e poi emerito nelle fasi processuali.
C’è il dibattimento davanti al Tribunale di Caltanisetta sul depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio con tre poliziotti indagati per calunnia aggravata. Ma c’è pure l’eco dell’inchiesta penale del Tribunale di Caltanisetta che nel 1999 si concluse con il proscioglimento di quattro magistrati per corruzione per atti contrari all’ufficio e quella attualissima della Procura di Messina che, invece, nel mese scorso ha indagato due ex magistrati del Pool Antimafia proprio per i depistaggi nelle indagini sulla morte di Borsellino.
E’ impossibile ricostruire in un solo articolo 27 anni di investigazioni, depistaggi, sparizioni di documenti (come la famosa agenda rossa di Borsellino), manipolazioni di pentiti e processi in parte ancora in essere. Ma è anche assai pericoloso perché il quotidiano online Il Dubbio che dedicò una ricostruzione a puntate all’Informativa Caronte sugli appalti gestiti dal cosiddetto ministro dei Lavoro Pubblici di Cosa Nostra, l’arrestato Antonio Sinio, divenuto poi collaboratore di giustizia, è stato puntualmente querelato…
In attesa di raccogliere informazioni più dettagliate (auspicando di ricevere anche contributi da fonti ufficiali o anonime), in questo primo reportage ci atteniamo pertanto scupolosamente alle parole dell’ex Procuratore Nazionale Antimafia ed a quelle della figlia del giudice ucciso, parte civile nel processo nisseno sul depistaggio. Le ultime dichiarazioni di Fiammetta Borsellino piovono come grandine a ciel sereno contro l’iniziativa politica targata Movimento 5 Stelle di desecretazione degli atti delle Commissioni parlamentari antimafia dal 1962 al 2001: una strategia di trasparenza su documenti assai datati che saranno peraltro viavia oggetto di selezione prima della pubblicazione ragionata in un sito ad hoc del Parlamento.
L’INCHIESTA MAFIA-APPALTI ARCHIVIATA DOPO LA STRAGE
«Oggi, anzi ieri – dice la figlia del magistrato – molti si pavoneggiano di avere desecretato quegli atti. Loro, (Commissione antimafia e Parlamento ndr) puntano agli anniversari per fare vedere che lavorano. Loro, il Csm e la Commissione antimafia, lo fanno il 19 luglio nell’anniversario della morte di mio padre e degli uomini della sua scorta e hanno il sapore della strumentalizzazione mediatica». Parole ben comprensibili visto che le sue precedenti accuse al Csm per l’intenzione di archiviare i procedimenti disciplinari contro i magistrati coinvolti nei depistaggi sulle indagini sulla strage e le sue perplessità sull’archiviazione dell’inchiesta mafia – appalti avevano trovato eco sui media ma nessuna sponda in iniziative politiche o parlamentari volte a fare chiarezza sull’operato delle toghe.
Il quotidiano Il Dubbio ha ripreso le parti salienti dell’intervento di Fiammetta Borsellino su Rai 1, ospite nel febbraio scorso di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Il conduttore le chiese su che cosa stesse lavorando suo padre, cosa c’era di così di occulto tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». Per precisione, il quotidiano Il Dubbio, segnala che l’inchiesta sviluppata a partire dalla nota informativa “Caronte” dei Carabinieri del Ros fu oggetto di una richiesta di archiviazione il 13 luglio, vistata dal procuratore capo di Palermo ed inviata al Gip del Tribunale il 22, ed archiviata da quest’ultimo solo il 14 agosto.






Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice assassinato

Nella stessa trasmissione la figlia del giudice assassinato rievoca i punti dolenti del depistaggio: «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. La Procura di Caltanissetta – ha aggiunto Fiammetta – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto».
La figlia di Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco, scomparso nel dicembre 2018, ex capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto sostituti procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato. Al suo posto, il 15 gennaio del 1993, arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros guidati dal generale Mario Mori ed alla sezione Crimor del famoso Capitano Ultimo, ovvero l’attuale tenente colonnello dell’Arma Sergio De Caprio.

DIFFERENTI INDAGINI SULLA TRATTATIVA STATO MAFIA









La copertina della relazione del procuratore nazionale Pietro Grasso alla Commissione Parlamentare sulle stragi – CLICCA PER LEGGERE IL TESTO INTEGRALE

Il procuratore nazionale antimafia fu invece invitato già nel 2012 dal presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi 1992-1993 a rispondere a precise domande sulle relazioni Stato-Mafia: ci fu la trattativa? In che cosa consistette? Quando iniziò? Chi vi prese parte? Come si sviluppò? Come e perché si concluse? Dopo aver evidenziato i limitati poteri di indagini della Procura Antimafia che può coordinare ma non investigare, se non in caso estremo di avocazione dell’inchiesta per “perdurante e ingiustificata inerzia dell’attività d’indagine”, l’allora magistrato Grasso traccia un quadro generale sulle investigazioni. «Coordinare le DDA di Firenze, Palermo e Caltanissetta comporta avere un quadro globale di quelli che sono, appunto, i filoni investigativi: certamente quelli di Caltanissetta sono rivolti ad individuare i responsabili delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio del 1992; quelli di Firenze i responsabili delle stragi di Firenze, Roma e Milano del 1993; infine, i filoni investigativi della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo sono tendenti ad approfondire i contatti e le relazioni tra esponenti di Cosa nostra e rappresentanti delle istituzioni, rientranti in quella che ormai viene comunemente definita trattativa».
Tralasciando per esigenze di sintesi la terribile strage di via di Georgofili del 27 maggio 1993 in cui morirono cinque civili tra cui due bambine, ci soffermiamo sull’analisi dei differenti esiti delle inchieste siciliane tracciati dall’allora PN. «La posizione di Caltanissetta sostiene che la trattativa abbia avuto un effetto acceleratore sulla strage di via D’Amelio e ne colloca l’inizio nel momento del primo contatto tra l’allora capitano De Donno e Massimo Ciancimino. Questo è quindi l’inizio della cosiddetta trattativa: secondo le valutazioni della Direzione Distrettuale antimafia nissena, ha inizio nei primi del giugno del 1992 ed è poi proseguita con i vari incontri tra il capitano De Donno e l’allora colonnello Mori con Vito Ciancimino. Nell’ambito delle attività investigative, si e` ritenuto da parte di Caltanissetta d’indagare anche Matteo Messina Denaro (latitante – ndr) per il coinvolgimento nella strage di Capaci tenuto conto della partecipazione alla fase ad essa antecedente, che è la presenza del commando su Roma nel febbraio 1992».
«Per quanto riguarda la posizione della direzione distrettuale antimafia di Palermo, ci sono invece delle piccole differenze, che non contrastano con le valutazioni della DDA di Caltanissetta, ma in un certo senso si integrano. Una prima fase della trattativa viene anticipata al momento successivo all’omicidio dell’europarlamentare Lima. Sotto questo profilo, sarebbe quindi stata anticipata l’ideazione della trattativa, che sarebbe stata elaborata da soggetti che … Forse e` meglio segretare questa parte» prosegue la relazione di Grasso che si addentra ad analizzare gli attentati ai magistrati palermitani che cominciano con quello dell’Addaura, nella villa sul mare dove il giudice Giovanni Falcone incontrò i colleghi svizzeri per alcune connessioni nelle rispettive inchieste su riciclaggio e narcotraffico, in quella strategia del giudice palermitano di seguire il denaro degli illeciti…

POTERI OCCULTI SUL FILO ROSSO TRA GRANDI DELITTI E STRAGI

«E` lì che inizia un discorso diverso, che parte sempre dall’intuizione di Falcone sulle menti raffinatissime. Il punto non sono tanto le menti raffinatissime; Falcone completa la frase parlando di centri di potere occulto che ormai sono collegati con la mafia, che è qualcosa di diverso – rivela Grasso alla Commissione – Non si tratta solo di menti particolari; parlare di centri di potere occulto collegati con la mafia vuol dire che ci sono interessi convergenti, già dall’attentato all’Addaura, sull’eliminazione di Falcone e di quello che Falcone rappresenta. Falcone non è solo il nemico numero uno di cosa nostra, non è solo quello che è riuscito a capirne i segreti e la struttura, che è riuscito a far collaborare Buscetta e quindi a fare il maxiprocesso. Non è solo quello. Quella certamente è una fase importante; pero` c’è anche un mondo che gira intorno all’economia criminale, di cui Cosa Nostra è parte integrante, ma che non è composto solo da Cosa nostra. Quindi, il fatto che abbia potuto colpire, magari senza saperlo, o toccare dei nervi scoperti o degli interessi ancora da scoprire (cui si era avvicinato) certamente può rappresentare un’ipotesi da continuare a valutare come un filo rosso che parte dall’Addaura e prosegue successivamente».
Fu il giudice istruttore Rocco Chinnici, prima vittima di un attentato esplosivo a Palermo il 29 luglio 1983, a parlare del filo rosso che lega grandi delitti e stragi della storia come della nascita della Mafia contestualmente ai moti politici garibaldini-mazziniani-massonici per l’Unità d’Italia.

L’INFORMATIVA CARONTE DEI CARABINIERI ROS

E’ invece Grasso a riferire ai commissari parlamentari di «una concomitanza di causali» sollecitato dal presidente Pisanu: «La domanda si riferisce al valore che lei assegna, nel contesto generale, al famoso rapporto dei Carabinieri su mafia e appalti». Ovvero l’informativa Caronte. «Proprio questo sistema criminale, fatto non soltanto dal criminale tagliagole o dalla mafia militare, che più volte è emerso dalle indagini, certamente è portatore di interessi notevoli. Non penso che nei fatti di mafia ci sia o si possa individuare un movente o una causale unica e specifica. Spesso cosa nostra è stata usata come braccio armato per difendere questi interessi» risponde il procuratore nazionale.






L’allora colonnello Mario Mori )in divisa) con il capitano Giuseppe De Donno, autori del dossier Informativa Caronte su Mafia-Appalti in Sicilia

«Quello che si può intuire è che certamente interessi economico-imprenditoriali, soprattutto dell’alta imprenditoria, risultavano minacciati da un’indagine che proprio Falcone aveva avviato insieme al ROS. Tale indagine in una prima fase si era conclusa in maniera non visibile. Avrete sicuramente acquisito gli atti. Ho visto una relazione molto articolata della Procura di Palermo sulle successioni di questo rapporto mafia-appalti – rimarcava Grasso – C’e` stato un primo rapporto molto minimalista, in cui si rappresentava il fenomeno quasi come se si volesse vedere come si atteggiava la procura e che voglia aveva di approfondire e di andare avanti. C’e` stato poi un secondo rapporto, che interviene in un secondo momento, che porterà alla cattura di Angelo Siino, il cosiddetto ministro dei lavori pubblici, che però è una sorta di scudo rispetto a cose molto piu` interessanti che si sarebbero potute scoprire. Quando viene indicato, in un’intercettazione, «quello con la S», si crede di identificare Siino, mentre poi si scoprirà che era l’imprenditore Salamone, che era il centro di tutto un tavolino di appalti con cui si dividevano i grossi appalti siciliani tra le grosse imprese e la mafia, con uno 0,8 per cento per la cassa di cosa nostra tenuta da Riina».
«Questo certamente lascia intravedere dei grossi interessi, così come gli interessi che venivano gestiti da Lima (Salvatore, parlamentare siciliano Dc – ndr) e da Ciancimino (Vito, imprenditore e poi sindaco palermitano – ndr) nell’ambito della spartizione dei più grossi appalti a Palermo e in Sicilia; l’uccisione di Lima significa anche un modo di cambiare completamente tutto – relazionò il magistrato alla Commissione – Lima doveva essere ucciso perchè era un uomo della fazione perdente dei Bontade-Inzerillo, non viene ucciso perché è una gallina dalle uova d’oro che riesce a mettere tutti d’accordo e a gestire questo settore dei pubblici appalti. Finché è utile, viene tenuto; quando non è più utile e il referente politico di Cosa Nostra non produce piu` nulla, si cambia. Quindi l’omicidio Lima, secondo quello che diceva lo stesso Giovanni Falcone, è uno spartiacque. Falcone disse “adesso può succedere di tutto” perché crollava tutto un mondo».

IL DOPPIO DOSSIER PER LE DIFFERENTI PROCURE

Il senatore Luigi Li Gotti, membro della Commissione, introduce quindi la questione del rapporto dei Carabinieri Ros denominato Informativa Caronte «mandato in versione ridotta alla procura di Palermo e in versione integrale a quella di Catania», e del colloquio avuto tra il colonnello Mori e il giudice Borsellino il 25 giugno 1992. «Mori ha riferito che l’oggetto di quell’incontro riservato, per non farsi vedere in procura, era proprio l’impulso d’indagine sul rapporto mafia appalti. Ma il rapporto mafia appalti che conosceva Borsellino era quello incompleto, ove erano omissati i nomi dei politici nazionali, le intercettazioni De Michelis, eccetera».


L’avvocato Luigi Li Gotti. senatore dell’Italia dei Valori e membro della Commissione parlamentare Antimafia nel 2012


Lo stesso Li Gotti menziona poi un atto assai importante al riguardo: «Subranni (comandante Carabinieri dei Ros – ndr) dice di non averne mai avuto conoscenza, ma la procura di Palermo, quando fa le inchieste sul rapporto mafia appalti che manda al CSM, a pagina 41, afferma: “Chi poteva avere insieme la possibilità e l’autorità di epurare le informative, espungendo le fonti di prova riguardanti i politici De Michelis, Lima, Nicolosi, Mannino e Lombardo, prima che venisse consegnata, così epurata, alla procura di Palermo? Perché qualcuno ha deciso di operare queste omissioni? E, più in particolare, le omissioni effettuate nell’interesse di Mannino e Nicolosi sono state allora frutto di preliminari intese con gli stessi Nicolosi e Mannino che avevano contattato i Carabinieri, dicendo di puntare su Siino?». I riferimenti oltrechè al già citato onerevole Dc Lima e all’ex ministro socialista Gianni De Michelis, sono all’ex presidente della Regione Sicilia, Rino Nicolosi, e all’ex ministro Calogero Mannino, assolto nel 2015 nel processo stralcio con rito abbreviato dall’accusa di minaccia a corpo politico dello Stato in quanto presunto regista della trattativa suggerita agli ufficiali dell’Arma (Subranni, Mori e De Donno).
«Non è che viene fatto il rapporto e poi viene epurato. Siccome era un’indagine tutta fondata su intercettazioni, venivano utilizzate per il rapporto soltanto quelle intercettazioni in cui non erano coinvolti, appunto, personaggi politici. Quindi la scrematura avviene nella fase in cui la Polizia giudiziaria deve preparare l’informativa mettendo insieme le intercettazioni – spiega l’ex PN Grasso con una sua ricostruzione personale – Era anche nota la non particolare predisposizione della Procura di Palermo dell’epoca, visto il suo vertice, ad affrontare questo rapporto tra mafia, imprenditoria e politica in maniera assolutamente distaccata ed aggressiva. Ho ritenuto sempre che il primo rapporto, fatto in quel modo, cioè evitando artatamente di inserirvi alcune intercettazioni, soprattutto quelle in cui venivano fuori i rapporti con la politica, sia stato una sorta – per usare un termine francese – di ballon d’essai: vi mando questo rapporto per vedere che cosa ne fate, come lo trattate e se c’è la voglia di andare a fondo e continuare».

IL RAPPORTO MAFIA-APPALTI DEL ROS SMEMBRATO

Ma l’ex procuratore antimafia evidenzia una grave lacuna: «Da quelle che sono le mie notizie, perchè non c’ero allora alla Procura di Palermo, il rapporto è stato parcellizzato, suddiviso e affidato per pezzi ad una decina di sostituti. Insomma è stato smembrato completamente, il che significava, anche agli occhi di un inesperto, un modo per non riuscire a vedere l’insieme: se il rapporto viene parcellizzato, non so secondo quale criterio, se territoriale o altro, e viene affidato a tanti singoli sostituti, l’organo inquirente capisce che non c’è tanta voglia di andare avanti e indagare, lancia in resta, su questo aspetto dei rapporti tra mafia, imprenditoria e politica. Questo è il tema. Tra l’altro, l’indagine andava avanti da anni ed era stata propiziata ed ispirata da Giovanni Falcone. Lui pensava di trovarla già pronta quando sarebbe stato procuratore aggiunto a Palermo, ma i tempi non coincidono, per cui lui va a Roma con Martelli e il rapporto gli perviene più tardi».


Il magistrato Giovanni Falcone accanto al collega Pietro Grasso


«Il primo rapporto è del maggio del 1991 e credo che abbia influito il fatto di cercare una sponda di magistrati che potessero coltivare quelle cose, tra cui il sostituto procuratore Lima (Felice, procura di Catania – ndr). Il rapporto viene portato – scegliendolo – al sostituto che garantiva di poter gestire quella cosa. L’operazione poi non riesce e il sostituto Lima è costretto a spedirlo a chi è competente, perché i suoi superiori o il suo ambiente non gli hanno consentito di fare quello che i Carabinieri volevano fargli fare. Quando il rapporto arriva alla procura di Palermo, si tenga presente il fatto che era stato mandato al Ministro della giustizia, perché non è che fosse arrivato a Falcone: era diretto al Ministero, quindi al Ministro della Giustizia, solo che arrivava tramite gli Affari Penali». Secondo l’ex senatore Li Gotti fu Falcone stesso a rispedirlo a Palermo con una lettera accmpagnatoria che la Commissione non è più riuscita a trovare…

IL MINISTERO ALLERTATO SULLA TANGENTOPOLI SICILIANA

«Io penso che se un magistrato manda un rapporto ad un Ministero, vuol dire che vuole farlo conoscere e mettere sull’avviso il Ministero stesso. Se la notizia esce, non si sa bene chi l’ha fatta uscire; le motivazioni possono essere tante, ma certamente non rientrano tra quelle che cercano di tesaurizzare quel lavoro per poterlo valorizzare al massimo. Un rapporto del genere io lo terrei stretto come fosse un tesoro, anzi, i magistrati, quando sono in possesso di qualcosa del genere, non vogliono nemmeno farlo vedere a quello della porta accanto» stigmatizza Grasso.
«Frattanto le cose maturano e viene fuori la consapevolezza di questo tentativo d’insabbiamento; non dimentichiamo poi tutti i veleni palermitani, perché quel rapporto forse non era conosciuto bene nella sua interezza da qualche sostituto, ma certamente lo era da Siino, che poi sarebbe stato incriminato (anche perché egli stesso ha dichiarato che gli portarono il rapporto), così come alcuni Carabinieri. Dietro quel rapporto vi sono delle storie. Anche due magistrati a Caltanissetta si sono dovuti difendere proprio per le fughe di notizie concernenti quel rapporto – aggiunge l’allora procuratore nazionale – Alla fine, quando si scoprì cosa si voleva coprire, emerse sostanzialmente quella Tangentopoli siciliana che, se collegata a quella milanese, avrebbe veramente sconquassato tante imprenditorie che erano un fiore all’occhiello della Nazione. Quindi, gli interessi erano notevoli. La triade mafia-politica-imp renditoria va avanti da sempre e finché non si romperà in maniera decisa, sarà difficile poter tirare fuori qualcosa di utile».

L’ULTIMO INCONTRO TRA BORSELLINO E MORI

Il procuratore nazionale indugia poi sull’incontro tra Mori e Borsellino in merito all’inchiesta mafia-appalti, ma ancor più sul clima rovente palermitano. «Il problema per i Carabinieri era l’inaffidabilià dell’ufficio che doveva gestire, dirigere le indagini e gli approfondimenti. Di fatto doveva avvenire in una maniera assolutamente segreta e comunque non dimentichiamo le difficoltà incontrate da Borsellino pure nell’interrogare Mutolo (pentito di mafia – ndr): sappiamo quanto c’è voluto, dato che prima per poterlo interrogare ci è dovuto andare con un altro magistrato, perché il procuratore Giammanco gli aveva affidato la zona di Agrigento e Trapani, ma non quella di Palermo».






Il generale Mario Mori poi direttore del Sisde, colonnello dei Ros nel 1991 a quando elaborò l’informativa Caronte

«A Mutolo, che aveva incominciato a manifestare la sua ansia di collaborazione già da tempo, Falcone aveva detto che doveva parlare solo con Borsellino, proprio perché doveva parlare di cose delicate e si fidavano. In un primo momento, infatti, ci va addirittura il procuratore Vigna da Firenze che però, quando comprende che non é materia che può approfondire, decide di lasciarla alla procura di Palermo – ricorda Grasso in audizione – Telefona infatti a Giammanco dicendogli che Mutolo vuole parlare con Borsellino ma che, nonostante questo, Borsellino non può incominciare a raccogliere tranquillamente da solo le dichiarazioni di Mutolo. E` un dato di fatto. Quindi c’era questa situazione in cui si doveva muovere con una certa riservatezza, viste anche tutte le cose che stavano venendo fuori. Era un momento patologico di tutta la situazione».

IL TRITOLO A PALERMO PER IL GIUDICE DA UCCIDERE

«Per quanto riguarda lo stato d’animo di Borsellino, posso avere testimonianze dirette, nel senso che anch’io l’ho incontrato a Roma intorno a quei giorni, il 10 o l’11 luglio. A me apparve veramente colpito, nel senso che mi diceva: “Che te ne pare, è arrivato l’esplosivo anche per me? Gli amici, quelli che si considerano tali, ma tali non sono, mi suggeriscono di lasciare Palermo e di abbandonare tutto. Ma come posso abbandonare tutte queste cose?” C’era un velo di tristezza notevole; quindi non posso che concordare sul fatto che quello fosse lo stato d’animo di Borsellino che conoscevo anch’io». Il procuratore nazionale si sofferma sulla condizione psicologica del magistrato pochi giorni prima dell’attentato: quando aveva saputo per caso del tritolo arrivato nell’isola, come confermato da un rapporto degli investigatori alla Procura di cui fu tenuto all’oscuro.



I magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone (di spalle) con il collega Pietro Grasso


«Finché non ci saranno i pentiti dei palazzi, non potremo mai avere la verità completa. Noi abbiamo dei collaboratori soltanto da una parte, la parte criminale; ma non è che tutto sia conosciuto. Ci sono delle parti che sono riservate all’interno delle organizzazioni segrete, c’è una compartimentazione, non tutti sanno tutto» aggiunge l’ex procuratore rispondendo alle domande di vari parlamentari e poi concentrandosi su quelle del democratico Walter Veltroni su centri occulti di potere e attentati esplosivi.

LA MAFIA BRACCIO ARMATO DEI POTERI OCCULTI

«Ho detto che più volte la mafia ha agito come braccio armato o agenzia, che dir si voglia. Addirittura, ricordo che Pippo Calò a Roma era talmente collegato con la banda della Magliana da essere una agenzia di servizi criminali. E – ripeto – era a Roma. Quindi, il discorso del braccio armato e dell’agenzia, l’ho avuto sempre presente. Questo dà la spiegazione su altre causali. A volte le causali sono convergenti. Altre volte, invece, non vi sono proprio le causali di Cosa nostra e questa è la caratteristica ulteriore, proprio nei casi da lei citati, onorevole Veltroni, degli omicidi del giornalista Pecorelli e del generale Dalla Chiesa. Mi pare che ormai tutto ciò si possa dare per scontato».
L’ex procuratore analizza quindi la “svolta politica mancata” del dopo Tangentopoli con il Governo tecnico (Giuliano Amato premier). «Un depistaggio si costruisce perche´ si deve coprire qualcos’altro: e` questa l’ipotesi principe. Non solo, ma quando verifichi che le cose che dovevi trovare al loro posto non le trovi al loro posto e che certi filoni di indagine non sono stati completamente percorsi e approfonditi, viene qualche sospetto che vi siano una regia e una strategia che qualcuno mette in atto. Nel nostro Paese, nella nostra storia, sono tanti i fatti, gli eventi che si sono creati, in cui si puo` certamente desumere che ci sia qualcosa di non trasparente, che non e` assolutamente visibile e che opera di nascosto. La definizione “centri occulti di potere” sarà generica, ma dà l’idea di qualcosa che opera in parallelo rispetto a Cosa nostra».

Via d’Amelio a Palermo devastata dall’esplosione dell’autobomba che uccise il giudice Paolo Borsellino con cinque agenti della scorta

La descrizione ben si attaglia con quel concetto di Deep State che travalica le istituzioni ed è capace di mettere in correlazioni differenti ambiti criminali per i propri scopi. Ecco quindi sfumare l’ipotesi che le stragi di Capaci e via d’Amelio, e i depistaggi nelle indagini su quest’ultima, siano avvenuti solo per vendette mafiose sul maxiprocesso o per ottenere una revisione del carcere duro del 41 Bis: si tratta di mere concause secondo il PN. Un nodo centrale in molte delle 42 pagine di audizione è rimasto infatti focalizzato proprio sulla cosiddetta Informativa Caronte, depositata il 1° ottobre 1991 dopo il primo rapporto di maggio da quegli stessi Carabinieri del Ros poi finiti sotto inchiesta per la Trattativa Stato Mafia nell’acme di diffidenza e scontro di poteri tra magistratura e forze dell’ordine.

LA TRATTATIVA CHE NON EVITO’ ALTRE STRAGI

Grasso è drastico sull’argomento: « Il fatto accertato qual è? Che questa attivita` c’è stata. La finalità dichiarata era: far finire le stragi. Purtroppo però le stragi sono finite in Sicilia, ma sono continuate poi nel continente. Per quanto riguarda il ruolo del generale Mori, continuo ad insistere su un fatto. Il generale Mori può essere anche condannato. Se è condannato per un fatto accertato o per una serie di indizi, avete la possibilità di avere un’autonoma valutazione. Tuttavia, che porti o meno alla responsabilità sul fatto, io dico che la valutazione, da un punto di vista politico, può essere diversa. Quindi continuo ad insistere sul fatto che non ci si può attaccare o aggregare alle valutazioni di altri, della magistratura in particolare».
Grasso rammentò inoltre che l’attentato del 1993 a Firenze in via dei Gerogofili si trasformò in un eccidio solo per un cambiamento del luogo dell’autobomba causato dai controlli nel posto prescelto vicino agli Uffizi, simbolico come quello delle bombe presso la chiesa di San Giorgio del Velabro a Roma, ma anche la difficoltà di quello di Capaci. «Il meccanismo di azionamento del telecomando che doveva far attivare la carica esplosiva, in tempismo con le macchine che vanno a 120 o 140 chilometri all’ora, non era assolutamente semplice».

DAI TERRORISTI ESPERTI DI ESPLOSIVI ALLA MASSONERIA

Tra i condannati c’era qualcuno con esperienze di artificiere? Chiese Veltroni ottenendo la puntuale risposta dell’ex procuratore nazionale: «Uno che doveva avere queste esperienze e che viene catturato, secondo le dichiarazioni di Brusca, è un certo Rampulla di Mistretta, che però il giorno della strage non c’è. Loro ti diranno che si doveva soltanto pigiare il tasto di un telecomando e che non c’era l’esperto mafioso. Dico mafioso, ma Rampulla era di Ordine nuovo, lì aveva fatto la sua militanza e – non per voler criminalizzare nessuno – la sua esperienza esplosivistica veniva da quella frequentazione. Nelle stragi viene coinvolto un certo Santo Mazzei di Catania, che e` quello che va a mettere il proiettile nei giardini di Boboli a Firenze, e deve fare la prima rivendicazione per il carcere di Pianosa per cominciare a far venire fuori il problema carcerario. Anche lui ha delle precise connotazioni di precedenti politici, che naturalmente lo fanno inserire in un certo entourage. I catanesi non lo volevano in cosa nostra; è Bagarella che riesce a farlo entrare e lo mette sotto la sua protezione: questo ci dicono. C’e` quasi un’infiltrazione e una costruzione che poi diventa operativa».
Ma oltre alle correlazioni con gli ambiti terroristici spuntano ovviamente i soliti ingredienti di una spy-story alll’italiana: «Massoneria, servizi deviati e grande imprenditoria: queste sono le categorie, ormai tradizionali, ma da questo poi passare a dire altro… Se avessimo degli elementi nei confronti di un esponente di qualcuna di queste categorie, il nostro giudizio potrebbe già essere più mirato» commenta Grasso subito interrotto dall’assist del presidente Pisanu: «C’e` qualche loggia ogni tanto, ad esempio quelle del trapanese». «Esatto. C’è la loggia Scontrino e ci sono le logge del trapanese; ma quelle sono una realtà» replica immediato l’allora procuratore antimafia.
Il secondo livello di coperture è quello riguardante gli ambiti della polizia e dei servizi segreti emersi in tutta la loro gravità nel «più grave depistaggio della storia giudiziaria italiana» come i giudici della Corte d’Assise di Caltanisetta del processo Borsellino quater definirono l’inchiesta su via D’Amelio.

I RAPPORTI CHIAROVEGGENTI E LE PISTE SCOMPARSE

«Ci sono stati poi due Rapporti, uno della DIA (del settembre 1993) e l’altro dello SCO (l’unità anticrimine della Polizia), che hanno fatto dei riferimenti precisi alla trattativa e al collegamento tra l’omicidio Lima, la strage di Capaci e tutte le varie situazioni – aggiungeva il procuratore nazionale – Ogni tanto me li rileggo e mi chiedo se avevano la palla di cristallo. Si prevedono azioni criminali di devastante portata che poi avverranno successivamente. Anche il Rapporto dello SCO parla di una strategia delle bombe avviata nel maggio del 1992. Come facevano? Chi ha redatto quel rapporto? Come faceva ad avere queste informazioni? Certamente sono informazioni di natura confidenziale, che servono in via preventiva, per poter riuscire a capire, quantomeno, le cose che succedono ed evitare che se ne verifichino altre più gravi. Poi, però, le piste emerse da questi due Rapporti sono scomparse ed è rimasta solo Cosa nostra. E ` questa la particolarità: queste piste sono state prospettate ma, con la stessa rapidità, non si sono più trovate in altre indagini su questi settori».
«Comunque, mi sembra che sul rapporto mafia-appalti abbiamo fatto emergere che una delle concause potrebbe essere sicuramente l’aver toccato interessi così importanti e così grossi. L’economia criminale è diventata una parte che si nasconde nell’economia legale inquinandola, per cui adesso è difficile riuscire a distinguere le due cose. Pertanto, questo può effettivamente essere uno dei fattori scatenanti» è l’amara conclusione del magistrato antimafia che combacia perfettamente con le analisi della Relazione della Dia al Parlamento sul II semestre 2018.

La strage di Capaci in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con tre uomini della scorta

La sintesi è davvero apocalittica: due giudici onesti sono stati ammazzati con attentanti esplosivi, i Carabinieri del rapporto Mafia-Appalti sotto inchiesta per una trattativa con Ciancimino che gli ufficiali dell’Arma hanno sempre sostenuto rientrare in una normale attività di investigazione e gestione di un collaboratore-informatore per individuare gli altri latitanti di Cosa Nostra. Quella scottante informativa sulle connesioni tra mafiosi ed imprenditori fu archiviata. Ed i magistrati che indagarono allora e gli altri che depistarono poi hanno fatto carriera fino alla pensione e successiva morte per anzianità.
A questa torta nauseante discontri ed intrecci di poterei occulti, che ricorda la recente inchiesta sugli appalti miliardari Consip del Ministero del Tesoro e gli intrighi per le nomine nel Csm, manca solo una ciliegina appassita che giunge dalla storia. Il documento della prima Commissione parlamentare antimafia che svela il nome del politico che accreditò l’imprenditore Vito Ciancimino facendogli far carriera negli appalti ferroviari e spianandogli la futura carriera politica come Sindaco di Palermo. Non è un atto appena desecretato: è un carteggio pubblico dal 1970 che però crea imbarazzo nel leggerlo e ancor più nel citarlo o scriverlo. Perché evoca il nome dell’ex sottosegretario democristiano Bernardo Mattarella, padre dell’attuale presidente della Repubblica, come narrato da Gospa News nella storia sugli Intoccabili Siciliani

Fabio Giuseppe Carlo Carisio

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