giovedì 19 marzo 2020

Capitolo 18 (Parte I): Le ambizioni di controllo globale del Partito Comunista Cinese


Lo Spettro del Comunismo non è scomparso con la disintegrazione del Partito comunista nell'Europa dell'Est

The Epoch Times sta pubblicando la traduzione del libro Come lo Spettro del Comunismo controlla il nostro mondo, dagli autori del libro Nove commentari sul Partito comunista.

Indice dei contenuti

Introduzione

1. Come il Partito Comunista Cinese vuole prendere il posto gli USA e controllare il mondo
a. Il PCC ha sempre avuto come obiettivo la dominazione del mondo
b. Per poter dominare il mondo è necessario sconfiggere gli Stati Uniti
c. Il PCC porta avanti una strategia su più fronti per sovvertire gli Stati Uniti.
d. Il PCC incita all’odio contro gli Stati Uniti mentre si prepara alla guerra con l’America.
e. Il PCC non nasconde le sue intenzioni nelle relazioni con gli USA.

2. Le strategie della Cina comunista per arrivare al dominio mondiale
a. L’iniziativa “Nuova via della seta”: espansione territoriale mascherata da globalizzazione
• La “Nuova via della seta” entra in scena
• La “Nuova via della seta” si espande in tutto il mondo
b. La strategia della “Grande diplomazia della periferia” per escludere gli USA dalla regione dell’Asia Pacifico
• L’Australia è il tallone d’Achille del mondo occidentale
• Il PCC ha nel mirino le nazioni insulari del Pacifico per il loro valore strategico.
• La trappola del debito consente al PCC di prendere il controllo delle risorse dell’Asia centrale
• Il PCC ha il controllo delle risorse di alcuni Stati “cardine”
c. Divide et impera in Europa per creare una spaccatura con gli Stati Uniti.
d. Il PCC esporta il suo “modello cinese” per colonizzare l’Africa
e. L’avanzata del PCC in Sudamerica, invade il “cortile di casa” degli Stati Uniti
f. La Cina comunista non nasconde le sue ambizioni militari


Note bibliografiche
Introduzione

All’inizio del XX secolo i comunisti sovietici presero il potere in Russia attraverso l’uso della violenza. Il successo della rivoluzione sovietica ha spianato la strada all’attore principale nel copione scritto e diretto dallo Spettro del Comunismo: il Partito Comunista Cinese.

Il PCC è stato fondato nel 1921 dagli agenti dell’Internazionale Comunista; nei decenni successivi, l’Unione Sovietica svolse un ruolo di primo piano sulla scena mondiale, confrontandosi con i Paesi democratici occidentali durante il periodo conosciuto come Guerra fredda. I Paesi del Mondo libero consideravano l’Unione Sovietica — e i suoi satelliti nell’Europa orientale — come il principale avversario. Nel frattempo, il PCC aveva campo libero e tutto il tempo necessario per rafforzarsi e maturare.

L’Unione Sovietica è crollata nel 1991, lasciando il regime del PCC da solo sulla scena mondiale. La Cina comunista ha adottato un approccio diverso, volto a evitare i conflitti, invitando il resto del mondo a fare affari grazie a quella che appare essere una economia di mercato capitalista, inserita in un sistema politico totalitario. Come conseguenza molti studiosi, imprenditori e politici occidentali non consideravano (e non considerano) il PCC come un partito comunista, piuttosto come una variante del medesimo.


Non può essere più lontano dalla verità. Il PCC ha spinto al massimo grado le caratteristiche che definiscono l’ideologia comunista — inganno, malvagità e lotta — per modellare un regime che impiega i metodi più dannosi e insidiosi presenti negli intrighi politici, che si sono avvicendati in migliaia di anni. Il PCC seduce gli individui mettendo sul piatto giganteschi profitti, li controlla facendo leva sul potere e li inganna diffondendo menzogne velenose. Il PCC ha affinato le sue tecniche demoniache fino a poterle esercitare con una padronanza mai vista prima.

La Cina è patria di 5.000 anni di Storia ininterrotta e porta con sé una splendida eredità tradizionale che viene ammirata in tutto il mondo. Il PCC ha sfruttato questi elementi positivi: dopo aver preso il potere e “imprigionato” il popolo cinese, ha mischiato il concetto di nazione cinese con il neonato regime comunista. Il PCC ha camuffato le sue ambizioni malvagie, nascondendole con il pretesto di una “ascesa pacifica” della Cina. Per la comunità internazionale è stato, ed è tuttora, difficile comprendere le vere motivazioni del PCC.

La natura essenziale del PCC non è mai cambiata. La strategia economica — invitare i Paesi occidentali a investire in Cina — è da vedere nell’ottica di usare il “nutrimento del corpo capitalista”[1] per “rafforzare il corpo socialista”. L’obiettivo è di stabilizzare il proprio dominio interno e realizzare le proprie ambizioni internazionali, piuttosto che consentire alla Cina di prosperare e rafforzarsi. I metodi utilizzati non tengono conto dell’etica morale di base e dei valori universali.

I Paesi istituiti durante il corso della Storia esistono sulla base della saggezza e della fede nel Divino dei loro fondatori. La società umana deve seguire le norme di condotta stabilite dal Creatore: mantenere un alto carattere morale, proteggere il diritto alla proprietà privata e aderire ai valori universali. Lo sviluppo economico di una società normale deve essere sostenuto da standard morali corrispondenti.


Lo Stato-Partito del PCC ha seguito una strada diametralmente opposta, creando una rapida crescita economica che ha incoraggiato una pericolosa degenerazione morale. Lo Spettro del Comunismo ha messo in piedi il “miracolo economico cinese” per un semplice motivo: grazie alla forza economica di cui dispone, il regime del PCC ha modo di influenzare, convincere e dettare le proprie condizioni al resto del mondo. Tutto questo non va certo a vantaggio del popolo cinese, ma serve a far ardere la fiamma dell’avidità e a rafforzare il culto del denaro e della ricchezza, così che il mondo si ritrovi allineato con il PCC nella cooperazione economica e negli affari internazionali.

All’interno, il Partito Comunista Cinese esercita il suo potere attraverso un insieme di metodi tirannici, uniti ai peggiori aspetti presenti nel sistema capitalista. Il PCC premia il male e punisce il bene: portando i peggiori individui a ricoprire i ruoli più importanti nella società. Le sue politiche amplificano il lato malvagio della natura umana, facendo leva sull’Ateismo per creare uno stato di assoluta degenerazione, uno stato nel quale le persone non hanno più scrupoli morali.

Quando opera all’estero, il regime del PCC pontifica l’ideologia delle “caratteristiche cinesi” — il che significa Comunismo — e offre succulenti incentivi economici per far abbassare la guardia a chi vive nel Mondo libero. L’obiettivo è di portare le persone ad abbandonare i principi morali e chiudere un occhio sui vasti abusi dei diritti umani e sulle persecuzioni religiose del PCC. Molti politici e grandi multinazionali dei Paesi occidentali hanno tradito i loro valori e si sono compromessi di fronte alla promessa di profitti immediati, allineandosi alle pratiche del PCC.

Nei Paesi occidentali aleggia la speranza di poter “aiutare” il PCC nel realizzare una trasformazione pacifica verso uno Stato di diritto. Quello che sta succedendo in Cina da decenni è invece un miglioramento e una modernizzazione superficiali: il PCC non ha mai cambiato la sua natura. L’apertura economica attuata dalla Cina ha causato la degenerazione degli standard morali presenti nei Paesi occidentali.


Il PCC è il principale braccio operativo dello Spettro del Comunismo: è quindi la più grande minaccia a livello mondiale. Nel rafforzare il potere del PCC sulla scena internazionale, lo Spettro del Comunismo riesce a diffondere il suo veleno in tutti gli angoli della Terra e, in ultima istanza, riesce a far deviare gli individui, così che tradiscano i principi tradizionali e il Divino. Anche se le varie strategie del PCC per arrivare a dominare il mondo non dovessero avere successo, lo Spettro del Comunismo avrà comunque raggiunto il suo scopo iniziale: allontanare le persone dai valori morali.

Le tentazioni economiche, le trappole finanziarie, l’infiltrazione nel sistema politico, le intimidazioni militari, la propaganda e la censura, sono tutti meccanismi tuttora in azione. Dovendo fronteggiare questo grave pericolo è necessario analizzare le ambizioni del PCC, le sue strategie e gli obiettivi che intende raggiungere.
1. Come il Partito Comunista Cinese vuole rimpiazzare gli USA e controllare il mondo

a. Il PCC ha sempre avuto come obiettivo la dominazione del mondo

Il PCC non è soddisfatto di essere una potenza regionale, bensì vuole estendere il suo controllo su tutto il mondo. Ciò è determinato dalla caratteristica intrinseca della tirannia del partito: per sua stessa natura, il Partito Comunista si oppone al Cielo, alla Terra e alla tradizione; ricorre alla violenza per distruggere il “vecchio mondo” e mira a distruggere tutti gli Stati, nazioni e classi sociali, giustificandosi con un finto obiettivo, quello di “liberare tutta l’umanità”. La sua missione andrà avanti in maniera costante, fino a quando il mondo non sarà caduto sotto il controllo dell’ideologia comunista. Le teorie messe in pratica dallo Spettro del Comunismo sono per definizione di stampo globalista.


Poiché gli elementi della cultura tradizionale erano una volta molto radicati e svolgevano una funzione potente, lo Spettro del Comunismo ha dovuto adottare un approccio graduale e indiretto. Stalin sosteneva la necessità del “Socialismo in un solo Paese”; più recentemente, il PCC ha adottato il cosiddetto “Socialismo con caratteristiche cinesi”.

Nelle democrazie occidentali i partiti politici detengono il potere con un mandato a scadenza; il PCC ha invece un’autorità incontestata. Stabilisce i suoi obiettivi strategici in archi temporali che abbracciano decenni o secoli. Qualche anno dopo la sua fondazione, nel 1949, il PCC diffuse lo slogan “superare la Gran Bretagna e raggiungere l’America”, prima del lancio del Grande balzo in avanti. Più tardi, a causa di situazioni interne e internazionali sfavorevoli, il PCC ha assunto un basso profilo per decenni.

Dopo il massacro di piazza Tienanmen nel 1989, la comunità internazionale decise di boicottare il regime cinese. Valutando la situazione il PCC concluse di non essere ancora in grado di competere direttamente con gli Stati Uniti; intraprese una strada diversa, quella di nascondere i suoi punti di forza e di rimanere sullo sfondo in attesa, piuttosto che tentare di assumere un ruolo guida sulla scena internazionale. Il PCC non aveva certo cambiato i suoi obiettivi, ma aveva adottato una strategia diverse a seconda delle circostanze, nella sua lotta per raggiungere il vertice dell’egemonia mondiale.

Lo Spettro del Comunismo ha usato un’antica strategia cinese denominata “riparare la strada principale alla luce del sole, mentre si avanza in segreto sulla strada secondaria[per Chencang]”. Anche se la prima superpotenza comunista fu l’Unione Sovietica, il suo ruolo storico sembra proprio essere stato quello di aiutare l’ascesa e la maturazione del regime comunista cinese.


b. Per poter dominare il mondo è necessario sconfiggere gli Stati Uniti

A partire dalla fine della Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti sono il Paese più potente del mondo; svolgono il ruolo di mantenere l’ordine nella comunità internazionale. Qualsiasi paese che voglia cambiare lo stato delle cose deve giocoforza abbattere gli Stati Uniti. Messa in questi termini strategici il PCC considera gli Stati Uniti come il suo principale nemico. Non è una novità, ma qualcosa che va avanti da decenni: il PCC non ha mai smesso di prepararsi per lanciare un’offensiva totale contro gli Stati Uniti.

Michael Pillsbury, direttore del Center on Chinese Strategy, è l’autore del libro The Hundred-Year Marathon: China’s Secret Strategy to Replace America as the Global Superpower [La maratona dei cento anni: la strategia segreta della Cina per sostituire l’America come superpotenza globale]. Nel libro espone come la Cina abbia adottato una strategia a lungo termine: l’obiettivo è di sovvertire l’ordine economico e politico mondiale guidato dagli Stati Uniti, per sostituirlo con il Comunismo entro il 2049, il centesimo anniversario dell’ascesa al potere del Partito Comunista in Cina.

Pillsbury prende come esempio la serie televisiva cinese Silent Contest, prodotta dalla National Defense University of China: l’ambizione di competere con gli Stati Uniti appare in tutta la sua chiarezza. Il processo del PCC di raggiungere la sua “grande causa”, ossia di dominare il mondo, «si troverà inevitabilmente in lotta contro il sistema egemonico statunitense». Per Pillsbury si tratta di «una corsa secolare, che non può essere modificata dalla volontà umana[2]».


Arthur Waldron, professore della University of Pennsylvania ed esperto di Cina, si è espresso in merito durante un’udienza al Senato americano nel 2004, facendo presente come l’Esercito di liberazione del popolo cinese sia l’unico esercito al mondo dedicato alle operazioni contro gli Stati Uniti[3]. La maggior parte delle relazioni diplomatiche e delle attività internazionali del PCC hanno come obiettivo diretto o indiretto colpire gli Stati Uniti.

c. Il PCC porta avanti una strategia su più fronti per sovvertire gli Stati Uniti.

Il PCC ha adottato un approccio globale per riuscire nel suo tentativo di dominare il mondo. Da un punto di vista ideologico, è in “concorrenza” con gli Stati Uniti e con altri Paesi in cui esistono libertà e democrazia. Gli accordi di trasferimento di tecnologia e i furti di proprietà intellettuale sono metodi usati per colmare il divario tecnologico e rafforzare la posizione economica del PCC; da un punto di vista militare si impegna in una rivalità più o meno silenziosa contro gli Stati Uniti, portando avanti una “guerra senza limiti” in luoghi come il Mar Cinese Meridionale; il PCC sostiene apertamente la Corea del Nord, l’Iran e altri regimi canaglia per ostacolare gli Stati Uniti e la NATO.

Nella sfera diplomatica il regime del PCC ha promosso una “grande strategia” a braccetto con il programma “Nuova via della seta”, aumentando la sua influenza internazionale in modo molto rapido, non solo tra i Paesi vicini ma anche in Europa, Africa, Oceania e America Latina. L’obiettivo è costruire una coalizione internazionale guidata dal PCC e isolare gli Stati Uniti.


Il PCC ha diversi metodi per raggiungere questi obiettivi: varie associazioni ed entità sono state istituite appositamente. La Shanghai Cooperation Organization nel 1996, la Asian Infrastructure Investment Bank nel 2015 e l’iniziativa “16+1” con i paesi dell’Europa centrale e orientale nel 2012. Il PCC ha un ruolo principale nei cinque paesi che formano il gruppo BRICS (Brasile, Russia, India, India, Cina e Sudafrica) e promuove vigorosamente l’internazionalizzazione della propria valuta per sostituire il dollaro. Il PCC lavora per arrivare a detenere il controllo degli standard industriali del futuro, come quelli utilizzati per le reti 5G.

Il PCC ha approfittato dei meccanismi democratici e della libertà di stampa esistenti nei Paesi occidentali per svolgere operazioni di spionaggio, attuare censura e diffondere la propria propaganda. È parte della strategia che lavora per manipolare il più possibile gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali, arrivando a imporre cambiamenti dall’interno senza la necessità di usare la violenza.

Gli agenti del PCC lavorano per corrompere e comprarsi funzionari governativi, diplomatici e militari in pensione: gli Stati Uniti sono il loro bersaglio principale. Il Partito usa leve economiche — sia incentivi che disincentivi — per spingere autorità e uomini d’affari americani a fare pressioni per aprire le porte ai comunisti cinesi.

Le grandi aziende high-tech sono un esempio potente: la loro cooperazione con la censura su Internet che il PCC attua in Cina e con il Grande Firewall, costringe e incentiva molte delle comunità cinesi d’oltremare a diventare quinte colonne in territorio americano.


Inoltre si infiltra nei think tank e nei dipartimenti accademici occidentali, manipolando queste istituzioni ad autocensurarsi quando sono in ballo argomenti delicati: il fine è portarlo ad adottare la posizione del Partito Comunista. Da non dimenticare che alcune aziende cinesi, controllate o influenzate dal PCC, hanno investito molto denaro a Hollywood.

Il PCC sviluppa la sua influenza in vari Paesi, così da poter contenere gli Stati Uniti da un lato; dall’altro lato erge delle roccaforti sul suolo americano, nascondendo il loro vero scopo in modo da poter attaccare gli Stati Uniti dall’interno. Il PCC ha organizzato una vasta rete di agenti, consapevoli o meno, per creare spaccature nella società americana.

d. Il PCC incita all’odio contro gli Stati Uniti mentre si prepara alla guerra con l’America.

L’ideologia del PCC si basa sull’odio. Il patriottismo che promuove comporta l’odio per il Giappone, per Taiwan, per i tibetani, per le minoranze etniche dello Xinjiang, per i credenti religiosi, per i dissidenti e, soprattutto, per gli Stati Uniti. C’è un detto nel mondo internet cinese: “Per i piccoli problemi, la colpa è del Giappone; per i grandi problemi,la colpa è degli Stati Uniti”. Incitando l’odio contro presunti nemici stranieri, il Partito placa il furore dell’oltraggio che si diffonde nel pubblico nel momento in cui si manifesta una crisi di qualsiasi tipo.


Prima che i comunisti cinesi prendessero il potere in Cina, erano soliti elogiare gli Stati Uniti per i rapporti amichevoli che intratteneva con la Cina e il sistema democratico americano. Tuttavia, dopo che il PCC ha instaurato il suo regime, ha immediatamente approfittato delle sofferenze che la Cina ha subito nella storia moderna, così come del desiderio del popolo di avere una nazione forte. Il PCC si è dipinto come il salvatore della Cina alimentando l’odio contro l’America e altri Paesi stranieri.

Il PCC non si preoccupa se il popolo cinese viva o muoia, né dell’integrità territoriale della Cina o dello sviluppo sostenibile a lungo termine della nazione cinese. La malvagità dello Spettro del Comunismo si manifesta nei modi in cui ha perseguitato il popolo cinese, ha tradito la sovranità cinese, ha distrutto la moralità e la cultura tradizionale cinese e ha rovinato il futuro della Cina.

Incitando i cittadini cinesi a odiare i Paesi esteri il PCC raggiunge diversi scopi: si propone come salvatore della Cina, così da legittimare il suo dominio brutale; in secondo luogo, pungola il sentimento nazionalista cinese nei momenti di crisi, riuscendo a distogliere l’attenzione pubblica; terzo, ottiene sostegno pubblico alle ambizioni espansionistiche, giustificandole come azioni necessarie per correggere le umiliazioni subite dall’Occidente; quarto, utilizza l’odio per preparare psicologicamente il pubblico sulla necessità di guerre future e per desensibilizzare gli individui alle atrocità che commette e commetterà.

Il PCC ha indottrinato e inquinato le menti delle giovani generazioni: l’odio nei confronti degli Stati Uniti viene usato come carburante per far avanzare i macchinari che dovrebbero portare a superare e rimpiazzare la leadership americana, per poi dominare il mondo. Il PCC potrà servirsi dei giovani cinesi all’estero per infiltrarsi nelle istituzioni dei Paesi occidentali, Stati Uniti in testa.


Le reazioni di giubilo che si sono verificate in Cina, in seguito agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, sono da prendere come un indicatore che la propaganda messa in piedi dal PCC stava facendo buoni progressi. Nei principali forum online che trattano di politica in lingua cinese il sentimento ricorrente è espresso da “La Cina e gli Stati Uniti devono entrare in guerra”; un altro indizio di come il PCC abbia avuto successo nell’instillare l’odio verso gli Stati Uniti. Si tratta di una mobilitazione graduale e a lungo termine per arrivare alla guerra, un obiettivo volutamente pianificato e portato avanti sistematicamente dal PCC.

La propaganda di odio condotta dal PCC non si limita alla Cina. A livello internazionale, sostiene apertamente regimi canaglia e organizzazioni terroristiche nella lotta contro gli Stati Uniti, fornendo loro assistenza finanziaria, armi e attrezzature, basi teoriche e addestramento tattico. Il PCC si è messo a capo di un asse di Stati uniti da un sentimento antiamericano, guidando le forze globali dell’antiamericanismo.

e. Il PCC non nasconde le sue intenzioni nelle relazioni con gli USA.

Nel 2008, mentre gli Stati Uniti erano alle prese con la crisi finanziaria, la Cina ha ospitato le Olimpiadi a Pechino: i Giochi olimpici più costosi della Storia. Il regime si è vestito a festa per presentarsi sulla scena internazionale.


Come risultato della globalizzazione economica, l’industria manifatturiera statunitense è andata in declino negli anni precedenti alla crisi economica. Lo slogan «L’America sopravvive prendendo in prestito denaro da noi cinesi» In quegli anni un ritornello presente nella propaganda del PCC, così come «L’America sta per crollare, la Cina ne prenderà il posto», un qualcosa a cui tutti i mezzi di comunicazione controllati dal PCC hanno dato eco: questo tipo di propaganda è arrivata anche in Occidente, diffondendosi grazie ai media e agli “esperti” occidentali.

A partire dal 2008 gli Stati Uniti hanno mostrato segni di declino: sia sul piano economico che per la forza militare che per la stabilità politica. Sul fronte economico, l’amministrazione che governava gli Stati Uniti stava spingendo per approvare l’assistenza sanitaria universale, espandere la portata dei benefici sociali, mettere le questioni climatiche al centro del dibattito politico, rafforzare il monitoraggio ambientale e porre restrizioni alle attività produttive. La cosiddetta “industria verde” americana è stata sconfitta dai prodotti made in China, gli attacchi della Cina nel commercio internazionale e il furto di proprietà intellettuale dilagavano: la produzione statunitense continuava a scendere in picchiata.

Di fronte a queste tendenze, molti hanno semplicemente accettato come dato di fatto la storia che il PCC stava diffondendo: la Cina era in ascesa e l’America era in declino. La spesa militare degli Stati Uniti è diminuita e hanno adottato una posizione diplomatica più debole. Sul fronte politico interno, l’ideologia socialista era in aumento, le divisioni sociali stavano aumentando, le istituzioni democratiche erano diventate un campo di battaglia per dispute fini a sé stesse: l’efficacia operativa del governo ne ha risentito. Il PCC ha paragonato questa situazione caotica con il proprio sistema totalitario, dipingendo la democrazia americana come un qualcosa di ridicolo.

Nel 2010, la Cina ha superato il Giappone ed è diventata la seconda economia mondiale. Nel 2014, secondo le statistiche della Banca Mondiale — calcolate sulla base della parità di potere d’acquisto — il PIL della Cina avrebbe potuto superare quello degli Stati Uniti[4]. Il PCC considerava il declino dell’America come irreversibile e che i rapporti di forza sulla scena internazionale si stessero spostando a suo favore. Ha quindi messo da parte la strategia di nascondere la sua forza e ha puntato apertamente e direttamente a mettere le mani sull’ordine internazionale, guidato dagli Stati Uniti. Nelle dichiarazioni ufficiali del PCC, negli editoriali dei media che controlla e nelle analisi degli “esperti cinesi” iniziò a trasparire con sempre più forza un “sogno cinese”, volto a espandere l’influenza del PCC nel mondo.


Nel 2012, durante il XVIII Congresso nazionale, il PCC ha presentato il concetto di costruire una “comunità condivisa per l’umanità del futuro”, mentre nel 2017 ha organizzato un grande raduno politico per rievocare, in maniera distorta, la miriade di regni che vengono a rendere omaggio alla corte imperiale cinese. Il PCC ha pubblicamente espresso il suo desiderio di esportare il “modello cinese”, inteso come ideologia comunista, nel resto del mondo.

L’ambizione del PCC è di prendere le redini nel mondo e di stabilire un nuovo ordine mondiale secondo le regole del Partito. Il PCC si sta preparando sotto vari aspetti da decenni: se questo nuovo ordine mondiale si stabilisse davvero, si verrebbe a formare un nuovo asse del male, un avversario ancora più minaccioso per il Mondo libero dell’alleanza dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale.
2. Le strategie della Cina comunista arrivare al dominio mondiale

a. L’iniziativa “Nuova via della seta”: espansione territoriale mascherata da globalizzazione

• La “Nuova via della seta” entra in scena


Nel 2013 il PCC ha presentato ufficialmente l’iniziativa definita “zona economica della via della seta e via della seta marittima del XXI secolo”, riassunta in One Belt, One Road [Una cintura, una via]. La strategia prevede l’investimento di centinaia di miliardi di dollari per realizzare grandi infrastrutture come ponti, ferrovie, porti e centrali energetiche in decine di paesi. Si tratta del più grande progetto di investimento nella Storia umana.

La “cintura” si riferisce a tre direttrici su terra: la prima parte attraversa l’Asia centrale e la Russia per arrivare in Europa e al Mar Baltico; la seconda parte dalla Cina nord-occidentale taglia l’Asia centrale e l’Asia occidentale fino a raggiungere il Golfo Persico e il Mediterraneo; la terza parte dalla Cina sud-occidentale, attraversa la penisola dell’Indocina e termina nell’Oceano Indiano.

La “strada” si riferisce invece alla Via della Seta Marittima del XXI secolo, che prevede due tragitti: il primo parte dai porti cinesi nel Mar Cinese Meridionale, attraversa lo Stretto di Malacca e arriva in Europa attraverso l’Oceano Indiano; il secondo si dirige verso l’Oceano Pacifico meridionale.

L’iniziativa One Belt One Road è costituita da sei corridoi economici: il “China-Mongolia-Russia Economic Corridor” (CMREC), il “New Eurasian Land Bridge” (NELB), il “China-Central and West Asia Economic Corridor” (CCWAEC), il “China-Central and West Asia Economic Corridor” (CICPEC), il “China Pakistan-Economic Corridor” (CPEC), e il “Bangladesh-China-India-Myanmar Economic Corridor” (BCIMEC).


Il corridoio NELB sarà basato su collegamenti ferroviari tra la Cina e l’Europa, denominato China Railway Express. I trasporti commerciali dalla Cina all’Europa impiegano oltre 30 giorni via mare, mentre su rotaia siamo attorno ai dieci giorni. Non sorprende quindi che il China Railway Express, entrato in funzione nel 2011, sia un componente importante della One Belt One Road.

Il corridoio CPEC è un piano congiunto del governo pakistano e del PCC: comprende un’autostrada che collega la città cinese di Kashgar, che si trova nella Provincia dello Xinjiang, con il porto di Gwadar in Pakistan, sull’Oceano Indiano. La Cina ha ottenuto il diritto di gestire il porto nel 2013; essendo la porta d’ingresso del Pakistan al Golfo Persico e al Mar Arabico, il porto di Gwadar occupa una posizione strategica critica. Si collega allo Stretto di Hormuz, attraverso il quale passa il 40% del greggio mondiale per raggiungere il Mar Arabico.

Il quadro generale della Via della Seta Marittima è quello di costruire una serie di porti strategici, così’ da ottenere il controllo del trasporto marittimo. Nei Paesi finanziariamente solidi, le società cinesi entrano in partecipazioni azionarie o joint venture. Nei paesi finanziariamente più deboli, il PCC investe direttamente grandi somme di denaro a livello locale, per poi prendersi il diritto di gestione dei porti stessi.

Solo nel 2013, le imprese cinesi hanno ottenuto il diritto di gestire almeno diciassette porti o terminali marittimi. La società China Merchants Port Holdings Company Limited ha acquistato il 49% del patrimonio netto della Terminal Link SAS, società francese con base a Marsiglia che gestisce scali marittimi in diversi Paesi: con questo acquisto la società cinese ha ottenuto diritti operativi in quindici terminali presenti in otto Paesi di quattro continenti[5].


Questi porti e terminali comprendono Anversa e Zeebrugge in Belgio; il terminal del canale di Suez in Egitto; Kumport a Istanbul, Turchia; il porto del Pireo in Grecia; il porto di Pasir Panjang a Singapore; il più grande porto dei Paesi Bassi (Euromax Terminal Rotterdam, che è chiamato anche “la porta dell’Europa”); il terminal Khalifa Port ad Abu Dhabi, Emirati Arabi Uniti; il porto di Vado in Liguria; il porto di Kuantan nello stretto di Malacca, in Malesia; il porto di Gibuti in Africa orientale; e il canale di Panama.

Oltre agli investimenti, il Partito Comunista Cinese utilizza anche le trappole del debito per ottenere il controllo di posizioni strategiche. Lo Sri Lanka non ha potuto pagare il suo debito alle imprese cinesi: nel 2017 si è trovato costretto a firmare contratto di locazione della durata di 99 anni con una società cinese, trasferendo l’utilizzo del porto di Hambantota.

Nel 2018 il PCC ha lanciato anche la versione digitale della via della seta: la Digital Silk Road, con l’intenzione di rimodellare il futuro sviluppo dell’infrastruttura che sostiene internet a livello mondiale. La Digital Silk Road è considerata una fase avanzata del progetto One Belt One Road, ne è il suo più recente sviluppo. Comprende principalmente la costruzione di infrastrutture in fibra ottica, servizi di informazione digitale, telecomunicazioni internazionali e commercio elettronico.

Molti Paesi coinvolti nella “Nuova via della seta” non hanno un sistema di pagamento online sviluppato: è un altro obiettivo del PCC, introdurre e gestire una propria struttura per il commercio elettronico, facendo leva su servizi di pagamento come Alipay, gestito da Alibaba, tagliando fuori la concorrenza delle aziende occidentali. Il PCC è al lavoro per introdurre il Great Firewall — il sistema di censura e sorveglianza che filtra il traffico internet in Cina — nei Paesi che aderiscono al One Belt One Road, assieme ai sistemi di sorveglianza di massa già adottati in Cina.


L’ampiezza della strategia del PCC è testimoniata dagli investimenti che ha attuato nelle infrastrutture a livello globale. Secondo un’inchiesta del New York Times del novembre 2018, il PCC ha costruito o sta costruendo oltre quaranta oleodotti e altre infrastrutture relative alla gestione del petrolio e dei gas naturali; oltre duecento ponti, strade e ferrovie; quasi duecento centrali per l’energia nucleare, a gas naturale, a carbone e delle energie rinnovabili; una serie di grandi dighe. Il PCC ha investito direttamente in 112 paesi, la maggior parte dei quali appartengono all’iniziativa One Belt One Road: i suoi tentacoli hanno avviluppato il mondo[6].

Mentre la “Nuova via della seta” sta prendendo forma, gli sforzi del PCC per soppiantare gli Stati Uniti sulla scena mondiale si sono moltiplicati: lo yuan cinese viene promosso aggressivamente come moneta internazionale assieme al sistema di pagamento online cinese. Le reti di telecomunicazioni Made in China (tra cui il 5G) vengono presentate come il futuro, una meta verso la quale il mondo deve dirigersi. L’obiettivo è quello di stabilire un insieme di standard controllati dal PCC, svincolati dagli attuali standard occidentali.

• La “Nuova via della seta” si espande in tutto il mondo

Nella fase iniziale dell’iniziativa One Belt, One Road, il PCC si è concentrato sui Paesi vicini alla Cina, per poi avvicinarsi all’Europa. Molto rapidamente il PCC ha esteso il suo raggio d’azione all’Africa, all’America Latina e persino all’Oceano Artico, arrivando di fatto a coprire il mondo intero. Inizialmente la Via della Seta Marittima era costituita da due sole vie; una terza via — la Via della Seta sul Ghiaccio, o Via della Seta Polare — è stata aggiunta per collegare l’Europa attraverso l’Oceano Artico.


Anche prima di far partire la ”Nuova via della seta” il PCC aveva già investito molto in Africa e America Latina. Questi Paesi fanno ora parte della struttura principale dell’iniziativa, che ha permesso al PCC di espandere più rapidamente la sua portata finanziaria e militare in Africa e in America Latina.

L’obiettivo primario dell’iniziativa One Belt One Road è di avere a disposizione dei canali di distribuzione per esportare l’eccesso di produzione: la costruzione di infrastrutture come ferrovie e autostrade serve proprio a questo. Il PCC intende raggiungere anche un obiettivo complementare: entrare dalla porta principale nei Paesi ricchi di risorse naturali. L’intenzione del PCC è di aumentare le proprie esportazioni, non certo di aiutare i Paesi che si trovano lungo tracciato della Nuova via della seta a creare un proprio settore manifatturiero; per quale motivo il PCC non vorrebbe aumentare la produttività interna?

La vera ambizione del PCC è riuscire a utilizzare promesse economiche come un cavallo di Troia per entrare in un Paese, per poi arrivare a controllare le leve della finanza e della politica. Il Paese diventerà di fatto una colonia del PCC all’interno della strategia globalista comunista. Corruzione a tutti i livelli, aumento del debito pubblico e repressione totalitaria arriveranno di pari passo con la presenza del PCC: è una trappola che non porterà prosperità economica ai Paesi che vi partecipano.

Qualcosa sta cambiando: un certo numero di Paesi si sono allarmati e stanno rivalutando o cercando di porre un freno all’iniziativa One Belt One Road. Il PCC ha persino ammesso che dovrebbe essere più trasparente e modificare gli accordi economici — fortemente criticati a livello internazionale — che si sono poi trasformati in una trappola del debito. Nonostante questa apparente apertura a migliorare la situazione, la strategia del PCC non può essere dimenticata o sottovalutata. Le imprese occidentali private operano secondo principi di mercato — quindi di ricerca di stabilità per arrivare al profitto — per questo non rimarranno in un Paese considerato politicamente turbolento. Al contrario le aziende collegate al PCC seguono la visione del Partito: non si preoccupano di questi aspetti, ma lavorano pensando al prossimo secolo, non tengono conto delle perdite a breve termine.


Ciò che il PCC vuole raggiungere è di avere governi filocomunisti a esso fedeli, così da avere sostegno in seno alle Nazioni Unite. Il PCC vuole assumere un ruolo di egemonia in Asia, Africa e America Latina; vuole confrontarsi con il mondo libero e sostituire l’America come potenza numero uno.

Il PCC è perfettamente disponibile a far ricadere il costo di questa strategia sulla popolazione cinese e sull’ambiente, un qualcosa che le aziende private occidentali non potrebbero e non vorrebbero fare. In questa guerra per conquistare il mondo il PCC ha a sua disposizione le risorse umane date da centinaia di milioni di cinesi, considerate pedoni da sacrificare sulla scacchiera, per far avanzare il Partito.

Steve Bannon, ex stratega della Casa Bianca, interpreta l’iniziativa One Belt One Road alla luce delle tesi geopolitiche del terzetto Mackinder-Mahan-Spykman, che hanno avuto influenza a inizio 1900 su come un impero potesse arrivare a dominare il mondo

Sir Halford Mackinder era un influente geografo/storico britannico, la sua visione era che «Chiunque governi il cuore dell’Asia centrale arriverà a comandare sull’Eurasia; chi governa l’Eurasia comanda il mondo». Alfred Mahan, era uno storico navale americano che ha plasmato la strategia degli Stati Uniti per dominare i mari, estendendo la logica dell’impero marittimo britannico di controllare le rotte marittime e i canali, arrivando così a controllare il commercio globale. Nicholas John Spykman da far suo coniò il termine “Rimland”, per indicare la fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia; la considerava più importante della terraferma. per questo riteneva che chi fosse stato in grado di controllare la Rimland avrebbe governato sull’Eurasia, e di conseguenza avrebbe controllato il mondo intero[7].


Le valutazioni di Bannon riflettono la crescente vigilanza del mondo occidentale verso le ambizioni del PCC, riflesse nella Nuova via della seta: l’iniziativa non si limita ad ottenere i diritti sulle rotte terrestri, sulle rotte marittime e sui grandi porti. Il PCC vuole piantare la propria bandiera ovunque sia possibile; diversi Paesi usciti nati dal processo di decolonizzazione hanno vissuto o stanno tuttora vivendo un vuoto di potere e incertezze nel processo democratico: un invito a nozze per il PCC. Nei Paesi che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica, così come quelli dell’Europa dell’Est che ruotavano attorno alla sua orbita, la sovranità interna era molto debole: sono diventati una preda per il regime del PCC; altri Paesi con una situazione socio-politica turbolenta — Paesi dai quali gli investitori occidentali tendono a stare lontani — sono anch’essi caduti nelle trappole piazzate dal PCC; per finire i Paesi dalle piccole dimensioni e/o con una economia di mercato non propriamente stabilizzata — ma che occupano posizioni geografiche strategiche — sono tutti nel mirino del PCC.

Anche alcuni Stati che una volta erano saldamente nel campo democratico occidentale sono entrati nell’orbita del PCC, dopo che la loro economia si è indebolita e il debito pubblico è aumentato. Geopoliticamente il PCC sta gradualmente circondando gli Stati Uniti, arrivando a controllare l’economia di altri Paesi; l’obiettivo è quello di emarginare l’influenza americana e arrivare a stabilire un ordine mondiale separato, incentrato sulla tirannia comunista. Non è un approccio nuovo: le radici affondano nella vecchia strategia di occupare le campagne per circondare le città, cha ha portato il PCC alla vittoria nella guerra civile cinese.

b. La strategia della “Grande diplomazia della periferia” per escludere gli USA dalla regione dell’Asia Pacifico

In cosa consiste la cosiddetta “Grande diplomazia della periferia” attuata dal PCC? Gli stessi ideologi del partito la definiscono così: «La Cina confina con quattordici Paesi su terra, e se guardiamo al mare ci sono altri sei paesi vicini. Oltre a questo, a est abbiamo l’area dell’Asia-Pacifico e a ovest l’Eurasia. L’estensione copre due terzi della politica internazionale, dell’economia e della sicurezza internazionale. Questa “diplomazia della perfieria” è più di una semplice strategia regionale… possiamo parlare di una “Grande” strategia[8]».


• L’Australia è il tallone d’Achille del mondo occidentale

Giugno 2017: due grandi gruppi mediatici australiani — Fairfax Media e ABC (Australian Broadcasting Corporation) — trasmettono il documentario Power and Influence: The Hard Edge of China’s Soft Power [Potere e influenza: la forza del soft power cinese] frutto di cinque mesi di indagini e di lavoro. Il documentario solleva immediatamente preoccupazioni in tutto il mondo: descrive le modalità tramite le quali il PCC riesce a infiltrarsi, a influenzare e a controllare vari aspetti della società australiana[9]. Sei mesi dopo, Sam Dastyari, membro del Partito Laburista australiano, annuncia le sue dimissioni come membro del Senato. Le dimissioni di Dastyari sono legate alle accuse di aver accettato mazzette da gruppi industriali cinesi legati al PCC, in cambio di dichiarazioni ufficiali a sostegno di Pechino sulle dispute territoriali nel Mare cinese meridionale. La questione è considerata di grande importanza nel Paese, e le sue dichiarazioni si sono scontrate con l’indirizzo politico del partito a cui apparteneva[10].

Settembre 2016: un altro media australiano, SBS News, manda in onda un pezzo che rivela le donazioni di un uomo d’affari cinese verso i gruppi politici australiani, con l’intento di influenzare gli accordi commerciali tra Australia e Cina. Negli ultimi anni i media australiani hanno raggiunto accordi con i media statali cinesi per trasmettere in Australia i contenuti forniti loro dai media cinesi[12].

Nel 2015 il governo australiano concede a una società cinese strettamente legata all’Esercito di Liberazione del Popolo (PLA) di mettere la firma sul contratto di gestione del porto di Darwin, dalla durata di 99 anni. L’area portuale rappresenta un’importante base militare, necessaria per proteggersi da potenziali attacchi provenienti da Nord. Richard Armitage, ex vice segretario di Stato americano, ha detto di essere rimasto sbalordito dall’accordo, e che gli Stati Uniti erano preoccupati per come la situazione avrebbe potuto cambiare nella zona[13].


Nel 2017, il libro Silent Invasion: China’s Influence in Australia [Invasione silenziosa: l’influenza della Cina in Australia] dell’autore Clive Hamilton è stato rifiutato tre volte dagli editori australiani per paura di ripercussioni cinesi. Dopo molte considerazioni, il terzo editore contattato ha accettato di pubblicarlo. L’atto di autocensura ha suscitato una diffusa preoccupazione tra gli australiani per il livello di influenza che la Cina ha raggiunto nel loro Paese[14].

Molte persone si chiedono la ragione dietro gli sforzi del PCC in Australia. Quale potrebbe essere l’importanza strategica di infiltrarsi, influenzare e controllare l’Australia?

Dicembre 2017: il National Endowment for Democracy (NED) un think tank american pubblica una indagine intitolata Sharp Power: Rising Authoritarian Influence [L’aumento dell’influenza autoritaria]

Il documento termina con la conclusione che il PCC sia al lavoro per influenzare e cambiare il mondo politico e accademico australiano, tramite la corruzione e l’infiltrazione, con l’obiettivo principale di indebolire l’alleanza tra gli Stati Uniti e l’Australia.


Sempre nel 2017 il governo australiano pubblica l’annuale Foreign Policy White Paper. Nel documento si legge che «gli Stati Uniti sono stati la potenza dominante nella nostra regione dal termine della Seconda guerra mondiale. Oggi la Cina sta insediando la posizione americana[16]». Malcolm Davis, un analista presso l’Australian Strategic Policy Institute, ritiene che Pechino stia aumentando la sua influenza in Australia per raggiungere un obiettivo: porre fine all’alleanza del Paese dei canguri con gli Stati Uniti[17].

L’Australia può essere considerata un banco di prova per le operazioni cinesi nell’ambito della cosiddetta “Grande diplomazia della periferia”[18], una strategia iniziata nel 2005, quando Zhou Wenzhong, allora ministro cinese degli Esteri, arriva in Australia insieme a una delegazione. Il suo incontro con i principali diplomatici cinesi presenti in Australia serve a informarli sui passi da compiere: il primo obiettivo di includere l’Australia all’interno della “periferia” è di assicurarsi che il Paese sia un fornitore stabile di materie prime per lo sviluppo economico cinese per i successivi 20 anni. La meta di lungo termine è quella sfasciare l’alleanza USA-Australia. A coloro presenti al meeting venne assegnato il compito di comprendere e presentare come il PCC avrebbe potuto influenzare in modo ampio l’economia, la politica e la cultura in Australia[19].

Il PCC utilizza la sua forza economica per constringere l’Australia a concedere terreno su una serie di questioni militari e umanitarie. Si tratta del solito approccio del PCC: per obbligare a firmare accordi di “cooperazione” si premura di coltivare relazioni personali tramite leve economiche; allo stesso tempo diffonde minacce e ricatti più o meno velati[20].

Dopo anni di indagini Clive Hamilton è giunto alla conclusione che «le principali istituzioni australiane — dalle scuole alle università, dalle associazioni di categoria ai mezzi di comunicazione, dai settori minerari all’agricoltura e al turismo, dai porti alle infrastrutture elettriche, dai politici locali fino ai grandi partiti di Canberra — sono state tutte infiltrate e trasformate da un complicato sistema di controllo, attuato e diretto dal PCC[21]».


In seguito alla crisi finanziaria del 2008 è apparso chiaramente come l’Australia sia ben disponibile a rifornire il PCC di materie prime; la ragione ufficiale è che il PCC ha offerto sostegno economico durante la recessione. Hamilton sostiene che la ragione per la quale la capacità di infiltrazione e l’influenza del PCC possono essere così efficaci è perchè «noi australiani abbiamo permesso che tutto ciò accadesse sotto i nostri occhi, occhi resi ciechi dal pensiero che solo la Cina potrà garantire la prosperità economica del Paese; per questo motivo non osiamo andare contro le prepotenze di Pechino[22]».

Nonostante la consapevolezza dell’influenza del PCC all’interno delle società occidentali sia chiara, in modo particolare riguardo alle comunità cinesi all’estero, una grande parte di esperti occidentali agisce in maniera ingenua, ritenendo che le azioni del PCC siano sì “negative”, ma che abbiano l’unico scopo di zittire le voci contrarie: attivisti politici e perseguitati religiosi all’estero. Hamilton non è dello stesso avviso, ritiene che Pechino abbia messo in azione un meccanismo di azioni “positive“: utilizza gli immigrati cinesi per cambiare la struttura della società australiana e allo stesso tempo cerca supporto tra gli occidentali per aumentare la propria influenza nel loro Paese. La meta finale è ancora quella di arrivare a diventare prima una potenza nella regione asiatica, poi a livello globale.

Allo stesso modo il PCC è al lavoro per aumentare la sua presenza e il suo controllo sulla Nuova Zelanda. Anne-Marie Brady, esperta di politica cinese presso l’Università di Canterbury, ha pubblicato un articolo dal titolo Magic Weapons [Armi magiche], nel quale prende la Nuova Zelanda come esempio per spiegare come il PCC riesca a infiltrarsi nelle società occidentali e a influenzarle. Nell’articolo si parla di come numerosi membri del Parlamento neozelandese siano di origine cinese e mantengano stretti rapporti con le organizzazioni vicine al PCC, come le associazioni commerciali[24].

Poco dopo la pubblicazione dell’articolo l’ufficio di Anne-Marie Brady è stato saccheggiato; prima dell’accaduto aveva ricevuto una lettera minatoria, poche parole ma molto chiare: «La prossima volta tocca a te[25]».


Il PCC sta lavorando costantemente per tenere i politici neozelandesi al guinzaglio: quelli che sono ancora in attività ricevono trattamenti principeschi durante i viaggi in Cina; i politici che invece sono in pensione ricevono offerte di lavoro, lautamente retribuite, nelle aziende cinesi. L’obiettivo è lo stesso: far sì che queste persone influenti rispettino le direttive del PCC, quando si tratta di influenzare la società neozelandese [26]

• Il PCC ha nel mirino le nazioni insulari del Pacifico per il loro valore strategico.

Nonostante le loro dimensioni, le nazioni insulari del Pacifico hanno il valore strategico fondamentale di poter servire come basi marittime. La loro superficie totale è di soli 53.000 chilometri quadrati (20.463 miglia quadrate) rispetto alle loro zone economiche esclusive (ZEE) sull’oceano, che misurano 19.000.000.000 chilometri quadrati (7.335.941 miglia quadrate) – un’area che supera di sei volte le dimensioni delle ZEE cinesi. Lo sviluppo di maggiori legami con le nazioni insulari del Pacifico è una componente. pubblicamente riconosciuta, della strategia militare del PCC.

Attualmente le sfere di influenza nell’area del Pacifico sono suddivise tra Stati Uniti, Giappone, Nuova Zelanda, Australia e Francia. Per sviluppare le sue capacità marittime nell’Oceano Pacifico, il PCC deve prima costruire buone relazioni con le nazioni insulari, poi spingere lentamente la presenza degli Stati Uniti. [27]


John Henderson, un professore neozelandese, e Benjamin Reilly, un professore in Australia, hanno detto che l’obiettivo a lungo termine del PCC nella zona del Pacifico meridionale è quello di prendere il posto dell’America come superpotenza. [28] Il PCC ha investito ingenti somme di denaro in Melanesia, Micronesia e Polinesia per assistere queste nazioni insulari nella costruzione di infrastrutture. Ha promosso il turismo locale e reso disponibili piattaforme di e-business. Sta superando l’attività americana nella zona. Ben Bohane, un autore australiano, ha avvertito che l’America sta perdendo la sua influenza sull’Oceano Pacifico a favore della Cina. [29]

Considerando la cosiddetta “assistenza finanziaria” e i massicci investimenti effettuati dal PCC, il comportamento arrogante dei suoi funzionari è un riflesso preciso del PCC stesso: si sente forte e inattaccabile; tratta le altre nazioni nello stesso modo in cui tratta il popolo cinese, che si trova sotto un controllo totalitario. L’obiettivo del PCC è di esigere obbedienza dai Paesi che ritiene inferiori. Naturalmente, non ci si può aspettare che il PCC rispetti i regolamenti e i protocolli internazionali.

Al vertice APEC tenutosi alla fine del 2018 in Papua Nuova Guinea, il comportamento maleducato e incivile dei funzionari cinesi ha sconvolto gli addetti ai lavori e la popolazione locale. I funzionari cinesi hanno senza mezzi termini impedito ai giornalisti — compresi quelli della Papua Nuova Guinea — di intervistare i partecipanti a un incontro tra il leader cinese Xi Jinping e i leader delle nazioni insulari del Pacifico. Al contrario, hanno chiesto che tutti i giornalisti facessero riferimento ai comunicati stampa a marchio Xinhua.

I funzionari cinesi hanno anche richiesto un incontro privato con il ministro degli esteri della Papua Nuova Guinea con l’intento di bloccare qualsiasi comunicato ufficiale che potesse mettere in cattiva luce le pratiche commerciali sleali del PCC. Poiché un incontro privato con i funzionari cinesi avrebbe influenzato la sua posizione imparziale, il ministro ha respinto la richiesta.


Un altro esempio: i funzionari cinesi si sono messi a urlare a tutta voce durante il vertice, accusando gli altri Paesi di stare complottando contro la Cina. Un alto funzionario statunitense presente ha descritto il comportamento dei rappresentanti del PCC all’APEC come “Tantrum diplomacy”, la diplomazia del capriccio[30].

• La trappola del debito consente al PCC di prendere il controllo delle risorse dell’Asia centrale

Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il PCC ha compiuto grandi sforzi per sviluppare e consolidare le sue relazioni con i Paesi dell’Asia centrale: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. La strategia del PCC in Asia centrale può essere valutata da diverse angolazioni. Da un lato l’Asia centrale è una via di accesso su terra inevitabile, nel progetto di espansione cinese verso ovest. Da aggiungere che, costruendo infrastrutture per il trasporto merci in tali Paesi, la Cina può anche espandere i suoi interessi commerciali in Asia centrale. Da un altro angolo la Cina mira a prendere il controllo delle risorse naturali, tra cui carbone, petrolio, gas e metalli preziosi che si trovano in abbondanza in questi Paesi. In terzo luogo, controllando i Paesi dell’Asia centrale, geograficamente e culturalmente vicini allo Xinjiang, la Cina può rafforzare la sua stretta sulle minoranze etniche nello Xinjiang.

Sebbene il PCC non abbia annunciato pubblicamente l’obiettivo di controllare l’Asia centrale, ha già raggiunto la posizione di attore principale nella regione. L’International Crisis Group, un think tank con sede a Bruxelles, ha pubblicato nel 2013 un rapporto in cui si afferma come la Cina stia rapidamente diventando una potenza dominante in Asia centrale, approfittando dei disordini sociali presenti nella regione.


Di fatto Pechino considera l’Asia centrale sia come base di approvvigionamento per materie prime e risorse, che come un mercato per piazzare i suoi prodotti a basso prezzo e dalla scarsa qualità. Nel frattempo, il PCC ha messo sul piatto milioni di dollari in “investimenti” e “aiuti” in Asia centrale, in nome del mantenimento della stabilità nello Xinjiang[31].

Una vasta rete di autostrade, ferrovie, vie aeree, infrastrutture e oleodotti ha collegato strettamente la Cina con l’Asia centrale. L’attore principale della costruzione di autostrade, ferrovie e linee di trasmissione elettrica in Asia centrale è la China Road and Bridge Corporation (CRBC) — assieme alle ditte alle quali appalta specifici lavori — che opera su alcune delle zone e terreni più pericolosi e complessi al mondo, costruendo nuove strade per il trasporto di merci cinesi verso l’Europa e il Medio Oriente, nonché verso i porti del Pakistan e dell’Iran. In appena 20 anni, tra il 1992, quando sono iniziate le relazioni diplomatiche tra la Cina i cinque Paesi dell’Asia centrale, e il 2012 il volume totale degli scambi commerciali tra la Cina e l’Asia centrale è cresciuto di oltre cento volte[32].

In Asia centrale il PCC ha investito pesantemente in grandi progetti infrastrutturali a gestione statale. Alcuni esperti hanno si sono resi conto che tali investimenti potrebbero costituire le fondamenta per un nuovo ordine internazionale, in cui la Cina avrebbe un ruolo dominante. Da questo punto di vista, l’Asia centrale, come l’Australia, è un altro banco di prova per la rivoluzione concettuale che il PCC intende portare nella sfera dei rapporti diplomatici[33].

Pechino tende a sostenere i leader locali nei Paesi dell’Asia centrale, autoritari e corrotti: gli investimenti sono ovviamenti benvisti e ritenuti vantaggiosi dai circoli delle élite locali. Il rapporto dell’International Crisis Group rende noto come ciascuno dei governi dell’Asia centrale sia debole, corrotto e pieno di tensioni sociali ed economiche. I grandi progetti infrastrutturali promossi da Pechino non sono legati solo a prestiti massicci, ma anche ad approvazioni e permessi ufficiali, basati su interessi acquisiti. Ciò provoca e aggrava la corruzione in questi regimi.


In Uzbekistan, Islam Karimov, ex segretario del Partito Comunista della Repubblica Socialista Sovietica Sovietica Uzbeka in URSS, è stato presidente del Paese dal momento dell’indipendenza nel 1991 fino alla sua morte nel 2016. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, l’Uzbekistan è stato sotto il dominio autoritario di Karimov per un altro quarto di secolo. Nel 2005, le forze governative si sono scontrate con i manifestanti nella città orientale di Andijan, causando centinaia di morti. Il PCC si è posto come un fermo sostenitore di Karimov, sostenendo con fermezza l’Uzbekistan e gli altri paesi della regione nei loro sforzi per salvaguardare lo status quo presente nel Paese[35].

Se sommiamo le fragili strutture economiche presenti nei Paesi dell’Asia centrale agli ingenti prestiti della Cina, il risultato è spingere questi Paesi a cadere nella trappola del debito cinese. Il Turkmenistan soffre di una grave crisi economica, con un tasso di inflazione annuale di oltre il 300%, una disoccupazione stimata superiore al 50%, gravi carenze alimentari e una corruzione dilagante. La Cina è l’unico cliente del gas turkmeno, [36] e anche il maggior creditore del suo debito estero, che si attesta sui 9 miliardi di dollari (stimato al 30% del PIL nel 2018)[37] Appare quindi probabile che il Turkmenistan non abbia potuto avere altra scelta che non sia quella di cedere i suoi giacimenti di gas naturale alla Cina, per pagare i suoi debiti [38]: ha ceduto il cuore della sua economia a Pechino.

Il Tagikistan ha preso in prestito oltre 300 milioni di dollari dalla Cina per costruire una centrale elettrica. Incapace di pagare il suo debito, il Paese ha ceduto la proprietà di una miniera d’oro alla Cina per appianare il debito contratto[39].

Anche l’economia kirghisa è in bilico: i grandi progetti infrastrutturali realizzati dal PCC hanno fatto cadere questo piccolo Paese nella trappola del debito. È probabile che il Paese debba destinare una parte delle sue risorse naturali per ripagare il debito. Il Kirghizistan ha anche avviato una collaborazione con Huawei e ZTE per costruire strumenti di comunicazione digitale, al fine di rafforzare il controllo governativo sulla società; Huawei e ZTE di pari passo lasciano al PCC un accesso [backdoor informatico NdT] per poter estendere la sua sorveglianza in questi Paesi[40].


L’economia kazaka dipende dalla produzione di petrolio greggio e i proventi del petrolio in dollari statunitensi vengono utilizzati per acquistare prodotti cinesi a basso costo.Pechino ha approfittato del vuoto di potere in seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica per entrare nel settore energetico kazako. Nonostante il settore petrolifero la base industriale di questa nazione è fragile: con il flusso di prodotti cinesi a basso costo l’industria manifatturiera kazaka è crollata[41].

Un altro motivo per l’espansione del PCC in Asia centrale è quello di reprimere i dissidenti uiguri che vivono in Asia centrale. La Carta dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), firmata dalla Cina, consente di estradare i sospetti verso i Paesi membri. Un Paese membro può anche inviare i propri funzionari in un altro Paese membro per condurre un’indagine. In questo modo, il PCC estende la sua repressione degli uiguri all’estero e arresta i dissidenti uiguri che si sono rifugiati in altri Paesi[42].

• Il PCC ha il controllo delle risorse di alcuni Stati “cardine”

La “Grande diplomazia della periferia” del Partito Comunista Cinese ruota attorno a specifici Paesi, considerati cardinali per la loro importanza. Questi Paesi vengono poi utilizzati come rampa di lancio per raggiungere obiettivi strategici nell’intera regione. Secondo i think tank del PCC, gli “Stati cardine” non solo hanno un notevole potere regionale ma Pechino ha la capacità di influenzarli; non hanno conflitti diretti con il PCC in termini di interessi strategici, e non condividono stretti interessi con gli Stati Uniti. Oltre all’Australia e al Kazakistan,altri esempi sono l’Iran in Medio Oriente e il Myanmar nel sud est asiatico.


In Medio Oriente, l’Iran è il Paese a ricevere la maggior parte degli investimenti cinesi. L’Iran è un importante produttore di petrolio nella regione ed opposto ideologicamente all’Occidente a partire dalla fine degli anni ’70: è un partner economico e militare perfetto per il PCC. Pechino infatti intrattiene strette relazioni economiche e militari con l’Iran fin dagli anni ’80.

Nel 1991, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha scoperto che il PCC aveva esportato uranio in Iran, in seguito a un accordo nucleare segreto, firmato dai due Paesi nel 1990[44]. Nel 2002, quando è venuto alla luce il progetto iraniano di arricchimento dell’uranio, le compagnie petrolifere occidentali si sono ritirate dal Paese, dando al PCC l’opportunità di capitalizzare la situazione e coltivare relazioni ancora più strette con l’Iran[45].

Il volume degli scambi bilaterali tra il PCC e l’Iran è cresciuto in modo esponenziale tra il 1992 e il 2011, aumentando di oltre cento volte in diciassette anni, nonostante un rallentamento significativo a causa delle sanzioni internazionali sul regime iraniano[46]. Grazie all’assistenza del PCC, l’Iran è stato in grado di superare l’isolamento internazionale impostogli e di sviluppare un ampio arsenale di missili balistici a breve e medio raggio. Il PCC ha rifornito l’Iran di mine navali e altri mezzi di attacco rapido, aiutando la Repubblica islamica a creare un progetto segreto di armi chimiche[47].

Un altro “cardine” utilizzato dal PCC è il Myanmar, paese limitrofo con una lunga fascia costiera, il che fornisce un accesso strategico all’Oceano Indiano. Il PCC considera l’apertura di un canale Cina-Myanmar come un passo strategico per ridurre al minimo l’attuale dipendenza dallo Stretto di Malacca[48]. Come l’Iran anche il Myanmar si è ritrovato isolato dalla comunità internazionale, la causa è lo scarso rispetto dei diritti umani da parte del governo militare birmano: il movimento democratico del 1988 venne infatti schiacciato con la forza militare. L’anno successivo, a Pechino, dell’esercito aprì il fuoco sui dimostranti a favore della democrazia, in piazza Tienanmen.


I due governi autoritari, entrambi condannati dalla comunità internazionale, hanno trovato un terreno in comune e da allora hanno goduto di strette relazioni diplomatiche. Nell’ottobre 1989 Than Shwe — capo di Stato del Myanmar dal 1992 al 2011 — è dietro un accordo con la Cina per una partita di armamenti pari a 1,4 miliardi di dollari[49]. Gli affari proseguono negli anni ’90: aerei da combattimento, navi pattuglia, carri armati, veicoli per il trasporto di truppe, mezzi antiaerei e missili[50] Il sostegno militare, politico ed economico del PCC era di fatto l’ancora di salvezza della giunta militare birmana, nella sua lotta per la sopravvivenza[51].

Nel 2013 il PCC ha investito 5 miliardi di dollari per acquistare il greggio proveniente dal Myanmar e per realizzare un gasdotto volto a passare tra i due Paesi: un importante condotto strategico cinese per l’importazione di petrolio e gas naturale; sebbene abbia incontrato una forte opposizione popolare in Myanmar, nel 2017 è entrato in funzione con l’appoggio del PCC. Investimenti simili includono la diga di Myitsone (attualmente sospesa a causa dell’opposizione locale) e la miniera di rame a Letpadaung. Nel 2017, il commercio bilaterale tra Cina e Myanmar è stato di 13,54 miliardi di dollari. Il PCC sta attualmente progettando di creare un corridoio economico Cina-Myanmar, mantenendo il controllo del 70% delle quote. Il corridoio economico dovrebbe includere un porto per l’accesso commerciale all’Oceano Indiano [53] e un’area industriale nella zona economica speciale di Kyaukpyu[54].

c. Divide et impera in Europa per creare una spaccatura con gli Stati Uniti.

Durante la Guerra fredda l’Europa si trovava al centro del confronto tra il Mondo libero e la fazione dei Paesi sotto lo Spettro del Comunismo. L’America e le nazioni dell’Europa occidentale mantennero una stretta alleanza attraverso l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord, meglio conosciuta come NATO. Dopo la fine ufficiale della Guerra fredda, il ruolo dell’Europa come attore di importanza economica e politica iniziò a declinare.


Per poter creare un’apertura tra l’Europa e gli Stati Uniti, nella quale incunearsi, il PCC ha adottato la classica strategia divide et impera, adattandola alle condizioni locali, così da sviluppare gradualmente la propria influenza in Europa. Negli ultimi anni, le differenze tra l’Europa e gli Stati Uniti su molte questioni importanti sono diventate sempre più evidenti. Le attività del PCC hanno svolto un certo ruolo in questo senso.

Dopo la crisi finanziaria del 2008 il PCC ha sfruttato il disperato bisogno di investimenti esteri di cui alcuni Paesi europei necessitavano; ingenti somme di denaro sono piovute dalla Cina, in cambio di alcuni compromessi: questioni che riguardano il diritto internazionale e i diritti umani. I principali Paesi sono stati Grecia, Spagna, Portogallo e Ungheria. Il PCC ha utilizzato questo metodo per creare ed allargare le spaccature tra i Paesi europei, raccogliendone poi i frutti.

Dopo la crisi del debito sovrano in Grecia il PCC ha deciso di investire massicciamente in quel Paese: denaro in cambio di influenza politica. La Grecia è diventata una delle aperture principali utilizzate dal PCC per aumentare la propria influenza in Europa, nel giro di pochi anni il PCC ha ottenuto una concessione commerciale per utilizzare due terminal presso il porto del Pireo, il più grande porto greco, per ben 35 anni; oltre a questo ha rilevato il principale punto di trasbordo del porto.

Nel maggio 2017 la Cina e la Grecia hanno firmato un accordo triennale che comprende ferrovie, porti, costruzione di reti aeroportuali, reti elettriche ed investimenti in centrali elettriche. L’investimento del PCC ha già avuto un ritorno politico[55]: come membro dell’Unione Europea la Grecia si è ripetutamente opposta alle proposte dell’UE che criticano le politiche del regime cinese e la situazione dei diritti umani. Molte dichiarazioni ufficiali dell’UE in questa direzioni sono rimaste sulla carta e non si sono concretizzate a causa della Grecia. Nell’agosto 2017 un editoriale pubblicato sul New York Times considerava che «la Grecia ha ceduto alle lusinghe della Cina, il corteggiatore più focoso e ambizioso da un punto di vista geopolitico[56]».


Nel 2012, il regime della PCC ha avviato un accordo di cooperazione con sedici paesi dell’Europa centrale e orientale denominato “16+1”. L’Ungheria non solo è stato il primo Paese ad aderire a tale accordo ma anche il primo ad entrare nell’One Belt, One Road con la Cina. Nel 2017 il volume degli scambi bilaterali tra la Cina e l’Ungheria ha superato i 10 miliardi di dollari. Come la Grecia, l’Ungheria si è più volte opposta alle critiche dell’UE sulle violazioni dei diritti umani da parte del PCC[57]. Altro esempio: Il presidente della Repubblica Ceca ha assunto un ricco uomo d’affari cinese come suo consigliere personale e ha mantenuto le distanze dal Dalai Lama[58].

Dei sedici Paesi inclusi nell’accordo di cooperazione, undici fanno parte dell’UE, gli altri cinque no. Con questa mossa il PCC ha mostrato un nuovo modello di cooperazione regionale: l’intento è di dividere l’Unione europea. Da ricordare che tra i sedici Paesi coinvolti molti sono hanno un passato socialista o una storia di dominio comunista: hanno quindi conservato molte tracce ideologiche e strutturali dello Spettro del Comunismo. In una certa misura, conformarsi alle richieste del PCC viene loro naturale.

Ci sono molti piccoli Paesi di piccole dimensioni in Europa, ed è difficile per uno qualsiasi di esso poter riuscire a competere con il PCC. Il PCC ne è ben consapevole ed è per questo che è costantemente al lavoro per gestire ogni Paese europeo individualmente, costringendolo a rimanere in silenzio sulle violazioni dei diritti umani e sulla perniciosa politica estera cinese. L’esempio più tipico è la Norvegia: nel 2010 il Comitato norvegese per il Nobel ha assegnato il premio per la pace a un dissidente cinese che si trovava in carcere. Il PCC si è rapidamente vendicato creando vari ostacoli economici e diplomatici, il più chiaro quello di vietare alla Norvegia di esportare salmone in Cina. Sei anni dopo, le relazioni tra i due Paesi si sono “normalizzate”; la Norvegia è rimasta in silenzio sulle questioni relative ai diritti umani in Cina[59].

Anche le potenze tradizionali dell’Europa occidentale hanno risentito della crescente influenza del PCC.

Germania: gli investimenti diretti cinesi in Germania sono aumentati notevolmente a partire dal 2010; nel 2016 e nel 2017 la Cina è stata il principale partner commerciale della Germania. Nel 2016, cinquantasei società tedesche sono state acquisite da società di investimento con base in Cina o a Hong Kong, il conto totale ha raggiunto gli 11 miliardi di euro. Queste fusioni e acquisizioni hanno permesso alle società cinesi di entrare rapidamente nel mercato europeo e di acquisire le tecnologie avanzate e l’influenza di ogni brand delle aziende occidentali[60]. La Hoover Institution, in un rapporto del 2018, ha considerato questo giro di investimenti come un “armamento” del PCC[61]. La città industriale di Duisburg, nella Germania occidentale, è diventata il punto di transito europeo per la One Belt One Road. Ogni settimana, trenta treni merci cinesi arrivano in città, dove vengono poi smistati in altri Paesi. Il sindaco di Duisburg ha detto che la sua è la «città cinese» della Germania[62].
Francia: nel mantenere rapporti con la Francia, il PCC ha utilizzato da tempo la strategia definita “diplomazia delle transazioni”: nel 1999 quando Jiang Zemin era a capo del regime cinese, si recò in Francia e firmò per ufficializzare un contratto di 15 miliardi di franchi di allora (circa 2.5 miliardi di dollari di oggi) per l’acquisto di quasi trenta aerei Airbus. Il governo francese è stato poi uno dei sostenitori dell’ingresso della Cina nell’OMC. Dopo il massacro di Piazza Tienanmen, la Francia è stato il primo Paese occidentale a stabilire una partnership strategica globale con la Cina. Il presidente francese dell’epoca è stato il primo in Occidente a opporsi alle critiche alla Cina alla Conferenza di Ginevra sui diritti umani, il primo a sostenere con forza la revoca dell’embargo sulle armi dell’UE nei confronti della Cina e il primo capo di un governo occidentale ad aver elogiato pubblicamente il PCC. Come nota di contorno, il PCC ha istituito settimane della cultura cinese su larga scala in Francia, come mezzo per promuovere l’ideologia comunista, nascosta dietro le spoglie di eventi culturali[64].

Regno Unito: tradizionalmente una delle principali potenze europee, il Regno Unito è non solo tra i più importanti alleati degli Stati Uniti, ma anche anche uno degli obiettivi più preziosi per il PCC. Il 15 settembre 2016 il governo britannico ha ufficialmente approvato l’avvio di un progetto per l’energia nucleare denominato Hinkley Point C, una joint venture tra la Cina e un consorzio francese. Il luogo scelto è nel Somerset, nel sud-ovest dell’Inghilterra, avrà una capacità di circa 3.200 megawatt.

Il progetto è stato severamente criticato da esperti in materia — ingegneri, fisici, ambientalisti, studiosa di Cina e analisti d’impresa — per gli enormi pericoli per la sicurezza nazionale britannica. Nick Timothy, ex capo del personale del Primo ministro Theresa May, non è rimasto in silenzio sulla situazione, sostenendo pubblicamente che gli esperti di sicurezza «sono preoccupati che i cinesi possano sfruttare il loro ruolo [nella politica inglese] per indebolire il sistema informatico nazionale, arrivando a poter fermare la produzione di energia britannica a loro piacimento[65]». The Guardian ha definito l’accordo dietro Hinkley Point C, che sarà la centrale nucleare più costosa del mondo, come «un terribile accordo»[66].

Come in altre parti del mondo, i metodi utilizzati dal regime cinese per espandere la propria influenza in Europa sono molteplici e pervasivi; tra di essi troviamo: acquisire la proprietà di aziende europee che operano nel settore tecnologico; controllare il pacchetto azionario delle società che gestiscono importanti porti marittimi; usare tangenti e corrompere i politici in pensione affinché sostengano le strategie del PCC; convincere i sinologi a cantare le lodi del PCC; infiltrarsi nelle università, nei think tank e negli istituti di ricerca. L’edizione in lingua inglese del China Daily, quotidiano in lingua cinese controllato dal PCC, ha un inserto mensile all’interno del quotidiano britannico The Daily Telegraph — articoli che abbelliscono il regime cinese — per i quali Pechino paga il Daily Telegraph fino a 750.000 sterline all’anno [68].

Le attività del PCC in Europa hanno suscitato grande preoccupazione tra gli esperti: l’Istituto europeo di politica pubblica (GPPI), uno dei principali think tank europei, ha pubblicato nel 2018 un rapporto in cui sono state esposte le attività di infiltrazione del PCC in Europa.

Nel documento si descrive come la Cina abbia a disposizione una serie di strumenti per influenzare, in modo esplicito o meno, i Paesi europei. Tali strumenti vengono utilizzati principalmente in tre ambiti: le élite politiche ed economiche; i media e l’opinione pubblica; la società civile e il mondo accademico. Per poter espandere la propria influenza politica la Cina sfrutta l’apertura unilaterale dell’UE: le porte d’ingresso dell’Europa sono spalancate, mentre la Cina fa di tutto per limitare rigorosamente l’ingresso di idee, personalità e capitali stranieri.


Gli effetti di queste relazioni politiche asimmetriche cominciano a farsi sentire: gli Stati europei tendono sempre più spesso ad adeguare le loro politiche in funzione di quella che viene chiamata “obbedienza preventiva”, così da ottenere favori da Pechino. Le élite politiche all’interno dell’Unione europea, e quelle che vi orbitano attorno, hanno abbracciato la retorica e gli interessi cinesi, anche quando sono in contrasto con gli interessi nazionali e/o europei. L’unità dell’UE ha sofferto a causa della strategia della divisione cinese, specialmente per quanto riguarda la protezione e la proiezione dei valori liberali e dei diritti umani. Pechino beneficia anche dei “servizi volontari” di coloro che, all’interno delle classi politiche e professionali europee, sono ben contenti di promuovere gli interessi cinesi. Non si tratta solo di avere Pechino che lavora per mettere da parte del capitale politico da poter spendere in Europa, ci sono anche molte realtà europee che corteggiano Pechino, cercano di attrarre i capitali cinesi e di far aumentare il proprio peso politico nella comunità internazionale[69].

Oltre alle infiltrazioni politiche, economiche e culturali in Europa, il PCC si è anche impegnato in varie forme di spionaggio. Il 22 ottobre 2018, il quotidiano francese Le Figaro metteva in prima pagina un articolo dal titolo Le rivelazioni di Le Figaro sul programma di spionaggio cinese che punta alla Francia. Attraverso una serie di inchieste speciali, il giornale francese ha portato alla luce le varie attività di spionaggio compiute dal PCC in Francia. Di particolare rilevanza l’utilizzo di social network a livello aziendale — in primis LinkedIn — per avvicinare e reclutare cittadini francesi, così che potessero fornire informazioni al PCC; lo scopo finale è sempre quello di infiltrarsi nei settori strategici del Paese, come la politica e l’economia, così che il PCC possa venire in possesso di informazioni preziose per comprendere l’andamento della società francese.

Le Figaro conclude la serie di inchieste con la considerazione che tali casi siano solo la punta dell’iceberg delle operazioni di spionaggio cinesi in Francia[70]. Lo scopo del CCP è semplice: mettere le mani su grandi quantità di informazioni riservate e sensibili sul funzionamento dello Stato francese. Analoghe attività di spionaggio hanno avuto luogo anche in Germania[71].

d. Il PCC esporta il suo “modello cinese” per colonizzare l’Africa


Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Africa entrò nel processo di decolonizzazione, con i Paesi africani che arrivarono ad ottenere l’indipendenza. Il Continente Nero perso perse gradualmente l’interesse dell’Occidente, in particolar modo dopo che tecnologia e capitali iniziarono a muoversi in direzione della Cina. Il cerchio si chiude quando il PCC, rafforzato dai trasferimenti conoscenze e investimenti provenienti dall’Occidente, inizia a invadere poco alla volta l’Africa: il PCC ha sostituito i Paesi occidentali ed è riuscito ad infiltrarsi nella società, nelle istituzioni politiche, e nei meccanismo economici dei Paesi africani. Da un lato il PCC ha corteggiato gli Stati africani: sventolando la bandiera dell’aiuto per lo sviluppo economico, ha creato un fronte unito contro gli Stati Uniti e gli altri Paesi liberi all’interno delle Nazioni Unite. D’altra parte ha messo in moto la corruzione e gli aiuti militari: il PCC ha manipolato senza sosta i governi africani e i gruppi di opposizione, controllando gli affari dei Paesi africani e imponendo loro il modello cinese.

Dal 2001 al 2010 la banca Export-Import Bank of China — una delle principali istituzioni finanziarie cinesi, controllata dal PCC — ha emesso 62,7 miliardi di dollari in prestiti, diretti ai Paesi africani. I tassi di interesse su questi prestiti erano relativamente bassi e, in superficie, non erano accompagnati da richieste di natura politica. I prestiti richiedevano però l’accesso alle risorse naturali come garanzia: il PCC ha così ottenuto il diritto “legale” di poter sfruttare le ricchezze dei Paesi africani.

Nel 2003 la Export-Import Bank of China concesse un prestito all’Angola, richiedendo e ottenendo come garanzia lo sfruttamento del petrolio greggio del Paese: questo approccio è conosciuto come il cosiddetto “Modello Angola”, funziona come segue: «[Sul posto] arrivano operai cinesi, installano trivelle cinesi per pompare il petrolio in un oleodotto cinese, sorvegliato da guardie cinesi; il petrolio viaggia verso un porto, il terminal è stato costruito dai cinesi, dove viene caricato su cargo cinesi, diretto in Cina. Sono cinesi le persone che armano quei governi [africani] che poi commettono crimini contro l’umanità; e sono cinesi cinesi le persone che proteggono quello stesso governo, davanti al Consiglio di sicurezza dell’ONU[72]».

Nel 2016, la Cina è diventata il principale partner commerciale e investitore diretto estero in Africa[73]. Nel Continente nero, il modello di gestione del PCC è stato duramente criticato: salari bassi, condizioni di lavoro pericolose, prodotti scadenti, edifici tirati su con materiali inadatti, alti livelli di inquinamento ambientale, numerosi casi corruzione tra i funzionari governativi. Non deve sorprendere che la presenza cinese in Africa — soprattutto in ambito minerario — abbia incontrato le proteste delle popolazioni locali.


Michael Sata, ex presidente dello Zambia, durante la campagna presidenziale nel 2007 ha detto: «I cinesi se ne devono andare, rivogliamo i governanti coloniali di un tempo. Sì, gli europei hanno sfruttato le nostre risorse naturali, ma almeno si sono presi cura di noi. Hanno costruito scuole, ci hanno insegnato la loro lingua e ci hanno portato la civiltà britannica. Il Capitalismo occidentale ha perlomeno un volto umano; i cinesi sono qui solo per dissanguarci»[74]. In Zambia, l’influenza cinese si vede ovunque. Sata non ha avuto altra scelta se non quella di fare accordi con il PCC. Una volta preso il potere, ha incontrato immediatamente l’ambasciatore cinese e nel 2013 ha visitato la Cina.

Il Sudan è stata una delle prime basi che il PCC ha stabilito in Africa e, negli ultimi vent’anni, gli investimenti del PCC nel Paese sono cresciuti in modo esponenziale. Oltre alle abbondanti riserve di petrolio, la posizione strategica del Sudan nel Mar Rosso è considerata vitale per i piani del PCC. Negli anni ’90, quando il Sudan fu isolato dalla comunità internazionale a causa del suo sostegno al terrorismo e all’Islam radicale, il PCC ne approfittò per diventare rapidamente il principale partner commerciale del Sudan, acquistando la maggior parte del petrolio esportato. Gli investimenti del PCC hanno aiutato il regime totalitario di Bashir, non solo a sopravvivere ma anche a svilupparsi, nonostante le limitazioni imposte dall’Occidente. L’esercito cinese ha anche rifornito di armamenti il Sudan durante questo periodo, facilitando indirettamente il genocidio del Darfur in Sudan all’inizio del XXI secolo.

Nella comunità internazionale, il PCC ha svolto un ruolo bifronte: da un lato la Cina ha inviato una squadra di peacekeeping, tramite le Nazioni Unite, per mediare il conflitto in Sudan. Dall’altro lato Pechino ha invitato apertamente il presidente sudanese — un criminale ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità — in visita in Cina; Pechino ha dichiarato ufficialmente che che, indipendentemente da come è cambiato il mondo, indipendentemente dalla situazione in Sudan, la Cina sarà sempre a fianco del Sudan[77].

Il PCC non si risparmia nel corteggiare i Paesi in via di sviluppo. Nel 2000 il regime cinese ha istituito il Forum sulla cooperazione Cina-Africa. Durante i forum successivi, che si sono svolti in momenti importanti, i leader del PCC hanno gettato denaro in Africa. Nel 2000, durante l’incontro inaugurale a Pechino, Jiang Zemin ha annunciato una riduzione del debito di 10 miliardi di yuan [circa 1.5 miliardi di dollari NdT] per i Paesi africani in condizioni di povertà. Nel 2006, il PCC ha annunciato nuovamente la riduzione del debito per i Paesi africani con i quali aveva relazioni diplomatiche[78], e ha anche promesso 10 miliardi di dollari in finanziamenti, crediti, borse di studio e vari progetti di aiuto.


Nel 2015, durante il forum tenutosi a Johannesburg in Sudafrica, il PCC ha annunciato che avrebbe fornito capitali per 60 miliardi di dollari per realizzare dieci progetti di cooperazione tra la Cina e i Paesi africani. Il 28 agosto 2018, il viceministro del commercio del PCC ha osservato che «il 97% dei prodotti [che importiamo] dai 33 Paesi africani meno sviluppati hanno tariffe zero». Il 3 settembre 2018, durante il China-Africa Cooperation Forum tenutosi a Pechino, il PCC si è nuovamente impegnato a fornire all’Africa 60 miliardi di dollari in aiuti senza vincoli, e a fornire prestiti senza interessi. Allo stesso tempo, il PCC ha promesso che, per i paesi africani con relazioni diplomatiche con il PCC, avrebbe cancellato i debiti inter-governativi maturati alla fine del 2018. [81]

Dopo diversi decenni di sforzi minuziosi il PCC ha acquisito il controllo dell’economia africana. Usando incentivi economici, ha di fatto comprato molti governi africani, di modo che eseguano le istruzioni di Pechino. La comunità internazionale si è resa conto che il regime cinese sia vicino a conquistare l’Africa, e che la stia usando come palcoscenico per promuovere e sostenere il “modello di sviluppo” del PCC. Un esperto dell’establishment del regime cinese ha messo in chiaro la situazione: «I progressi della Cina negli ultimi quarant’anni hanno dimostrato che non c’è bisogno di fare quello che l’Occidente ha fatto, per avere successo. La storia non è ancora finita. L’impatto sull’Africa è al di là di quanto si possa immaginare[82]».

Meles Zanawi, ex Primo ministro dell’Etiopia, ha seguito l’esempio cinese e ha messo in pratica un piano quinquennale; anche il tipo di organizzazione e struttura del partito al potere nel Paese africano — il Fronte Democratico Rivoluzionario Democratico Popolare Etiope (EPRDF) — erano ricalcati dal PCC. Secondo una fonte anonima all’interno del Ministero degli Esteri cinese molti funzionari di alto livello dell’EPRDP hanno ricevuto una formazione specifica in Cina, allo stesso modo i loro figli sono andati a scuola in Cina. Chi lavorava per l’EPRDP doveva leggere e accettare quanto scritto da Mao Zedong[83].

Marzo 2013: in occasione del vertice BRICS (Brasile, Russia, India, India, Cina, Sudafrica), il Primo ministro etiope ha dichiarato che la Cina è sia un partner commerciale che un modello di sviluppo per il suo Paese. Oggi, l’Etiopia è infatti chiamata la “Nuova Cina” in Africa. Il controllo della popolazione, la censura su Internet, la natura totalitaria del governo, le restrizioni sull’operato dei media sono tutti elementi comuni a quanto accade in Cina[84].


L’Etiopia non è l’unico esempio. Nel 2018, il Dipartimento Internazionale del Comitato Centrale del PCC ha tenuto due vertici nella stessa città (Shenzhen, Provincia di Guangdong). Uno rivolto ai giovani africani — il China-Africa Young Leaders Forum — l’altro alle realtà politiche affini al PCC presenti in Sudamerica — il China-Latin America Political Parties Forum. Lo scopo era formare i dirigenti e funzionari governativi delle rispettive aree.

Yun Sun è una ricercatrice politica che dirige il programma di studio sulla Cina presso lo Stimson Center di Washington; per lei quel tipo di formazione politica ha lo scopo di esportare il modello cinese nei Paesi in via di sviluppo:

«La formazione politica organizzata ed eseguita dal PCC ha tre obiettivi. Il primo è di legittimare il regime comunista in Cina davanti alla comunità internazionale: il PCC intende veicolare il messaggio che la Cina è un successo e che si può applicare lo stesso metodo nei Paesi in via di sviluppo. Il secondo è di esportare il suo costrutto ideologico: il PCC promuove le “esperienze positive” e le “idee per governare il Paese”, senza dichiarare esplicitamente di voler “esportare la rivoluzione”. Il terzo obiettivo è quello di rafforzare gli scambi commerciali tra la Cina e i Paesi africani[85].

e. L’avanzata del PCC in Sudamerica, invade il “cortile di casa” degli Stati Uniti


Geograficamente vicina agli Stati Uniti, l’America Latina si trova storicamente nella sfera di influenza degli Stati Uniti. Nonostante la presenza di regimi socialisti apparsi in America Latina, quando le ondate del Comunismo si abbattevano sul mondo durante la metà del XX secolo, le influenze esterne non hanno mai rappresentato una minaccia per gli Stati Uniti.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il PCC rivolse la sua attenzione ai Paesi sudamericani. Sventolando la bandiera della “cooperazione Sud-Sud”, secondo la definizione dell’ONU, il PCC iniziò a infiltrarsi nella regione, penetrando in settori come l’economia, il commercio, l’esercito, la diplomazia, la cultura. I governi di molti Paesi latinoamericani, come Venezuela, Cuba, Ecuador e Bolivia, erano già ostili nei confronti dell’America: il PCC si è servito di questi sentimenti di odio quando ha esteso i suoi tentacoli oltreoceano, aggravando ulteriormente le tensioni di queste nazioni con l’America e rafforzando la loro posizione antiamericana.

Da un lato, il PCC intendeva indebolire i legami che gli Stati Uniti aveva stabilito nella regione e i benefici che ne derivavano. Dall’altro lato, il PCC intendeva muoversi liberamente nel “cortile di casa” degli USA così da sostenere i regimi socialisti in America Latina e gettare le basi per un confronto a lungo termine con gli Stati Uniti. L’infiltrazione e l’influenza del PCC in America Latina hanno superato di gran lunga quanto realizzato in passato dall’Unione Sovietica nella regione, vediamo come.

– Il PCC ha usato accordi commerciali e investimenti diretti per espandere la sua influenza in America Latina: secondo un rapporto della Brookings Institution — un think tank con sede negli Stati Uniti — nel 2000 il volume degli scambi commerciali tra Cina e Paesi dell’America Latina ammontava a soli 12 miliardi di dollari; nel 2013 era salito a circa 260 miliardi di dollari, si tratta di un aumento di oltre venti volte. Prima del 2008 i prestiti concessi dalla Cina non superavano il miliardo di dollari; nel 2010 avevano toccato i 37 miliardi di dollari[86]. Dal 2005 al 2016, la Cina si è impegnata a concedere prestiti per 141 miliardi di dollari ai paesi dell’America Latina.


Oggi, i prestiti dalla Cina hanno superato quelli della Banca Mondiale e della Banca Interamericana di Sviluppo messi insieme. Il PCC ha promesso che entro il 2025 fornirà all’America Latina 250 miliardi di dollari di investimenti diretti e che il commercio bilaterale tra Cina e America Latina raggiungerà i 500 miliardi di dollari. L’America Latina è attualmente il secondo obiettivo di investimento della Cina, subito dopo i Paesi asiatici.

Per molti Paesi sudamericani, la Cina domina il commercio estero. Nelle tre maggiori economie dell’America Latina — Brasile, Cile e Perù — la Cina è il principale partner commerciale, mentre in Argentina, Costa Rica e Cuba è al secondo posto. Con la costruzione di autostrade in Ecuador, progetti portuali a Panama e un progetto per l’installazione di una reti in fibra ottica dal Cile alla Cina, l’influenza del PCC in tutta l’America Latina è ormai evidente[87].

Sempre in ambito commerciale il PCC ha spinto le aziende statali a entrare in America Latina per controllare risorse naturali strategiche. Alcuni esempi sono gli investimenti del gruppo Baosteel in Brasile, e il controllo del gruppo Shougang sulle miniere di ferro in Perù. Il PCC ha anche mostrato grande interesse per il petrolio dell’Ecuador e per le miniere d’oro e le riserve di petrolio del Venezuela.

Il PCC investe massicciamente anche nelle infrastrutture: in Argentina il PCC ha promesso di investire 25 milioni di dollari per le aree portuali e 250 milioni di dollari in una rete di autostrade che dovrebbero collegare l’Argentina al Cile[88].


– Il PCC si è infiltrato nel comparto militare dei Paesi Sudamericani: Jordan Wilson è un ricercatore presso la U.S.S.-China Economic and Security Review Commission; durante le sue ricerche ha scoperto che in Sudamerica il PCC è passato dall’attuare vendite militari di basso livello, prima del 2000, a quelle considerate di alto livello, raggiungendo 100 milioni di dollari di esportazioni nel 2010. In particolar modo dopo il 2004, le esportazioni militari dal PCC verso l’America Latina sono aumentate notevolmente. I destinatari erano tutti regimi anti-americani, come il Venezuela. Allo stesso tempo, c’è stato anche un aumento dell’impegno militare, nell’istruzione e formazione e nelle esercitazioni militari congiunte[89].

Al vertice bilaterale Cina-Argentina tenutosi a Pechino nel 2015 è stata discussa una nuova fase di cooperazione militare tra i due Paesi. Ciò include la realizzazione della prima stazione di controllo e di localizzazione spaziale del PCC nell’emisfero meridionale, all’interno dei confini dell’Argentina. È stata inoltre inclusa la vendita all’Argentina di aerei da combattimento di fabbricazione cinese, per un valore totale compreso tra i 500 milioni e 1 miliardo di dollari, superando le esportazioni totali di armi del PCC di 130 milioni di dollari nel 2014 nella regione dell’America Latina.

– Il PCC sta mantenendo e rafforzando rapidamente i legami con l’America Latina in tutte le dimensioni diplomatiche, economiche, culturali e militari. Nel 2015 il PCC ha aggiornato i requisiti delineati in della Difesa «assegnando specificamente al PLA [l’Esercito di liberazione del popolo, l’esercito del PCC] di partecipare attivamente alla cooperazione regionale e internazionale in materia di sicurezza e garantire efficacemente gli interessi della Cina all’estero[90]».

– Il PCC attua pressioni diplomatiche sui Paesi sudamericani: Panama, Dominica ed El Salvador hanno interrotto “volontariamente” i legami diplomatici con la Repubblica Popolare Cinese (Taiwan) per abbracciare invece la Repubblica Popolare Comunista Cinese.


Giugno 2017: Panama ha annunciato di aver stabilito relazioni con la Repubblica Popolare Cinese e, allo stesso tempo, di aver chiuso la porta della diplomazia con Taiwan, dopo oltre un secolo. Appena tre anni prima, il PCC aveva iniziato a predisporre investimenti nelle infrastrutture panamensi — porti, ferrovie e autostrade — per un totale di circa 24 miliardi di dollari. La Cina ha poi acquisito il controllo di entrambe le estremità del Canale di Panama, che è di grande importanza strategica internazionale.

– Il PCC ha investito quasi 30 miliardi di dollari nel porto La Union, che si trova a El Salvador. Nel luglio 2018, in una intervista con il giornale El Diario De Hoy, l’ambasciatore degli Stati Uniti in El Salvador, Jean Manes, metteva in guardia il Paese: l’investimento cinese sul porto era da considerare una strategia militare e meritava un’attenzione particolare[92].

– Il PCC si è infiltrato nella cultura dei Paesi sudamericani: sul fronte culturale il PCC ha aperto ben trentanove Istituti Confucio in America Latina e nei Caraibi, arrivando a oltre 50.000 iscrizioni[93]. Gli Istituti Confucio sono considerati da vari Paesi come istituzioni culturali di facciata, utilizzate dal PCC per portare avanti azioni di spionaggio, e per diffondere la cultura dello Spettro del Comunismo e l’ideologia del PCC, sotto le spoglie della cultura tradizionale cinese.

L’espansione e l’infiltrazione del regime del PCC in America Latina è una grave minaccia per gli Stati Uniti. Il PCC attua pressioni sui Paesi sudamericani tramite promesse di accedere al mercato cinese e crea un circolo vizioso che rende dipendenti dagli investimenti economici e dagli aiuti militari: l’obiettivo è influenzare le politiche dei governi latinoamericani, così da attirarli nella propria sfera di influenza e di contrapporli agli Stati Uniti.


I canali, i porti, le ferrovie e gli impianti di comunicazione che il PCC costruisce sono tutti strumenti necessari per il controllo di questi Paesi, che saranno utilizzati in futuro per espandere e stabilire la sua egemonia globale.

f. La Cina comunista non nasconde le sue ambizioni militari

Al 2018 Zhuhai Airshow in Cina, il debutto del drone CH-7 Rainbow ha attirato l’attenzione degli esperti militari: è apparso evidente come la Cina abbia raggiunto un alto livello tecnologico nello sviluppo di droni armati. Il modello CH-4 Rainbow era stato acquistato da Giordania, Iraq, Turkmenistan e Pakistan: Paesi che non potevano acquistare droni militari dagli Stati Uniti. Il modello CH-7 Rainbow, per certi versi, si propone come concorrente dell’X-47 — il top di gamma dagli Stati Uniti — con un equipaggiamento molto simile. Durante il debutto del CH-7 all’Airshow del 2018 c’è chi ha osservato che il drone non fosse stato ancora testato dal PLA[95]. Nel video di promozione si vedeva una simulazione: droni cinese che affrontano un nemico; era chiaro che si trattava dell’esercito statunitense. Queste mosse mostrano chiaramente l’ambizione della Cina di voler sfidare gli Stati Uniti e il ruolo che svolgono nella comunità internazionale.

Negli ultimi anni, man mano che la potenza militare cinese si è sviluppata, le ambizioni del PCC non sono passate inosservate. Le navi cinesi hanno seguito e disturbato le operazioni di ri routine di una nave di sorveglianza statunitense (la USNS Impeccable) nel Mar Cinese Meridionale, mentre si trovava in acque internazionali[97].


Un incidente simile si è verificato più tardi nelle acque internazionali del Mar Giallo. Navi cinesi si sono ripetutamente avvicinate alla USNS Victorious: giunte a circa 30 metri hanno costretto la nave americana a una pericolosa e improvvisa fermata improvvisa. Un altro incidente si è avuto nel settembre 2018, quando una nave da guerra cinese si è avvicinata in maniera aggressiva alla USS Decatur, a 45 metri dalla prua la Decatur è stata costretta a muoversi rapidamente per evitare una collisione[99].

Il regime del PCC ha messo in chiaro le sue ambizioni militari molto tempo fa. La sua strategia è quella di passare dall’essere una potenza terrestre a una superpotenza marittima, per poi stabilire un’egemonia sia sulla terraferma che negli oceani. Nel 1980 la strategia di Pechino era quella di attuare una “difesa attiva”, con l’obiettivo di mantenere i propri confini intatti: all’epoca, il suo principale avversario era l’esercito sovietico. A partire dal 2013 la strategia è molto diversa, Pechino considera «attaccare in modo mirato come un importante atto di difesa attiva [100]».

Nel 2015 uno degli autori del libro Unrestricted Warfare: Cina Master Plan to Destroy America [versione italiana: Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione] ha dichiarato che: «La strategia della One Belt, One Road richiede che l’esercito abbia la capacità di agire ovunque»; «Le forze terrestri cinesi devono fare un balzo in avanti e cambiare completamente»; «Gli interessi nazionali [cinesi] vanno di pari passo con One Belt, One Road e sono un enorme incentivo per l’esercito cinese affinché possa riformarsi». Appare chiaro l’obiettivo di Pechino di diventare una superpotenza terrestre.

Ogni anno Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti pubblica un rapporto diretto al Congresso. Nel 2018 il Dipartimento avvertiva che: «L’enfasi che la Cina [pone] sui mari e l’attenzione alle missioni a tutela dei suoi interessi oltreoceano, hanno spinto sempre più spesso il PLA oltre i confini cinesi. La marina cinese ha spostato la sua attenzione dalla “difesa delle acque offshore” a un mix di “difesa delle acque offshore e protezione in mare aperto”, il che riflette l’interesse crescente dei piani alti per avere una base operativa più ampia.


La strategia militare della Cina e la riforma in corso del PLA riflettono il cambiamento di priorità, storicamente incentrata sulle azioni terrestri. Allo stesso modo, i riferimenti alla cosiddetta strategia del “forward edge defense” [vantaggio della difesa] per allontanare i potenziali conflitti dal territorio cinese, suggeriscono che gli strateghi militari cinesi prevedono di arrivare a operare in modo sempre più globale[102]».

L’obiettivo della Cina è quello di entrare in azione all’interno dei confini della prima catena di isole — dalle isole Kuril a nord alle isole di Taiwan e del Borneo a sud — per dirigersi verso le acque aperte dell’oceano Pacifico e dell’oceano Indiano. La catena circonda il Mar Giallo, il Mar Cinese Orientale e l’Oceano Pacifico occidentale.

La Cina ha costruito isole e isolotti artificiali nel Mar Cinese Meridionale per scopi militari: ci sono aeroporti, aerei a terra e missili. Attualmente tre di questi isolotti sono strategicamente importanti: Fiery Cross Reef, Subi Reef e Mischief Reef, sono stati fortificati con missili terra-aria e campi d’aviazione. Le isole sono essenzialmente parcheggi per le portaerei, che possono essere utilizzati in caso di conflitto militare. A livello strategico, la marina cinese è in grado di superare i confini della prima catena di isole e ha la capacità di combattere in mare aperto.

Steve Bannon, ex capo stratega della Casa Bianca, ha detto in diverse occasioni che un conflitto militare tra Cina e Stati Uniti è solo questione di tempo, «Andremo in guerra nel Mar Cinese Meridionale tra cinque o dieci anni», ha detto nel marzo 2016. «Non ci sono dubbi[103]».


Lawrence Sellin, ex colonnello americano e analista militare, ritiene che «La Cina sta ora cercando di estendere la sua influenza internazionale oltre il Mar Cinese Meridionale, per arrivare a dominare l’Oceano Indiano settentrionale. Se dovesse essere in grado di completare il suo piano, la Cina potrebbe essere in una posizione inattaccabile e riuscirebbe a esercitare autorità su circa la metà del PIL globale[104]».

Il dominio del PCC nel Mar Cinese Meridionale non è una questione di territorio, ma di strategia globale. Ogni anno, quasi 5 trilioni di dollari in merci si spostano attraverso il Mar Cinese Meridionale. Per il PCC la via della seta marittima inizia nel Mar Cinese Meridionale: la stima è che l’80% delle sue importazioni di petrolio dovrebbe attraversare quella zona[106].

Il mantenimento della pace nel Mar Cinese Meridionale dopo la fine della Seconda guerra mondiale è sotto la responsabilità degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Ciò rappresenta una grande minaccia per il regime cinese, che si prepara a entrare in guerra con gli Stati Uniti e considera il Mar Cinese Meridionale un’area chiave per la sua crescita economica e per la sua espansione militare.

Taylor Fravel, professore di Scienze Politiche al Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha evidenziato un fatto interessante dopo aver studiato come la Cina abbia storicamente risolte le dispute territoriali. Dal 1949, la Cina si è impegnata in ventitré controversie territoriali con i Paesi vicini: in diciassette di queste ha raggiunto un accordo, arrivando a un compromesso sulla ripartizione del territorio conteso. Ma quando si tratta di questioni nel Mar Cinese Meridionale — anche quando la marina cinese era militarmente insignificante — Pechino ha adottato un approccio intransigente e ha rivendicato una sovranità indiscutibile sulla regione. Da quando il PCC ha preso il potere non ha mai usato un linguaggio così assoluto in altre controversie territoriali[107].


A quanto pare il PCC non lotta con le unghie e con i denti per risolvere questo tipo di conflitti, fintanto che il Mar Cinese Meridionale non è incluso. Fravel ha elencato diverse ragioni per la disparità di trattamento: «La Cina considera le isole offshore come le Spratlys, come una importante risorsa strategica. Tramite queste isole, la Cina può rivendicare la giurisdizione su acque adiacenti che potrebbero contenere risorse naturali significative e persino la giurisdizione su alcune delle attività delle navi militari straniere. Gli isolotti nel Mar Cinese Meridionale possono essere trasformati in avamposti militari, così da diffondere il messaggio d i quanto potente sia la Cina da un punto di vista militare».

«Questi isolotti potrebbero anche aiutare le unità sottomarine cinesi, impedendo ad altri Stati di rilevare la loro presenza mentre si accingono a entrare nel Pacifico occidentale, passando dal Mar Cinese Meridionale»[108].

Le azioni aggressive ed espansionistiche del regime cinese nel Mar Cinese Meridionale, in particolare le misure adottate negli ultimi anni per cambiare lo status quo, hanno acuito le tensioni militari nella regione. Il Giappone ha invertito la rotta e ha aumentato le spese militari dopo dieci anni che le diminuiva; l’India ha rimesso mano alla modernizzazione della sua flotta navale[109].

La prima base militare cinese all’estero è stata istituita nel 2017, l’esercito cinese la sua prima base militare d’oltremare, nella Repubblica di Gibuti. Per gli esperti geopolitici occidentali gli alti livelli militari cinesi stanno guardando oltre la regione del Pacifico occidentale, e considerando come espandere il proprio potere sempre più lontano[111] Ad esempio, il PCC è stato recentemente attivo nei paesi insulari del Pacifico, indipendentemente dai costosi investimenti. Il suo obiettivo a lungo termine è che, in futuro, questi paesi insulari servano come stazioni di rifornimento per la flotta del PLAN. L’espansione militare del PCC non si limita alle tradizionali divisioni di terra, mare e aria, ma fa progressi anche nel campo dello spazio e della guerra elettromagnetica.


Le ambizioni militari del PCC sono sostenute da vaste riserve di manodopera, armamenti e finanziamenti. Il regime del PCC mantiene il più grande esercito regolare del mondo, con circa due milioni di militari attivi. L’Esercito di Liberazione del Popolo ha anche la più grande forza di terra del mondo, il maggior numero di navi da guerra, il terzo più grande tonnellaggio navale e una massiccia forza aerea. Ha una capacità di attacco nucleare, che consiste in missili balistici intercontinentali, sottomarini nucleari e bombardieri strategici.

Il regime cinese ha anche circa 1,7 milioni di poliziotti armati, che sono sotto la guida unificata della Commissione militare centrale del PCC, e un gran numero di unità di riserva e di milizie. La dottrina militare del Partito ha sempre sottolineato l’importanza della “guerra popolare”. Nell’ambito del suo sistema totalitario, il PCC può rapidamente coordinare tutte le risorse disponibili: ciò significa che il PCC ha un bacino di oltre un miliardo di persone (compresi i cinesi che vivono all’estero) dal quale può pescare un gran numero di persone a cui far indossare la divisa.

Il PIL della Cina è aumentato rapidamente tra il 1997 e il 2007. Il PCC si affida al potere economico per espandere rapidamente la produzione di armamenti e migliorare il proprio arsenale. Si stima che entro il 2020 le forze terrestri del PLA disporranno di oltre cinquemila moderni carri armati e almeno due portaerei nella sua flotta. Il novanta per cento dei caccia dell’aviazione militare PLA sono della quarta generazione, e la Cina ha iniziato a introdurre i caccia di quinta generazione.

All’inizio del 2017 la Cina ha annunciato un aumento del 6,5% del suo bilancio militare annuale, portandolo a 154,3 miliardi di dollari. L’analisi dei dati dal 2008 al 2017 indica che il bilancio militare ufficiale della Cina è cresciuto in media dell’8% ogni anno (considerando l’inflazione). Gli osservatori stimano che la spesa militare effettiva del PCC è il doppio di quella riconosciuta ufficialmente. A parte questo, la forza militare del regime non si riflette pienamente nella spesa militare: questo perché non solo la sua spesa militare effettiva è superiore alle cifre rese pubbliche, ma il PCC può requisire molte risorse e manodopera a sua discrezione tra la popolazione civile. L’intero sistema industriale può soddisfare le esigenze militari, il che significa che le sue reali capacità militari superano di gran lunga i dati ufficiali.


Il PCC ha in programma di costruire un sistema globale composto da oltre trenta satelliti di navigazione chiamati Beidou (Orsa Maggiore) entro la fine del 2020, con la capacità di potersi posizionare nel GPS globale. La produzione di massa della serie Rainbow di droni militari serve a considerazioni più tattiche per il PCC. Ad esempio, nel layout dello Stretto di Taiwan, il PCC può ottenere vantaggi attraverso le sue tattiche di volo senza equipaggio. Un gran numero di droni può formare cluster sotto il controllo dei satelliti, diretti da un centro di intelligenza artificiale, rendendoli utilizzabili nelle guerre asimettriche.

Il caccia stealth cinese J-20, presentato allo Zhuhai Air Show, assomiglia all’americano F-22, mentre il cinese J-31 appare modellato sull’F-35. Il PLA sta colmando il divario con gli Stati Uniti nello sviluppo dei moderni caccia a reazione.

Il PCC ha a disposizione un’ampia gamma di mezzi di spionaggio per arrivare a raggiungere il livello tecnologico degli Stati Uniti. Secondo alcune stime recenti, più del 90 per cento dello spionaggio contro gli Stati Uniti viene condotto tramite operazioni di hacking, proveniente dalla Cina: i gruppi sotto il PCC si infiltrano nelle grandi aziende americane e nelle forze armate, sottraendo tecnologia e conoscenze che i cinesi non riescono a sviluppare autonomamente[115]. La tecnologia utilizzata per far volare i droni Made in China è stata rubata dagli Stati Uniti.

In termini di tattica, il PLA è interessato a portare avanti guerra asimmetrica, strategia asimmetrica e armi asimmetriche[116]. L’ammiraglio Philip S. Davidson, a capo del Comando Indo-Pacifico, ritiene che la Cina sia «un rivale alla pari» e che il PCC non stia cercando di eguagliare la potenza di fuoco degli Stati Uniti, piuttosto, per recuperare il ritardo rispetto agli Stati Uniti sta facendo leva sui conflitti asimmetrici, compreso l’uso di missili antinave e capacità nella guerra sottomarina. Per Davidson «non c’è alcuna garanzia che gli Stati Uniti potranno vincere un eventuale futuro conflitto contro la Cina[117]».


Alcuni esempi di come il PCC stia mostrando i muscoli: dai missili Dongfeng 21D — missili balistici antinave da utilizzare contro le portaerei statunitensi — a quelli antisommergibili Eagle-Attack-12B, — conosciuti come “killer di portaerei” — Pechino ha creato una “bolla” di circa 550 chilometri quadrati nel Pacifico occidentale; entrare nella bolla significa essere suscettibili a un attacco missilistico a bassa quota. Questi missili sono un’importante risorsa per il PLA, così che possa impedire l’intervento militare degli Stati Uniti.

In seguito alla rapida espansione della sua potenza militare, il regime del PCC è diventato un enorme esportatore di armi verso altri regimi autoritari, come la Corea del Nord e i regimi canaglia del Medio Oriente. Da un lato, l’obiettivo è quello di espandere le sue alleanze militari e, dall’altro, di disperdere e contrastare la potenza militare statunitense. Il regime del PCC non si nasconde: pianta il seme dell’odio contro gli Stati Uniti per poterne raccogliere i frutti. È naturale per il PCC unirsi ad altri regimi antiamericani, così da sviluppare e promuovere le sue ambizioni egemoniche.

Allo stesso tempo, la leadership del PCC sostiene teorie terroristiche, come la guerra senza restrizioni di cui sopra; il PCC legittima la violenza e il terrore con frasi come «La guerra non è lontana da noi, è il luogo di nascita del secolo cinese»; «I morti sono la forza trainante per il progresso della storia»; «Non c’è diritto allo sviluppo senza diritto alla guerra»; «Lo sviluppo di un Paese rappresenta una minaccia per un altro, questa è la regola generale della Storia mondiale»[118].

Zhu Chenghu, preside della principale Università militare in Cina continentale, ha dichiarato pubblicamente che se gli Stati Uniti intervengono in una guerra nello stretto di Taiwan, la Cina utilizzerà preventivamente le armi nucleari per radere al suolo centinaia di città degli Stati Uniti, anche se tutta la Cina ad est di Xi’an (una città situata all’estremità occidentale dei confini tradizionali della Cina) dovesse venire rasa al suolo. Le dichiarazioni di Zhu sono sia un chiaro riflesso delle ambizioni del PCC che una punzecchiatura verso la comunità internazionale per sondare le reazioni dei vari Paesi.

È importante essere consapevoli del fatto che le strategie militari del PCC sono sempre subordinate alle sue esigenze politiche e che le ambizioni militari del regime sono una parte del suo piano: l’approccio del Partito è quello di utilizzare mezzi economici e militari per imporre l’ideologia comunista al resto del mondo.

Nota: per combattere la diffusione del virus da parte del PCC, il presidente degli Stati Uniti Trump ha definito il "virus cinese" Wuhan New Crown Virus. L'Epoch Times riteneva che fosse più accurato chiamare il "virus del PCC". Questo virus proveniva dalla Cina sotto il dominio del Partito Comunista. Poiché il PCC coprì l'epidemia, si diffuse in tutto il mondo. Per correggere il nome cinese, il PCC e la Cina dovrebbero essere distinti.

CONTINUA NELLA II PARTE

Cina. «Denunciai il virus a dicembre, ma sono stata zittita e punita»

LA PERICOLOSA E IRRESPONSABILE POLITICA DEL REGIME CINESE HA FATTO PIU' MORTI DEL COVID 19....

La coraggiosa intervista a un magazine cinese (subito censurata) della direttrice del pronto soccorso dell’ospedale Centrale di Wuhan: «Se non avessi obbedito al Partito ora i miei colleghi sarebbero vivi»



Se il Partito comunista cinese avesse ascoltato Ai Fen a dicembre, forse ora l’epidemia di coronavirus non sarebbe così diffusa. Invece l’hanno criticata, zittita e le hanno intimato di «non diffondere voci». Così tutto è degenerato con rapidità impressionante. La direttrice del pronto soccorso dell’ospedale Centrale di Wuhan ha rilasciato martedì un’intervista esplosiva al magazine cinese Renwu, che ora le autorità stanno cercando in ogni modo di censurare. «Se avessi saputo che cosa sarebbe successo, me ne sarei infischiata dei rimproveri da parte dei miei superiori», ha dichiarato. «Ne avrei fottutamente parlato a chiunque e dovunque».

«NON DIFFONDERE MESSAGGI SUL VIRUS»

Il 30 dicembre, dopo settimane passate a visitare decine di malati affetti da una strana influenza resistente alle normali cure, Ai ha ricevuto dal laboratorio i risultati delle analisi fatte su un paziente. Nel rapporto c’era scritto “Sars coronavirus”. Ai sudò freddo e avvisò subito il responsabile del reparto di pneumologia, che non fece nulla. Poi cerchiò il risultato, fece una foto al rapporto e la inviò ad altri otto colleghi in diversi ospedali di Wuhan.


La stessa notte, Ai ricevette un messaggio dal suo ospedale che le intimava di non diffondere informazioni intorno alla malattia misteriosa «per evitare il panico». Due giorni dopo, il capo del comitato di Partito interno all’ospedale la rimproverò per aver «diffuso voci e messo in pericolo la stabilità» e le vietò di diffondere messaggi o immagini relative al virus. «Mi fece sentire come se fossi io a rovinare il futuro di Wuhan. Mi stava punendo solo per aver fatto il mio lavoro. Ma come potevo non dire niente a nessuno davanti a un nuovo virus così pericoloso? Io avevo solo seguito il mio istinto di medico. Se solo potessi tornare indietro, lo direi a tutti: i miei colleghi non sarebbero morti».

«IL TRIPLO DEI PAZIENTI AL PRONTO SOCCORSO»

Ai Fen, proprio come Li Wenliang (morto il 6 febbraio per aver contratto il virus dopo aver denunciato l’epidemia, senza che le autorità lo ascoltassero), obbedì alle autorità ma chiese almeno il permesso di vestire maschere e camici protettivi. Il capo dell’ospedale le rispose di no, perché questo avrebbe potuto allarmare la popolazione. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: quattro colleghi di Ai dell’ospedale, compreso Li, sono morti e molti altri si sono ammalati.

«Sempre più pazienti arrivavano al pronto soccorso mentre il raggio dell’infezione si allargava», continua Ai nell’intervista. «Era evidente che il virus poteva essere trasmesso dalle persone». Il 21 gennaio, nota il Guardian, quando le autorità cinesi hanno confermato il pericolo per il nuovo virus, al pronto soccorso dell’ospedale Centrale di Wuhan arrivavano già oltre 1.500 pazienti al giorno, contro una media usuale di neanche 500.

La direttrice del pronto soccorso ricorda il caso di un uomo che guardava fisso nel vuoto mentre un medico gli consegnava il certificato di morte del suo figlio 32enne, quando ancora non si computavano i registri delle vittime del coronavirus. O quello di un padre così malato che non riusciva neanche a scendere dall’automobile. Quando Ai gli si fece incontro per aiutarlo, lui le morì davanti. La dottoressa ha raccontato tutte queste esperienze senza preoccuparsi delle possibili ripercussioni, ma da due giorni, cioè da quando l’intervista è stata pubblicata in Cina, nessuno ha più sue notizie.

«EDUCHIAMO WUHAN A RINGRAZIARE IL PARTITO»

Se il regime comunista, invece che punire Ai, Li e altri sette medici, avesse dato loro retta forse avrebbe evitato la morte di migliaia di persone. Ma era troppo impegnato a difendere la propria immagine e a non compromettere la riunione provinciale del Partito a Wuhan (7-17 gennaio). Avrebbe almeno potuto ringraziare i medici che hanno affrontato la crisi in prima linea, mentre i vertici del Partito comunista se ne stavano comodamente al riparo a Pechino (il segretario generale e presidente Xi Jinping si è fatto vedere per la prima volta martedì dopo un mese e mezzo).


Invece no, nessun ringraziamento. Anzi, il segretario del Partito di Wuhan, Wang Zhonglin, ha lanciato un’inedita campagna per «educare la popolazione a mostrare gratitudine verso il Partito comunista». Cioè lo stesso Partito che, elogiato in Italia da tanti ammiratori, ha causato la diffusione dell’epidemia in Cina, silenziando per oltre un mese e mezzo tutti coloro che hanno cercato di avvertire la popolazione del rischio che correva.

IL VIRUS DI WUHAN «NON È CINESE»

La campagna di «educazione alla gratitudine», che ha fatto infuriare i cittadini di Wuhan – tanto che il segretario provinciale del Partito, Ying Yong, è dovuto intervenire a mettere una pezza definendoli «eroi» -, è in questi giorni accompagnata da una seconda campagna di propaganda. Quella finalizzata a mettere in dubbio che il coronavirus di Wuhan sia un virus “cinese”. Il primo a suonare lo spartito scritto da Pechino è stato l’ambasciatore cinese in Sud Africa, Lin Songtian: «Studi di scienziati di tutto il mondo confermano che ancora non si conosce l’origine del Covid19. L’Oms ripete che bisogna evitare qualunque stigmatizzazione» nei confronti della Cina. Zhang Ping, console generale della Cina a Los Angeles, ha aggiunto in un editoriale sul Los Angeles Times: «Nell’era della globalizzazione virus come questo ci insegnano che le epidemie non hanno confini. Contro la Cina ci sono attacchi ideologici e razzisti». La battaglia del regime contro la realtà procede a passo spedito.


Le scarpe turche per calpestare Gesù ogni giorno

GESU' DISSE: "PADRE PERDONO LORO PERCHE' NON SANNO QUELLO CHE FANNO"....




I cristiani del Kurdistan iracheno sono riusciti a costringere il governo locale a ritirare dal commercio un modello di scarpe da donna molto particolare. Realizzato in Turchia, come si vede dall’immagine, presenta sulla suola una tradizionale croce assiro-caldea, la principale denominazione cristiana che abita il nord dell’Iraq.

Le scarpe, che come riporta l’agenzia Aina sono state trovate in un “Mega Mall” a Erbil, sono state prodotte da un fabbrica turca chiamata Flo, situata a Gaziantep, e importate dal governo nel Kurdistan iracheno. I cristiani hanno protestato veementemente contro la vendita di queste scarpe che permetterebbe a chi le indossa di calpestare la croce a ogni passo.

Dopo le proteste, il governo musulmano del Kurdistan iracheno ha proibito la vendita in alcuni negozi, ma non in tutti. Segno che la discriminazione in Iraq e in Turchia verso i cristiani non si è mai allentata, nonostante le dichiarazioni di facciata delle autorità.

Ridateci il diritto umano di piangere sui nostri morti

L’appello di una studentessa universitaria al presidente del Consiglio e al governo contro il divieto di celebrare funerali come misura anti-coronavirus

CI SENTIAMO DI SOTTOSCRIVERE L'APPELLO ACCORATO. I MORTI VANNO SEPOLTI CON TUTTI I CONFORTI. E' UNA DELLE OPERE DI CARITA' CORPORALE, COME INSEGNA LA CHIESA....  

Riproponiamo di seguito il testo di una petizione rivolta al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, fatta circolare nei giorni scorsi da Francesca Benedetta Penna, lecchese, studentessa all’Università Cattolica di Milano.

In questi giorni stiamo vivendo una condizione radicalmente nuova, che ci impone nuovi stili di vita e nuove responsabilità al fine di contenere e gestire al meglio l’emergenza coronavirus. Ognuno è chiamato a prendere delle decisioni per proteggere sé stesso e gli altri. Ma, leggendo il decreto del presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) dell’8 marzo 2020, articolo 1, comma 1, lettera i, e il decreto del 9 marzo, articolo 1, comma 1, non posso non pormi delle domande. Di fronte alla morte non basta liquidare l’argomento con la benedizione della salma e della tomba, sospendendo i funerali. 

La perdita di una persona cara è un’esperienza drammatica, che necessita di spazi adeguati per vivere il lutto nella sua dimensione personale e sociale, oltre che religiosa. Il funerale permette, nella nostra cultura, di vivere il cordoglio e iniziare una corretta elaborazione.


Non celebrare funerali pubblici oggi è comprensibile, risponde ad un’esigenza straordinaria di salute pubblica, ma non celebrare i funerali affatto, neanche in forma privata alla presenza dei parenti stretti, rispettando le distanze di sicurezza, introduce a mio parere un elemento di disumanità e crudeltà intollerabile, lede i diritti umani. 

Siamo chiamati a fare la nostra parte rispettando le leggi, ma la situazione non deve farci perdere di umanità. In che misura fare un funerale, con tutte le limitazioni, è potenzialmente maggiore fonte di contagio rispetto ad andare a fare la spesa, con tutte le limitazioni?

Ma perché dovrebbe essere più pericoloso avere un rito funebre per i familiari stretti di una persona che oggi viene a mancare, per il coronavirus o non, piuttosto che andare a lavorare, per coloro che dovranno continuare a lavorare ad esempio per la produzione di generi alimentari o macchinari medici? Chi dice che c’è meno rischio per chi consegna a domicilio che per chi va al funerale di un parente estinto? 

Non c’è dubbio sul fatto che determinati lavori non si possono fermare per consentire la sopravvivenza della popolazione, ma come si stabilisce cosa è necessario per sopravvivere e cosa no?


Nelle situazioni di crisi gli spazi per coltivare l’umanità delle persone, per riconoscerne e accoglierne la fragilità, sono i primi a perdersi. Il mio appello è: restiamo umani.

Chiedo al presidente Giuseppe Conte, e al governo, in questo difficile momento storico, di autorizzare le cerimonie funebri. Chiedo alla Conferenza Episcopale Italiana di prendere posizione in proposito.

La petizione è ospitata da change.org

Foto Ansa


Coronavirus. La Germania affonda l’Europa per salvare se stessa



Il Corriere scrive che Berlino ha cercato di approfittare dell’epidemia per imporre all’Italia un regime lacrime e sangue alla greca

NON ABBIAMO BISOGNO DELLE MASCHERINE DELLA NAZISTA MERKEL. L'ITALIA E' GENEROSA ABBASTANZA DA FABBRICARLE GRATIS GRAZIE AD UNA PICCOLA AZIENDA DEL CILENTO ( https://www.tempi.it/facevo-materassi-mi-sono-messo-a-fare-mascherine-per-regalarle/ )

L'ITALIA SEMPRE SUPERIORE E GRANDE IN GENEROSITA'. 
W L'ITALIA! 💖



«La Germania non è più adatta a guidare l’Unione Europea» ha dichiarato a tempi.it l’europarlamentare Massimiliano Salini all’indomani dell’improvvido discorso della presidente della Bce, Christine Lagarde. Una posizione che fino a poco tempo fa sarebbe stata tacciata di sovranismo, mentre ora viene sostenuta tra le righe anche dal Corriere in prima pagina.

BERLINO VUOLE METTERE NELL’ANGOLO L’ITALIA

Federico Fubini in un editoriale ha notato che, mentre Lagarde faceva retromarcia dopo aver dichiarato che «non è compito della Bce far scendere lo spread», parole che hanno scatenato una tempesta finanziaria speculativa su molti paesi europei come l’Italia, i tedeschi Jens Weidmann e Isabel Schnabel, rispettivamente presidente della Bundesbank e componente dell’esecutivo della Bce, «non hanno detto una sola parola». Il motivo è tanto semplice quanto preoccupante:

«Quei silenzi rivelano la partita politica che si sta giocando sotto la tragedia dell’epidemia. In certi ambienti europei serpeggia l’idea che questo è il momento in cui l’Italia finisce in un angolo e dovrà accettare quel che ha sempre rifiutato: un salvataggio del Fondo monetario internazionale o delle istituzioni europee. Dovrà accettarne anche le condizioni, naturalmente. Vista da Berlino, ma non solo, c’è una finestra che si apre per impostare dall’esterno le scelte che sblocchino in futuro l’economia italiana e riducano – magari un po’ forzosamente – il suo vasto debito pubblico».

I DUE MURI DI BERLINO CHE DANNEGGIANO L’UE

Nel momento del bisogno dunque non solo la Germania non aiuta l’Italia, ma trama dietro le quinte per imporle un futuro lacrime e sangue alla greca. Sempre il Corriere, in un secondo articolo, spiegando le misure intraprese dall’Ue per rispondere alla crisi, nota che «il maxi piano di stimoli per la crescita» invocato da Francia, Italia e molti altri paesi è stato osteggiato proprio dal ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz, che nel frattempo «ha varato con la Merkel un piano di liquidità per la Germania da ben 550 miliardi».

La Germania non decide di «andare avanti da sola», magari danneggiando gli altri partner europei, solo in economia. Ieri il governo della cancelliera Merkel ha deciso di alzare un bel muro attorno al proprio paese, chiudendo unilateralmente le frontiere con Austria, Francia e Svizzera. Il tutto mentre la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, annunciava la chiusura dell’area Schengen per 30 giorni ai viaggi non necessari, ma chiedeva a tutti i paesi di mantenere aperte le frontiere interne. Commenta ancora Fubini: «Ognuno per sé, proprio come fece nel 2008-2009 con le banche gettando le basi della crisi dell’euro. Così, senza il leader naturale, l’idea di Europa dà una prova di debolezza tale che tutti l’attaccano».

LE MASCHERINE DELLA VERGOGNA

L’atteggiamento profondamente antieuropeo della Germania si è reso evidente per la prima volta settimana scorsa, quando milioni di mascherine acquistate dall’Italia (19 milioni in tutto in diversi paesi secondo l’Ansa) sono state bloccate in Germania dopo l’ordine da parte del governo di vietare l’esportazione di materiale sanitario. Solo un deciso intervento di protesta di Bruxelles ha convinto Berlino ad aprire le frontiere per lasciar passare i camion carichi di presidi ospedalieri (acquistati tra l’altro dall’Italia in paesi terzi e già pagati). Il comportamento dei tedeschi che mira a danneggiare gli alleati europei proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di unità «mette in gioco il futuro dell’Ue», conclude Fubini. Difficile dargli torto.

Foto Ansa

San Giuseppe prototipo della Consacrazione a Maria


(P. Serafino M. Lanzetta) Il mese di marzo è dedicato alla grande figura di san Giuseppe. In questa riflessione vorrei mettere in rilievo il mistero dell’unione di san Giuseppe con la Beata Vergine Maria. In ciò vi è la sorgente di tutte le grazie di cui è ricco il mistero giuseppino,oltre che al modo in cui il Santo di Nazareth viene introdotto dal Nuovo Testamento ed è conosciuto nella Chiesa. Se guardiamo attentamente alla sua vita, tutto accade per mezzo di Maria. Giuseppe comincia ad essere conosciuto come lo sposo di Maria (vedi Mt 1, 16) e proprio in ragione di questa relazione sponsale – da essere approfondita nella sua profondità spirituale – è introdotto nel mistero di Cristo divenendo suo padre putativo. Tutto per Maria.

Concentriamoci per un momento sul Vangelo di Matteo (1, 18-19) dove Giuseppe di Nazareth viene presentato prima di tutto quale sposo di Maria e quindi come “uomo giusto”: «Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto». Con ciò comprendiamo che Maria e Giuseppe erano già sposati quando la Vergine si trovò incinta miracolosamente del suo Figlio Gesù. Dicendo «promessa sposa», il Vangelo mette in evidenza il costume ebraico di celebrare le nozze in due momenti: l’unione legale, quale vero matrimonio con tutti gli effetti civili e religiosi e la coabitazione che poteva avvenire anche un anno dopo la promessa di matrimonio. Anche il Vangelo di Luca riferisce che Giuseppe era già unito a Maria da un patto matrimoniale. Infatti l’angelo fu mandato «a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe» (1, 27). Da questa unione sponsale benedetta con Maria prende forma anche la relazione di san Giuseppe con Gesù. Il Santo falegname entra in contatto personale con Gesù mediante la Madonna quando è lui a dare il nome “Gesù” al figlio di Maria (cf. Mt 1, 21). Anche al momento dell’adorazione dei pastori, che arrivarono in fretta per vedere il segno di Dio, Giuseppe si trova tra Maria e Gesù: «Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» ci dice il Vangelo (Lc 2, 16); come per dire che il cammino cristiano che conduce a scoprire pienamente chi è quel Bambino è da Maria a Gesù. Attraverso lo sposalizio con Maria, Giuseppe stringe Gesù e lo tiene tra le sue braccia. Egli pertanto è l’icona più perfetta della consacrazione a Maria, dell’adagio classico a Gesù per Maria.

Riflettiamo più a fondo sullo sposalizio unico e verginale di san Giuseppe con la Madonna, vera chiave per capire la figura del Falegname di Nazareth come primo tipo o modello esemplare della consacrazione mariana. Questo matrimonio santo fu senza dubbio straordinario. Nel considerare questo mistero dobbiamo trascendere il suo significato naturale e puntare subito alla profondità dell’aspetto spirituale. Tutto infatti depone a favore di un’unione speciale e interamente spirituale. Nel racconto di san Matteo (1, 18-19) appena citato, circa il fatto che Giuseppe fosse già sposato con Maria pur non coabitando ancora, possiamo scoprire qualcosa in più in virtù di una lettura anagogica del testo. E cioè, mentre Giuseppe era già unito in matrimonio a Maria – inizialmente e legalmente – non era però ancora pienamente unito a lei; ciò potremmo leggerlo nel senso di non essere ancora consacrato a lei, dal momento che la coabitazione sarebbe stata, di comune accordo, verginale e casta. Le ragioni di ciò le vedremo tra breve. Il matrimonio giuseppino dovrebbe essere considerato sotto un’altra luce in riferimento a due momenti superiori: l’unione maritale iniziale e la sua consumazione, da essere letta come consacrazione a Maria: una piena donazione di se stesso alla Vergine. La consumazione del matrimonio allora acquisterebbe un significato spirituale nuovo, preannunciando ciò che Gesù sceglierà nel suo matrimonio mistico con la Chiesa sulla Croce. Come per Gesù Crocifisso il dono di sé alla Sposa è “consumato” nel suo amore «fino alla fine» (Gv 13,1), amore totale fino alla morte, così sarà per san Giuseppe. Il suo totale amore a Maria sarà consumato nel sacrificio di se stesso fino alla morte per essere uno con Maria e ciò al fine di partecipare alla Redenzione di Cristo. Questa consacrazione a Maria accade dopo la rivelazione dell’Angelo, quando Giuseppe ha la piena conoscenza di chi è Maria e chi è quel Figlio che Lei portava in grembo. Ora Giuseppe è pronto per prendere Maria nella sua vita e per mezzo di Lei di prendersi cura di Gesù. Possiamo contemplare tutto ciò alla luce del racconto del Vangelo di Matteo (1, 20-24), in cui leggiamo: «Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo;ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlioa lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».

Qui dovremmo concentrarci soprattutto sull’ultima frase di questa pericope, che nell’originale greco recita così: «kaiparélabentèngunaîkaautou» («prese con sé la sua sposa»). Il verbo para-lambano, “prendere”, ha generalmente due significati: 1) prendere con sé, unire a sé o 2) ricevere ciò che è trasmesso. Questo verbo è lo stesso che troviamo nel Vangelo di Giovanni (19, 27) per descrivere l’atto del prendere/ricevere Maria nella propria vita da parte del discepolo prediletto: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (l’originale dice: «élaben o mathetèsautèneistaídia», “la prese tra le sue cose più care”). Quindi, possiamo facilmente concludere che anche Giuseppe, prima di ogni altro, da quell’ora, l’ora in cui fu istruito dall’Angelo per mezzo dello Spirito Santo circa il mistero di Maria e del Bambino nel suo grembo (echeggianti le parole di Nostro Signore sulla Croce al discepolo prediletto in riferimento alla sua Madre), prese Maria con sé. Da quel momento dell’unione piena e perfetta con Maria, Giuseppe consegnò se stesso interamente a Lei, così che attraverso di Lei potesse entrare nel mistero di Cristo e partecipare attivamente all’opera della Redenzione.


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Bisogna chiarire un ultimo punto al fine di presentare un quadro completo del matrimonio di San Giuseppe con Maria quale consacrazione a Lei. Il fatto che il matrimonio fu verginale è di grande importanza. Questo prova che la consegna completa che Giuseppe fece di se stesso a Maria durante la seconda fase delle nozze deve essere intesa piuttosto come consumazione spirituale di quella unione. Il Vangelo, sottolineando il modo in cui Giuseppe accoglie Maria nella sua vita, dice anche che «senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (Mt 1, 25). Questa è certamente la traduzione corretta del testo originale che però presenta la particella “fino a” (éos). Con una traduzione più letterale, si dovrebbe rendere il testo così: Giuseppe «non la conobbe fino a quando ella partorì il suo figlio ed egli lo chiamò Gesù». La preposizione “fino a”, comunque, non sta a significare che dopo la nascita di Gesù, Maria e Giuseppe ebbero una normale relazione maritale. Infatti ci sono diversi esempi biblici in cui “fino a” non implica mai un cambiamento successivo. Possiamo richiamare tra i tanti, ad esempio, le parole del Salmo messianico (109 [110],1): «Oracolo del Signore al mio signore: siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». Ovviamente Cristo non regna alla destra del Padre solo fino a quando i suoi nemici saranno sconfitti. Anche quando Gesù promise ai suoi Apostoli di rimanere con loro «fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20), non volle lasciar intendere che sarebbe stato con loro solo fino alla Parusia. Al contrario, con la preposizione temporale “fino a”, l’Evangelista desidera dire che Giuseppe e Maria, diversamente da una coppia giudaica ordinaria, non consumarono il loro matrimonio durante la prima notte di nozze. Questo perché Maria aveva fatto voto di verginità, come chiaramente appare dalla sua risposta all’Angelo: «Non conosco uomo» (Lc 1, 34). Ciò non era sconosciuto alla tradizione giudaica, ma fu un voto di astinenza secondo il libro dei Numeri (cap. 30) che Giuseppe aveva accettato e quindi avallato.

Proviamo ora a trarre qualche conclusione da tutto ciò. Immagiamo ciò che poté significare a livello pratico per san Giuseppe ricevere Maria nella sua vita, cosicché ognuno possa avere nel grande Patriarca un modello di consacrazione a Maria. Fu anzitutto per san Giuseppe condividere tutta la sua vita: pensieri, volontà, beni, con Maria per poter piacere a Gesù e per fare la volontà di Dio; fu ancora essere verginalmente obbediente a Maria per poter essere conformato all’obbedienza di Gesù al Padre; fu amare Maria con tutto il suo cuore casto così da rimanere sempre vigilante nel suo ministero di custode di Cristo e di servo della Redenzione; fu infine rimanere devotamente alla presenza di Maria così da essere sempre alla presenza di Gesù. Conoscere chi è Maria fu per Giuseppe conoscere chi è Dio, dove Egli abita.

La consacrazione a Maria, che san Giuseppe fece prima di tutti e in modo più perfetto, dovrebbe allora mirare ad ottenere in primis quella casta disposizione giuseppina del cuore. Nella misura in cui amiamo la Madonna con un cuore puro, con il cuore puro di san Giuseppe, in risposta, Lei ci accoglie sotto il suo manto di purità e ci rende suoi sposi d’amore, così da essere al sicuro da tutte le insidie di impurità e di empietà presenti nel mondo. Che san Giuseppe sia ancora più conosciuto quale Patriarca di amore a Gesù attraverso Maria e nel suo ruolo di sposo mistico della Santa Vergine.