venerdì 30 novembre 2018

LITURGIA E PREGHIERE DEL GIORNO


PREGHIERE DEL GIORNO
  

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Venerdì 30 Novembre 2018




DEVOZIONI DEL GIORNO



 Mese di Novembre dedicato alle ANIME dei DEFUNTI

  SANTO ROSARIO  da recitare on-line 


  VANGELI 





 Venerdì: Pia pratica della VIA CRUCIS on-line 



LITURGIA DEL GIORNO
- Rito Romano -




 PRIMA LETTURA 

Rm 10,9-18
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani

Fratello, se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!», e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo. Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.
Dice infatti la Scrittura: «Chiunque crede in lui non sarà deluso». Poiché non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che lui stesso è il Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano. Infatti: «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato».
Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: «Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!».
Ma non tutti hanno obbedito al Vangelo. Lo dice Isaìa: «Signore, chi ha creduto dopo averci ascoltato?». Dunque, la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo. Ora io dico: forse non hanno udito? Tutt’altro:
«Per tutta la terra è corsa la loro voce,
e fino agli estremi confini del mondo le loro parole».


 SALMO 

Sal 18
Per tutta la terra si diffonde il loro annuncio.

I cieli narrano la gloria di Dio,
l’opera delle sue mani annuncia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il racconto
e la notte alla notte ne trasmette notizia.

Senza linguaggio, senza parole,
senza che si oda la loro voce,
per tutta la terra si diffonde il loro annuncio
e ai confini del mondo il loro messaggio.


 VANGELO 

Mt 4,18-22
Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, mentre camminava lungo il mare di Galilea, Gesù vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedèo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

giovedì 29 novembre 2018

E RICORDA...

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BUONANOTTE DAGLI ANGELI A TUTTI I BIMBI DEL MONDO

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ANGELO DELLA BUONANOTTE

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ANGELO DELLE MONTAGNE

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"gli angeli contro Antartico pianeta Mercurio"


GLI ANGELI DI GUSTAVE DORE'



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ANGELI DELLE CITTA'

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Generale Bertolini: ‘i militari sanno che non abbiamo una moneta sovrana’

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Generale Bertolini: “Ecco perché difendere i confini nazionali è essenziale” – di Federico Cenci

Il generale Bertolini striglia la politica: “Non c’è sovranità senza moneta propria e interesse per le Forze Armate”

Un uomo d’altri tempi, che coniuga pensiero e azione. Un simbolo delle forze armate italiane. Il generale Marco Bertolini, in congedo dal luglio 2016 per raggiunti limiti d’età, è un paracadutista e veterano delle operazioni militari all’estero.

Ha partecipato a diversi conflitti: nel 1982 in Libano fu ferito e ottenne una medaglia d’oro, dopo di che fu impegnato in ruoli di comando in Somalia, nei Balcani, in Afghanistan, dove dal 2008 al 2009 è stato capo di Stato Maggiore della missione Nato.
Il Generale Bertolini risponde alle domande di Interris

Oggi il suo sguardo continua a rivolgersi alle questioni che riguardano le Forze Armate italiane e la difesa dei nostri confini nazionali.

Lo fa con preoccupazione, perché rileva che negli anni si è assistito a un graduale disinteresse politico nei confronti di aspetti che – come sottolinea nell’intervista ad In Terris che segue – sono determinanti per un Paese che voglia dimostrarsi davvero sovrano.


Generela Bertolini, a giugno lei ha preso posizione scrivendo una lettera per ribadire “la centralità della Difesa nella salvaguardia degli interessi e della sicurezza” del Paese. Che riscontri ha avuto sul tema a cinque mesi di distanza?

“Come fatto in diverse occasioni, ho espresso una posizione che è condivisa da chiunque abbia scelto il mestiere del soldato in merito all’importanza delle Forze Armate. Il riscontro è abbastanza deludente.

Da parte dei militari, che non possono non essere sovranisti, c’è grande attenzione per alcuni temi che vengono sollevati dal Governo.

Almeno una parte dell’Esecutivo è consapevole del fatto che la sovranità si basa sulla disponibilità delle Forze Armate e di una moneta propria.


Ma alle parole non si vedono ancora seguire i fatti. Anzi, giunge qualche segnale scoraggiante: l’estate scorsa è stata presentata una proposta di legge per immettere le associazioni sindacali nelle Forze Armate; il che equivarrebbe, a mio avviso, a una smilitarizzazione di fatto”.
Di cosa avrebbero bisogno le Forze Armate?

“Di investimenti. La Marina ha bisogno di navi. Ma riuscirà a rinnovare la sua flotta, perché negli ultimi tempi c’è stata grande attenzione nei suoi confronti per le operazioni Mar Mediterraneo, Mare Sicuro, Eunavofor Med (operazione Sophia, ndr).

C’è poi l’aeronautica, che ha bisogno degli F35, i quali non sono un giochino per far divertire qualche generale, ma mezzi indispensabili per la nostra operatività e la nostra difesa.

In caso di bisogno, del resto, non esiste la possibilità di comprare un aereo ed averlo subito a disposizione: stiamo parlando di progetti che necessitano di diversi anni per essere sviluppati, ecco allora che interrompere l’acquisizione di un mezzo è pericoloso.

La nostra componente da trasporto ha sofferto problemi di manutenzione spaventosa per molti anni. C’è poi l’Esercito: la forza armata impegnata più pesantemente in questi decenni dai vari Governi, a partire dal Libano nel 1981 per poi arrivare a Somalia, Balcani, Afghanistan, Iraq e ancora oggi in Libano, dove abbiamo 1.100 uomini impiegati.


Ma l’Esercito è stato impegnato a spese sue: ha dato fondo a tutte le sue scorte, perché le leggi finanziarie sono sempre state insufficienti.

La componente corazzata è ridotta all’osso: abbiamo elicotteri che non hanno ore di volo, cioè non hanno carburante sufficiente per poter essere utilizzati.

Abbiamo una scarsità enorme di munizioni. Non abbiamo poi aree addestrative, che sono fondamentali, soprattutto ora che l’Esercito è formato da professionisti, che vanno addestrati tutti i giorni, perché le procedure ed i mezzi militari cambiano continuamente.

Per esemplificare con un argomento che mi sta molto a cuore, anche il parco paracadute dei paracadutisti è ridotto ai minimi termini, con materiali ormai prossimi al termine della vita tecnica”.
Negligenza verso le forze armate

A cosa è dovuta quella che lei denuncia come una negligenza verso le Forze Armate: a una cultura antimilitarista o alla crisi economica che ha portato i Governi a trascurare le spese militari?

“C’è anche un aspetto economico: si è pensato di tagliare le spese militari considerandole improduttive. Ma non è così: la Difesa dà lavoro e produce ricchezza a tutto il Paese. Ma c’è soprattutto un problema culturale.


L’Italia si è illusa di poter fare a meno delle Forze Armate. Si è dato risalto all’art. 11 della Costituzione il quale afferma che l’Italia ‘ripudia la guerra’, mentre è stato dimenticato l’art. 52 il quale sottolinea che ‘la difesa della patria è un dovere sacro del cittadino’.

È così che sono nati artifizi linguistici come ‘missioni umanitarie’, ‘bombardamenti difensivi’, ‘operazioni di polizia internazionale’: tutti modi per nascondere il fatto che le Forze Armate fanno la guerra”.

Generale Bertolini l’Italia oggi è in guerra? “In Afghanistan siamo alleati del Governo afgano che è in guerra con i talebani. Dunque non siamo in interposizione, ma siamo in guerra al fianco dei nostri alleati.

Stesso discorso in Iraq: i nostri soldati sono alleati del Governo iracheno che svolge operazioni belliche. Manca la consapevolezza del compito che le Forze Armate italiane svolgono nei vari teatri di crisi.

Se invece ci fosse consapevolezza, si riuscirebbe forse a dotare le Forze Armate di ciò di cui hanno bisogno”.
La difesa dei confini è ancora importante?

“La difesa dei confini è essenziale. Ma va intesa come difesa di ciò che siamo, perché i confini non sono un mero aspetto territoriale.

Esistono confini fondamentali di carattere culturale, spirituale, storico, linguistico. Se riducessimo tutto alla difesa di un pezzo di terra, allora svuoteremmo di significato il contenuto di una patria, avallando così il concetto di Ius soli che mira invece a svilire l’identità nazionale.

Difendiamo dunque un territorio, ma soprattutto l’italianità. E oggi, nel contesto storico che viviamo, difendere i propri confini significa estendere le proprie azioni anche lontano da casa: bisogna saper difendere gli interessi nazionali all’estero, ad esempio in Africa, dove negli anni sono avvenuti episodi che hanno leso i nostri interessi”.

Fa riferimento alla Libia immagino… “Sì. Purtroppo quando la Francia ha deciso di bombardare la Libia, l’Italia si è dimostrata remissiva, finendo per subire le conseguenze devastanti di quell’operazione militare: le migrazioni verso le nostre coste, la perdita di accordi commerciali molto importanti, nonché l’instabilità in un Paese che per noi è strategico.


Ricordo che noi siamo al centro del Mediterraneo, che oggi è l’area di maggiore turbolenza del globo, dove si affacciano tutte le potenze mondiali: questa posizione ci impone di essere forti, ed essere forti senza avere una sovranità militare e monetaria è impossibile”.
Esercito europeo

Periodicamente si torna a parlare di esercito europeo. Come valuta questa ipotesi? “Sarebbe più corretto parlare di forze armate europee. Ma si tratta di un’idea retorica e improponibile.

L’Esercito è uno strumento di difesa, ma anche di politica estera. Ebbene, se non esiste una politica estera europea come può esserci l’Esercito europeo?

Prima abbiamo parlato della Francia (alla quale va aggiunta la Gran Bretagna), che hanno bombardato la Libia contro i nostri stessi interessi.

E ancora: la Francia oggi sta svolgendo un’operazione in Africa con la quale controlla i suoi ex possedimenti coloniali.

Sono esclusivi interessi nazionali. Come interesse nazionale francese è il possesso di armi nucleari, Parigi non sarebbe disposta a metterle a disposizione di altri Stati dell’Ue.

Ma parliamo anche dell’Italia: la nostra Costituzione prevede che il comandante supremo delle forze armate sia il presidente della Repubblica, proprio perché è un presidio di sovranità. Come potrebbe dipendere da una comunità internazionale?”.
Radici spirituali

Prima ha parlato di radici spirituali da difendere… “In quanto italiani, abbiamo una cultura forgiata anche dalla religione, che è elemento comune dalle Alpi alla Sicilia: abbiamo dialetti e alcune tradizioni diversi, ma abbiamo sempre venerato gli stessi santi e costruito le stesse chiese.

Questo è un tratto comune fortissimo. Difendere la patria significa quindi difendere anche la nostra visione religiosa, che non può che essere cattolica.


Ed è una visione agli antipodi dall’arrendevolezza, è forza: per essere missionari, ad esempio, c’è bisogno di forza. Amare il prossimo come sé stessi è un gesto coraggioso, ardito”.

C’è anche chi ritiene sia incompatibile essere cristiani e militari…
“Sono cristiano, cattolico e mi sento a mio agio come militare. Non vedo alcuna incoerenza. Grandi Papi, come San Giovanni Paolo II, non hanno mai nascosto la loro vicinanza ai militari.

Questi ultimi non sono biechi esecutori di violenza senza criterio, ma sono coloro in grado di sacrificare sé stessi per il bene degli altri. Mi sembra un concetto, quest’ultimo, tutt’altro che lontano dai dettami evangelici”.

Fonte: Interris

Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?

Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanzaglobale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore Giuliano Amato, nel 2011 advisor di Deutsche Bankdei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno. Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni. Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.
A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna. BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o Lucio Caracciolovendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che «incorporano anche pesanti elementi politici».
Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, «agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e «manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, «con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo». Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto «ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato «il più importante personaggio della finanzamondiale», eppure resta «virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.
Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro. «Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Larry Fink, il boss di BlackRockIsole Vergini Britanniche. «Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».
«Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, «con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank. «E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?
La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro Alfred Herrhauseneconomista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.
Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi. «Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.
Scriveva il settimanale: «Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs». Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, «si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, Maria Grazia Bruzzoneamministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.
A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. «Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. «La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».
Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc. Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.
Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici. La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza. Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Tim GeithnerMorgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.
Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel  2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank. Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? «Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?». E’ un processo che va avanti da anni, «accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica». Tutto ciò è «evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza.