lunedì 29 ottobre 2018

FOLLIA DA SHARIA IN PAKISTAN: ANCHE I BAMBINI IN PIAZZA A CHIEDERE L’IMPICCAGIONE DELLA CRISTIANA ASSIA BIBI ACCUSATA DI BLASFEMIA PER UN BICCHIERE D’ACQUA

Su Assia Bibi e altri martiri di oggi... 

di Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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Ha il volto di fanciullo dallo sguardo cupo e perso nel vuoto, avrà nemmeno 9 anni e con tutta probabilità non capisce nulla di quella caotica protesta per le strade del suo paese, il Pakistan, che gli fa aggrottare le sopracciglia. Tiene energicamente in mano un cartello con una grossa scritta: a differenza di quelli ostentati dai grandi non è in lingua urdu ma in inglese. Ci sono scritte soltanto due lapidarie, terrificanti parole “Hang Assia”: impiccate Assia. Un messaggio volutamente in lingua internazionale perché potesse essere catturato dai fotoreporter, come ha fatto Aamir Qureshi che lo ha immortalato per AFP. E’ questa la risposta dei musulmani pakistani integralisti al rinvio del pronunciamento dei giudici sulla condanna a morte della donna cristiana Assia Naurin Bibi, 47 anni, di cui 8 trascorsi in carcere, alcuni dei quali in isolamento ed in condizioni igieniche disumane, accusata di blasfemia per un bicchiere d’acqua e la difesa della sua fede.
Lunedì 8 ottobre la Suprema Corte di Islamabad, dopo aver ascoltato l’ultimo appello dei suoi avvocati difensori, ha aggiornato l’udienza per il verdetto a data da definire. I giudici avrebbero già emesso il verdetto finale ma hanno altresì ritenuto necessario tenerlo per ora nascosto senza comunicare quando lo renderanno pubblico. Ciò ha fatto infuriare gli estremisti che si aspettavano, dopo otto lunghi anni, l’impiccagione immediata. Venerdì scorso, 12 ottobre, diverse migliaia di fondamentalisti islamici si sono riversati per strada in gran numero a Lahore, ma anche in altre città del paese come Karachi e Rawalpindi, per una manifestazione organizzata dal partito anti-blasfemia Tehreek-e-Labaik Pakistan (TLP). La richiesta una sola: impiccate Assia. Una sentenza di popolo che ricorda tanto quel “crocifiggilo” pronunciato dai Giudei davanti a Ponzio Pilato contro Gesù. E, proprio come il Messia dei Cristiani cui è devota, la bracciante agricola pakistana è finita sotto processo e rischia la morte solo per una frase, pronunciata in un diverbio con un’altra lavoratrice musulmana: «Non ho intenzione di convertirmi. Credo nella mia religione e in Gesù Cristo, che morì sulla croce per i peccati dell’umanità. Che cosa ha mai fatto il tuo profeta Maometto per salvare l’umanità? E perché dovrei essere io che mi converto al posto tuo?». Purtroppo di questa vergognosa e tremenda mobilitazione di massa per l’impiccagione di una donna che ha soltanto difeso la sua fede ha scritto con risalto solo l’agenzia d’informazione Russia Today, il Washington Post ed il mensile Tempi…
CONDANNATI DALLA LEGGE, GIUSTIZIATI DAL POPOLO
La protesta degli islamici integralisti pakistani a Rawalpindi © AFP / Aamir Qureshi
Mentre sull’isola di Lesbo, nell’occidentale Grecia, viene abbattuta una croce eretta dagli abitanti per non infastidire i migranti di altre religioni, su richiesta degli operatori di una Ong, mentre in Italia si replicano le autocensure contro i simboli del Natale e della Cristianità, nel resto del mondo i cristiani vengono perseguitati anche attraverso la legge con processi che spesso hanno ben poco di regolare. Uno dei casi più eclatanti è appunto quello della pakistana ma ce ne sono altri di cui parleremo in ulteriori articoli. Se in Africa e nelle aree mediorientali straziate dalle guerre civili sono all’ordine del giorno uccisioni e massacri di cristiani ad opera di organizzazioni terroristiche come Isis o Boko Haram, in alcuni paesi del Medioriente ma soprattutto nelle nazioni islamiche della penisola Indiana e del Far East le persecuzioni avvengono addirittura nel nome della legge. In Pakistan vige una delle più terribili applicazioni della Sharia contro gli infedeli o chi si macchia di blasfemia verso l’Islam o il Profeta: impiccagione anche in assenza di prove specifiche. Basta, come nel caso di Assia Bibi, che qualcuno denunci un episodio di blasfemia e scatta il processo che, se l’accusa viene ritenuta minimamente fondata, può portare alla condanna a morte. Fino ad ora nessuna condanna capitale per blasfemia è mai giunta a reale applicazione; forse anche per questo, dinnanzi agli integralisti sunniti pakistani, l’impiccagione della donna cristiana reclusa ha un’importanza esemplare: è infatti l’unica ad aver visto la sua condanna confermata in Appello. Ma come spiegherò nei prossimi paragrafi in vari casi le pene capitali non sono state eseguite perché imputati o condannati sono stati illegalmente giustiziati in precedenza da fanatici religiosi. Quindi le lungaggini e i rinvii della giustizia sembrano diventare propizi ad una premorienza dei reclusi nel braccio della morte che evita alle autorità politiche di esporsi alle condanne internazionali. Non va dimenticato infatti che sulla testa di Bibi pende anche una pesante taglia…
LA TAZZA D’ACQUA CHE PUO’ COSTARE LA MORTE
Assia Bibi, la donna cristiana in carcere in Pakistan per una domanda su Maometto dal 2009
I guai della donna iniziano il 14 giugno 2009 nei campi di un paesino del Punjab dove è intenta a raccogliere bacche come bracciante agricola a giornata. Secondo l’autobiografia scritta da lei stessa “Blasfemia: memoria di un condannato a morte per una tazza d’acqua” tutto comincia quando si avvicina al pozzo per dissetarsi vista la gran calura. Un’altra lavoratrice musulmana la vede e le grida: “Non bere quell’acqua, è haram (proibito)!” La stessa si rivolge poi alle altre donne islamiche presenti nel campo dicendo che Bibi aveva sporcato la tazza per attingere al pozzo: “Ora l’acqua non è pura e non possiamo più berla! Grazie a lei!”. A quel punto inizia un concitato diverbio religioso in cui Assia viene accusata di essere “una cristiana ripugnante” e le viene intimato di convertirsi all’Islam. E’ in quel momento che lei replica con le frasi che gli valgono la denuncia per blasfemia: «Non ho intenzione di convertirmi. Credo nella mia religione e in Gesù Cristo, che morì sulla croce per i peccati dell’umanità. Che cosa ha mai fatto il tuo profeta Maometto per salvare l’umanità? E perché dovrei essere io che mi converto al posto tuo?». A quel punto una delle musulmane le sputa addosso, un’altra la spinge. Poi lo riferiscono agli uomini che corrono a denunciarla alle autorità. Viene così picchiata, chiusa in uno stanzino, stuprata e infine arrestata pochi giorni dopo nel villaggio di Ittanwalai, nonostante contro di lei non ci sia nessuna prova. Viene poi condotta nel carcere di Sheikhupura dove comincia il suo calvario giudiziario, in minima parte alleviato dall’assistenza legale garantita dall’ong Masihi Foundation (Mf) che fu la prima a denunciare le terribili condizioni di detenzione della donna. La stessa Bibi narra che dovette invocare spesso e intensamente il conforto di Gesù Cristo per trovare un po’ di pace almeno interiore: «In primo luogo vivevo frustrazione, rabbia, aggressività. Poi, grazie alla fede, dopo aver digiunato e pregato, le cose sono cambiate in me: ho già perdonato chi mi ha accusato di blasfemia – confidò Assia – Questo è un capitolo della mia vita che voglio dimenticare». Ma il suo perdono non fu sufficiente perché iniziò il lungo iter giudiziario.
IL CALVARIO GIUDIZIARIO E L’OMICIDIO DEL GOVERNATORE
L’11 novembre 2010, oltre un anno dopo l’arresto, giunge la prima sentenza in cui il giudice di Nankana Sahib, Naveed Iqbal, esclude «totalmente» la possibilità che Assia Bibi sia accusata ingiustamente, aggiungendo inoltre che «non esistono circostanze attenuanti» per lei. A nulla è valsa l’attenzione dei media e l’invito alla grazia di Papa Benedetto XVI: la famiglia non può far altro che presentare ricorso all’Alta Corte di Lahore. Nel frattempo, come riferì in un articolo Marco Tosatti su La Stampa il 26 febbraio 2012, circolarono indiscrezioni sul fatto che Qari Salam, l’uomo che aveva denunciato Assia Bibi di blasfemia, si sarebbe pentito di aver sporto la denuncia perché basata su pregiudizi personali ed emozioni religiose esasperate di alcune donne del villaggio. Costui avrebbe quindi pensato di non portare avanti l’accusa ma si sarebbe scontrato con le intimidazioni da parte di organizzazioni fondamentaliste islamiche. Pressioni da non sottovalutare visto che nel frattempo gli integralisti avevano colpito a morte.
Il Governatore del Punjab, Salmaan Taseer, ucciso per il suo impegno a depenalizzare il reato di blasfemia e nella causa di Assia Bibi

Il governatore del Punjab, Salmaan Taseer, che si era recato a trovare Asia Bibi in carcere ed era impegnato nella revisione delle norme sulla blasfemia, viene ucciso il 4 gennaio 2011 a Islamabad da una delle sue guardie del corpo. Due mesi dopo, anche il ministro per le Minoranze religiose Shahbaz Bhatti, cattolico, è assassinato da estremisti islamici. Per questioni di sicurezza Bibi è trasferita dal carcere di Sheikhupura a quello femminile di Multan. Per i familiari diviene così quasi impossibile vederla spesso, dato che le due località distano sei ore di auto. Il 16 ottobre 2014, dopo quasi quattro anni dalla presentazione del ricorso avverso alla sentenza di primo grado, l’Alta Corte di Lahore conferma la pena capitale per la donna. Ma il 22 giugno 2015 la Corte Suprema sospende l’esecuzione della condanna in attesa di un verdetto definitivo.
L’APPELLO DELL’IMAM E LA TAGLIA MILIONARIA
Abdul Aziz, l’imam integralista della Moschea Rossa di Islamabad finito anche agli arresti perchè sospettato di fiancheggiare estremisti violenti
«“Giustiziate al più presto la blasfema Asia Bibi e non piegatevi alla pressione internazionale». L’appello è stato lanciato il 3 marzo in Pakistan dall’imam Abdul Aziz, a capo dell’ultra estremista Moschea rossa di Islamabad, a pochi giorni dall’impiccagione di Mumtaz Qadri, la guardia del corpo che uccise il governatore musulmano del Punjab, Salman Taseer, proprio perché difese Asia Bibi denunciando la “legge nera” sulla blasfemia» a scriverlo è Leone Grotti, il 9 marzo 2016 sul mensile Tempi. E la reazione dei musulmani integralisti, aizzati dal partito anti-blasfemia Tehreek-e-Labaik Pakistan (TLP), non si fa attendere come racconta Lucia Capuzzi il 28 marzo 2016 su Avvenire: «“Impiccate Asia Bibi”. Il grido risuona da due giorni appena fuori dalla “zona rossa”, il centro di Islamabad dove sono concentrate le sedi delle istituzioni pachistane. Almeno 30mila manifestanti, secondo fonti locali, arrivati dalla città-gemella Rawalpindi, resistono, imperterriti, allo sbarramento militare. E cercano di “sfondarlo”, per portare la protesta proprio di fronte al Parlamento. Il corteo, organizzato dai gruppi fondamentalisti islamici Sunni Tehreek (St) e Tehreek-i-Labbaik Ya Rasool (Saw), chiede la “riabilitazione” di Mumtaz Qadri, messo a morte il 29 febbraio scorso. L’esecuzione di quest’ultimo è stato un duro colpo per gli estremisti, che lo considerano un “martire”».
La folla di integralisti islamici scesa in piazza a Lahore in Pakistan venerdì scorso per chiedere l’impiccagione di Assia Bibi
Da singolo caso giudiziario la vicenda ha quindi assunto i contorni di una vera persecuzione religiosa tanto che sulla testa di Bibi i fondamentalisti pongono una taglia di 50 milioni di rupie (circa 430 mila euro). Da quel momento inizia per la donna una carcerazione assai pericolosa: «Solo suo marito può vederla in prigione e le è stato consigliato di cucinarsi da sola il cibo per evitare che venga avvelenata. Tutte le guardie responsabili della sua sicurezza sono state vagliate dall’intelligence per escludere gli estremisti» riferirono ai giornali gli attivisti dell’Ong che seguiva il suo caso. A distanza di due anni ora la storia si ripete: mentre la Suprema Corte si è riservata di rivelare il contenuto del verdetto in risposta alla richiesta difensiva di assoluzione ecco subito le proteste di miliaia di fanatici integralisti nelle città pakistane. E l’accresscersi delle tensioni rende sempre più reale il pericolo che qualcuno cerchi di ucciderla in cella.
UCCISI IN CARCERE PRIMA DELLA PENA CAPITALE
«In Pakistan, la pena capitale è stata estesa anche ad alcune circostanze previste dalla Sharia, come rapporti sessuali extraconiugali e blasfemia – si legge in un dettagliato rapporto di Nessuno tocchi Caino – La legge contro la blasfemia è stata introdotta dal generale Mohammad Zia-ul-Haq nel 1985 e prevede la pena di morte per chi offende il Profeta Maometto, altri profeti o le sacre scritture. In base all’Articolo 295-C del Codice Penale pakistano, “Chiunque con le parole, sia pronunciate che scritte, o con rappresentazione visibile o qualsiasi attribuzione, allusione, insinuazione, direttamente o indirettamente, offende il sacro nome del Profeta Muhammad (pace a Lui), deve essere punito con la morte o il carcere a vita, ed è anche passibile di multa”. Dai tempi di Zia a oggi molte centinaia di persone sono state incriminate in base alla legge sulla blasfemia. Nessuno è stato giustiziato e molte condanne per blasfemia sono state poi respinte in appello. Ma decine di persone in attesa del processo o assolte dalle accuse sono state massacrate da fanatici religiosi – evidenzia l’organizzazione umanitaria che lotta contro la pena di morte nel mondo riferendo anche degli avvocati perseguitati ed attaccati anche dai giudici e riportando alcuni inquietanti dati – Al 25 settembre 2014, almeno 48 persone accusate di blasfemia sono state uccise in via extragiudiziale, di cui sette nelle carceri o all’uscita dei tribunali, secondo il gruppo pakistano per i diritti umani Life for All. Non solo la comunità cristiana, anche la minoranza musulmana sciita è stata perseguitata per anni dagli estremisti sunniti. Membri della piccola setta Ahmadi, considerati traditori dell’Islam perché venerano un altro profeta oltre a Maometto, sono stati vittime di attentati suicidi, sequestri e altri attacchi. La legge sulla blasfemia, oltre che contro le minoranze religiose, è spesso usata da alcuni pachistani per regolare i conti in dispute sulla proprietà. Normalmente, le prove nei casi di blasfemia sono scarse, a parte le dichiarazioni rese da chi accusa un altro».
Secondo l’Economist sono ben 62 le persone uccise dal 1990 come conseguenza delle accuse di blasfemia senza la necessità di un’esecuzione formale, secondo Avvenire sono 65 le vittime tra imputati, avvocati e persino giudici assassinati. Tra le aggressioni più sconcertanti c’è quella avvenuta in un ateneo riguardante un giovane universitario linciato dai compagni (vedi link youtube a fondo pagina). Non va dimenticato che la vita umana in Pakistan ha un valore molto relativo: secondo un rapporto di Amnesty Internazional del 2017 con Iran, Arabia Saudita e Iraq è tra i quattro paesi che dopo la Cina eseguono l’84 % delle pene capitali del mondo intero.
Ora quindi Assia attende di conoscere il verdetto che potrebbe essere di assoluzione con contestuale condanna all’esilio come già anticipato dai familiari, di condanna a morte con esecuzione della pena oppure, tenuto segreto per mesi o anni, affinchè cali l’attenzione internazionale sulla vicenda: lasciando la donna in carcere per tempo illimitato in attesa che muoia per mano di qualcuno, per qualche misterioso malore o di morte naturale. La sua drammatica storia di violazione dei diritti umani e di sofferenze in nome di Cristo è una dei grandi esempi della follia del fondamentalismo islamico che, nel terzo Millennio dove all’Onu si discute di ogni bazzecola sui diritti umani, esige la vittima sacrificale a prescindere dalla fondatezza e gravità delle accuse; a volte, come nel caso di Bibi, solo per esibirla come trofeo di una superiorità religiosa sancita dalla Sharia e dalla teocrazia imperante nel paese. Una legge sanguinaria per cui anche un fanciullo innocente può essere portato in piazza a chiedere l’impiccagione di una donna che ha solo posto un quesito ingenuo, trasparente quanto dirompente: Che cosa ha mai fatto il tuo profeta Maometto per salvare l’umanità?
Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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FONTI

LA CORTE DI STRASBURGO IGNORA STORIA E SENTENZE PER PRENDERE LE DIFESE DEL CAPOMAFIA PROVENZANO E DEL PEDOFILO MAOMETTO MA NON QUELLE DI GESU’

 di Fabio Giuseppe Carlo Carisio

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Bernardo Provenzano, condannato a 9 ergastoli per omicidi, stragi ed attentati dinamitardi, non meritava il carcere duro fino alla morte. Il profeta Maometto non può essere accusato di pedofilia “per pace religiosa” e perché non ci sono “riscontri oggettivi o storicamente fondati”. Nell’arco di una settimana la Corte Europea per i Diriti Umani (Cedu) è riuscita ad emettere due sentenze che hanno subito suscitato reazioni sdegnate ma soprattutto palesano una volontà di interpretazione giuridica che travalica la realtà dei fatti e odora di negazionismo storico. Già perché definire “trattamento inumano o degradante” la carcerazione del 41bis, che non prescrive torture bensì un regime ferreo di isolamento e garantisce cure sanitarie più attente che agli altri detenuti, oppure negare la circostanza che sono proprio gli aneddoti sulla vita di Maometto raccolti nella Sunna, il libro sacro delle leggi islamiche (Sharia) dopo il Corano, a narrare del suo matrimonio con la piccola Aisha di 6 anni, deflorata quando ne aveva soltanto 9, rappresentano due forzature di quel buonismo giuridico dilagante che nega pure l’evidenza per difendere anche l’indifendibile. Ma vediamo nel dettagllio i due casi che hanno portato alla condanna dell’Italia per la durezza contro Provenzano e di una studiosa austriaca per l’azzardo di accreditare come storicizzata la pedofilia di Maometto comprovata da innumerevoli fonti.
LA CONDANNA DELL’ITALIA PER IL BOSS STRAGISTA


L’identikit e il volto di Bernardo Provenzano dopo l’arresto nel 2006

La Corte europea dei Diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per avere rinnovato il regime carcerario del 41 bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo del 2016 fino alla morte del boss mafioso. Secondo la Corte, il ministero della Giustizia ha violato l’articolo 3 della Convenzione, riguardante la proibizione di trattamenti inumani o degradanti. Allo stesso tempo, la Corte ha stabilito che non c’è stata violazione del medesimo articolo 3 in merito alle condizioni della detenzione. Prima di lasciare spazio ai numerosi commenti politici fioccati dopo tale pronunciamento è bene ricostruire l’accaduto cominciando dalla carta d’identità del capo dei capi: Bernardo Provenzano, detto Binnu u’ Tratturi (Bernardo il trattore, per la violenza con cui falciava le vite dei suoi nemici), Zu Binnu (Zio Binnu) e Il ragioniere (Corleone, 31 gennaio 1933 – Milano, 13 luglio 2016), è stato un mafioso italiano, membro di Cosa nostra e considerato il capo dell’organizzazione a partire dal 1995 fino al suo arresto, avvenuto nel 2006. Arrestato l’11 aprile 2006 in una masseria a Corleone, era ricercato da oltre quarant’anni, dal 10 settembre 1963. Provenzano è stato condannato in contumacia, perché latitante, a 9 ergastoli in vari processi per omicidi e stragi. Nel 1995 viene condannato a 4 ergastoli nei differenti processi per gli omicidi del tenente colonnello Giuseppe Russo, dei commissari Beppe Montana e Antonino Cassarà, di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina, del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giuliano, e del professor Paolo Giaccone. Nel 1997 viene condannato a 2 ergastoli per la strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la scorta, e per l’omicidio del giudice Cesare Terranova. Nel 1999 Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumacia nel processo contro i responsabili della strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque dei suoi uomini di scorta. Nel 2000 subì un’ulteriore condanna all’ergastolo per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma. Nel 2002 la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò Provenzano in contumacia all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici. Nel 2009 ricevette un altro ergastolo insieme con Salvatore Riina per la strage di viale Lazio.
IL CARCERE DURO PER L’ERGASTOLANO
«Il 23 maggio 2013 la trasmissione televisiva Servizio pubblico mandò in onda un video che ritrae Provenzano nel carcere di Parma durante un colloquio con la compagna e il figlio minore, il 15 dicembre 2012 – scrive Wikipedia citando numerose fonti – Nel video l’ex boss appare fisicamente irriconoscibile, affaticato e mentalmente confuso, tanto da non riuscire a tenere in mano correttamente la cornetta del citofono per parlare con il figlio e nemmeno a spiegargli con chiarezza l’origine di un’evidente contusione al capo: prima dichiara di essere stato vittima di percosse, poi di essere caduto accidentalmente. Il 26 luglio dell’anno seguente la procura di Palermo diede il via libera alla revoca del regime di 41-bis a cui Provenzano era sottoposto, imputandola a condizioni mediche». A causa dell’aggravarsi delle stesse, il 9 aprile 2014 venne ricoverato all’Ospedale San Paolo di Milano, proveniente dal centro clinico degli istituti penitenziari di Parma. Nell’estate 2015 la Cassazione riconfermò il regime di 41 bis presso la camera di massima sicurezza dell’ospedale milanese, respingendo l’istanza dei legali di Provenzano di spostarlo nel reparto riservato ai detenuti ordinari, in regime di detenzione domiciliare. Motivazione di questa decisione fu la tutela del diritto alla salute del detenuto, ritenendo la Corte Suprema che l’esposizione alla promiscuità dell’altro reparto (peraltro non attrezzato ad assicuragli un’assistenza sanitaria efficace come quella di cui godeva nella camera di massima sicurezza) l’avrebbe messo a “rischio sopravvivenza”.
Secondo l’interpretazione dei giudici della Cassazione, quindi, la conferma del 41bis era ritenuta una garanzia per il detenuto e non un atto inumano o degradante. Anche perché nelle misure restrittive di tale disposizione detentiva non c’è davvero nulla di disumano se rapportato ai crimini efferati per i quali viene applicato. Ecco cosa prevede il 41bis: isolamento nei confronti degli altri detenuti: il detenuto è situato in una camera di pernottamento singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere. L’ora d’aria è limitata a due ore al giorno e avviene anch’essa in isolamento. Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con gli altri poliziotti penitenziari. Limitazione dei colloqui con i familiari per quantità (massimo uno al mese), per qualità (impedito contatto fisico da un vetro divisorio) e per durata. Solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti. Visto di censura della posta in uscita e in entrata. Limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti (penne, quaderni, macchine fotografiche, bottiglie, ecc.) che possono essere ricevuti dall’esterno. Esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati.
LE REAZIONI ALLA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA


La sede di Strasburgo della Corte Europea per i Diritti Umani

Ebbene secondo i giudici di Strasburgo questo reiterato isolamento sarebbe stato inumano e degradante in quanto Provenzano era malato e probabilmente sarebbe stato meglio a casa sua, vicino all’affetto dei familiari e degli amici, magari anche di qualche boss latitante cui esprimere le ultime volontà sulla sorte di qualche pentito. «I comportamenti inumani – attacca il vicepremier e leader del M5S Luigi Di Maio – erano quelli di Provenzano. Il 41bis è stato ed è uno strumento fondamentale per debellare la mafia e non si tocca. Con la mafia nessuna pietà». A fargli eco, il ministro e vicepremier Matteo Salvini: «La Corte Europea di Strasburgo ha condannato l’Italia perché tenne in galera col carcere duro il signor Provenzano, condannato a 20 ergastoli per decine di omicidi, fino alla sua morte. Ennesima dimostrazione dell’inutilità di questo ennesimo baraccone europeo. Per l’Italia decidono gli Italiani, non altri». «Il 41 bis non si tocca, sia chiaro» sottolinea quindi il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Ovviamente l’avvocato Rosalba Digregorio, legale del capomafia, esprime invece soddisfazione. «Noi non ci siamo rivolti alla Corte di Strasburgo per avere una misura risarcitoria, insomma per chiedere soldi, come fanno tanti detenuti. A me la decisione in questi termini sta bene perché riconosce che noi non abbiamo fatto una battaglia inutile ma in linea con il diritto è importante». In realtà la richiesta risarcitoria, pari a 150mila euro, era stata presentata ma anche rigettata dai giudici, la cui sentenza ha suscitato lo sdegno dei familiari delle vittime: «Da Strasburgo neanche quando sono morti ci risparmiano di menzionarli, e ci ricordano i nostri aguzzini, caso mai cercassimo di dimenticarli. Dove era Strasburgo dei diritti dell’uomo la notte del 27 maggio 1993 quando Provenzano ha mandato i suoi uomini a Firenze ad ammazzarci per far annullare il 41 bis, giusto sulla carta bollata?» Lo afferma, in una nota, Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili.
L’ASSOLUZIONE DI MAOMETTO DALL’ACCUSA DI PEDOFILIA


Una grande festa per i matrimoni di spose bambine in Palestina

E’ davvero curioso notare quale acribica attenzione ai diritti umani esercita la Corte Europea nel prendere le difese di personalità controverse non solo del recente passato come Provenzano ma anche dell’antichità come il profeta dell’Islam. La sentenza con cui i giudici Cedu rigettano la richiesta di annullamento di una condanna avanzata da una donna austriaca ha tutto il tenore di una riabilitazione postuma di Maometto con la contestuale assoluzione dall’aberrante accusa di pedofilia. Un’accusa che ha rilevanza soltanto morale in quanto è bene rammentare che in molti paesi musulmani il matrimonio con le spose bambine non è soltanto consentito ma additirrura consigliato: qualcuno sostiene proprio in virtù dell’esempio del profeta con la piccola Aisha. Ma veniamo al caso giudiziario che risale al 2009. In Austria durante il seminario “Rudimenti dell’Islam”, una relatrice si sofferma a trattare l’argomento sensibile del matrimonio di Maometto con Aisha, figlia di Abu Bakr, una bambina di 6 anni, matrimonio consumato quando la bambina aveva 9 anni, secondo la studiosa e molteplici fonti ufficiali che analizzeremo in seguito. Secondo i testimoni presenti alla lezione, la signora E.S. avrebbe detto “gli piaceva farlo con le bambine” e “Come lo chiameremmo, se non un caso di pedofilia?”. Le affermazioni non sonostate gradite da qualcuno in sala che l’ha denunciata e nel 2011 è stata condannata da un Tribunale penale austriaco a pagare una multa di 480 euro, più le spese legali. La donna ha fatto ricorso invocando il proprio diritto alla libertà di espressione, ritenendo di aver “dato un contributo al dibattito pubblico” ed asserendo inoltre che “i gruppi religiosi devono poter tollerare critiche nei loro confronti”. Ma anche la Corte Suprema ha ribadito la condanna e pertanto alla relatrice non è rimasta altra soluzione che rivolgersi speranzosa alla Corte Europea dei Diritti Umani, che si è pronunciata giovedì 25 ottobre. Secondo la Cedu di Strasburgo i commenti della signora non sono oggettivi, mancano di riscontri storici obiettivi e non mirano a promuovere un dibattito pubblico ma soprattutto, contrariamente a quel che sostiene lei stessa, “possono essere intesi solo come miranti a dimostrare che Maometto non sia degno di devozione” e sono basati su fatti che “mirano a denigrare l’islam”. Da qui il rigetto del ricorso che ritiene pertanto legittima la sentenza della Suprema Corte austriaca nella quale, tra le motivazioni della multa, viene sentenziato che “il diritto di libertà di espressione deve rapportarsi con il diritto degli altri a veder tutelato il proprio sentimento religioso e serve il legittimo scopo di preservare la pace religiosa in Austria”.
LE FONTI STORICHE SU AISHA NELLA SUNNA
Sorvolando sulla considerazione dei giudici austriaci per cui Maometto va difeso onde evitare una guerra religiosa col rischio di qualche attentato (Charles Hebdo insegna), secondo la Corte Europea dei Dirittti Umani nelle dichiarazioni della studiosa austriaca mancano soprattutto “riscontri oggettivi o storicamente fondati”. Un’affermazione che cozza apertamente con tutte le cognizioni musulmane in merito alla vicenda della piccola Aisha, una delle mogli di Maometto. Ecco come la vicenda risulta narrata da fonti ritenute tanto storiche quanto ufficiali dagli stessi islamici. La storia del matrimonio tra il profeta e la bambina è narrata in numerosi ʾaḥādīth: si tratta degli aneddoti di alcune righe sulla vita del profeta dell’islam Maometto (Muhammad), che hanno un significato molto più importante perché sono parte costitutiva della cosiddetta Sunna, la seconda fonte della Legge islamica (Sharīʿa) dopo lo stesso Corano. Esistono milioni di ʾaḥādīth, classificati per isnād (catena di trasmissione) ed affidabilità. La collezione della totalità dei singoli ʾaḥādīth costituisce appunto la Sunna. Secondo attestazioni di diversi ḥadīth, in particolare quelli del libro Ṣaḥīḥ di Bukhari, Āisha aveva 6 anni in occasione del suo matrimonio formale e 9 anni al momento della prima consumazione e fu con il profeta fino alla sua morte nel 632, mentre secondo qualche altro hadith Aisha aveva 7 anni quando contrasse il matrimonio e 10 quando lo consumò. Secondo la maggior parte delle fonti, all’età di sei anni sarebbe stata data in sposa a Maometto che aveva circa 50 anni, divenendo la terza moglie e la favorita del profeta della religione islamica anche se non gli diede figli. Una fonte la vuole invece sposata a 10 anni con consumazione a 15 anche se, con ogni probabilità, l’età di dieci anni deve essere riferita alla consumazione del matrimonio, non alla stipula del contratto nuziale tra Abū Bakr (tutore della figlia) e Maometto. Si ritiene che siccome Āisha fosse ancora troppo giovane quando il contratto matrimoniale era stato perfezionato, il matrimonio fu consumato alcuni anni dopo, quando la piccola avrebbe avuto nove o dieci anni, ma secondo il giornalista e studioso islamico Magdi Cristiano Allam, il profeta la tenne lontana da casa per alcuni anni perché dopo la stipula del contratto matrimoniale la fanciullina avrebbe perso tutti i capelli a causa di una malattia.
LA CEDU LEGITTIMO’ L’USO DI GESU’ PER LE PUBBLICITA’


Le pubblicità irriverenti su Gesù e Maria usate in Lituania e ritenute frutto di libera espressione dalla Cedu

Ecco quindi che la sensibilità religiosa dei giudici della Cedu è stata tale da giungere al negazionismo di fonti storiche, talmente consolidate da ispirare ed incentivare la pratica dei matrimoni con spose bambine tra gli islamici. Ma analoga attenzione su tematiche di fede la Corte non la manifestò nei mesi scorsi in merito ad una vicenda che riguardava il Messia dei Cristiani. I magistrati di Strasburgo avevano difeso l’uso dei simboli religiosi nelle pubblicità e condannato la Lituania che aveva multato un’azienda che si era servita di Gesù e Maria per vendere vestiti. Secondo i giudici, la multa inflitta per aver “offeso la morale pubblica” ha violato il diritto alla libertà d’espressione. Nella sentenza di Strasburgo si legge che la Corte ritiene che “la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica”. Essa, inoltre, “si estende a idee che scioccano, offendono o disturbano”. Basta che quelle idee, anche se suffragate da riscontri oggettivi e storicamente fondati, non tocchino Maometto… Senza bisogno della Sharia, per cui oggi la cristiana Asia Bibi in Pakistan rischia l’impiccagione, anche in Europa vige la legge della blasfermia, ma solo contro l’Islam.
Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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CORONCINA ALLA DIVINA MISERICORDIA recitata on-line


CORONCINA ALLA
DIVINA MISERICORDIA

recitata on-line
Ricorda. Questa preghiera va recitata ogni giorno alle 3 del pomeriggio, ora della morte di Gesù in croce, per essere più efficace. E' un'ora di grande misericordia per il mondo intero.  


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PROPONIMENTO DEL GIORNO




Fuggirò la vanità nel vestirmi, nel parlare, e dirò tre -Angelo di Dio- per ottenere lo spirito di umiltà e di penitenza.

LITURGIA DEL GIORNO


LITURGIA DEL GIORNO
- Rito Romano -
  



  PRIMA LETTURA 

Ef 4,32-5,8
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni

Fratelli, siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore.
Di fornicazione e di ogni specie di impurità o di cupidigia neppure si parli fra voi – come deve essere tra santi – né di volgarità, insulsaggini, trivialità, che sono cose sconvenienti. Piuttosto rendete grazie! Perché, sappiatelo bene, nessun fornicatore, o impuro, o avaro – cioè nessun idolatra – ha in eredità il regno di Cristo e di Dio.
Nessuno vi inganni con parole vuote: per queste cose infatti l’ira di Dio viene sopra coloro che gli disobbediscono. Non abbiate quindi niente in comune con loro. Un tempo infatti eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce.


  SALMO  

Sal 1
Facciamoci imitatori di Dio, quali figli carissimi.

Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.

È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.

Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde.
Il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina. 


 VANGELO 

Lc 13,10-17
Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta.
Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.
Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato».
Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?».
Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.

domenica 28 ottobre 2018

PREGHIERA PRIMA DI DORMIRE







Bambino di 7 anni a scuola con i coltelli, testata alla maestra

A sette anni ha colpito con una testata al naso la sua maestra intenta a fare lezione in classe. E’ successo in una scuola primaria di Firenze nei giorni scorsi.

L’aggressione, come riporta La Nazione, sarebbe avvenuta all’improvviso mentre la maestra era seduta in cattedra.

Solo il giorno prima, il bambino si era presentato a scuola con dei coltelli lanciandone uno davanti ai suoi coetanei prima di essere fermato dai docenti. L’insegnante è stata trasportata in ambulanza al pronto soccorso per la sospetta frattura del naso dover ha ricevuto una prognosi di sei giorni. ANSA
Benché il caso sia noto ormai da mesi, non è stato preso alcun provvedimento per la tutela degli altri bambini e del corpo docente.

Bologna: 14enne pakistano a scuola con un pugnale nello zaino

Andava a scuola con un grosso coltello nello zaino: precisamente un pugnale, con impugnatura in legno a una lama di ben 18 cm. L’arma è stata sequestrata dai Carabinieri a un 14nne di origine pakistana, che frequenta la prima in un istituto superiore in zona Barca, a Bologna.

La scuola, insieme ad altre fra la città e la provincia, negli ultimi giorni è stata interessata da uno dei periodici controlli dei Carabinieri, che hanno ispezionato le aule e gli spazi comuni con i cani antidroga. Stupefacenti non ne sono stati trovati, ma nello zaino del ragazzino (controllato a quanto pare perché dava segni di nervosismo) è stato scoperto il pugnale, posto sotto sequestro. Il 14enne è stato denunciato per porto illegale di armi.

Germania: pesante sconfitta per Merkel in Assia. Crollano Cdu e Spd

ANCHE IN GERMANIA COMINCIANO A FIUTARE L'INGANNO MERKEL?
Pesante sconfitta elettorale per la cancelliera Angela Merkel in Germania il suo governo di grande coalizione: crollo della Cdu e batosta anche per la Spd nelle regionali in Assia.
Secondo i primi exit poll divulgati dalla Zdf, i cristiano-democratici si attestano al 27% (contro il 38,3% del 2013), mentre i socialdemocratici si accontentano del 20% (cinque anni fa ottennero il 30,7%).
I Verdi volano raggiungendo il 20% (11,1% nel 2013). L’ultradestra di Afd arriva al 13% (4,1% cinque anni fa). I liberali si attesterebbero al 7% (5%) mentre la Linke al 6,5 (5,2%). — AGI —

L’Ue si piega alle minacce di Trump Boom di gas e soia dall’America


trump usa
Donald Trump minaccia, l’Unione europea risponde. Ma non come le risposte dure di Donald Tusk e Angela Merkel farebbero pensare. In realtà, dalle notizie che arrivano dalla Germania, la strategia Usa di alzare il tiro con l’Europa sembra stia dando i suoi frutti proprio in favore di Washington. E nonostante le reazioni pubbliche inferocite dei partner europei, l’economia statunitense potrebbero trarne beneficio.
Il gas americano arriva in Germania

Il primo esempio arriva direttamente sul fronte del gas, uno dei settori più importanti nel delicato equilibrio di potere economico e politico fra Russia e Stati Uniti. Berlino è legata a doppio filo a Mosca grazie all’importazione di gas. E il gasdotto North Stream 2 ne è il simbolo principale. Un legame che Washington cerca da sempre di sradicare, consapevole che l’asse del gas fra Germania e Russia escluderebbe l’oro blu americano dal mercato europeo mentre consegnerebbe le chiavi dell’energia del Vecchio Continente al Cremlino.

Le sanzioni Usa hanno colpito indirettamente il progetto di raddoppio del gasdotto fra i giacimenti russi e il mercato tedesco. Un obiettivo strategico che Washington ha voluto colpire anche obbligando la Germania a comprare gas liquefatto americano. Trump ci sta riuscendo? Dalle ultime informazioni sembrerebbe di sì. E lo ha fatto proprio attraverso la minaccia di imporre dazi sulle automobili tedesche, una delle industrie principali del Paese europeo.

La scorsa settimana, come riportato da Reuters, la Germania ha annunciato di aver avviato l’iter per scegliere dove costruire un terminale per il gas naturale liquefatto (Gnl) entro la fine del 2018 “come un gesto per gli Stati Uniti che vogliono spedire più gas in Europa”. Ad affermarlo è stato il ministro dell’Economia di Berlino.

“Questo è un gesto per i nostri amici americani”, ha detto Peter Altmaier. “Abbiamo tre città in competizione e prenderemo una decisione prima della fine dell’anno”. Il ministro ha ribadito che il piano non è collegato al sostegno della Germania per North Stream 2. Ma è chiaro che di mezzo ci sia il gas russo e lo scontro fra Usa e Russia sul mercato gasiero europeo. E non è un caso che queste dichiarazioni siano giunte a margine dell’incontro fra Altmaier e Maros Sevocic della Commissione europea.
Il boom della soia americana

La minaccia dei dazi statunitensi ha evidentemente provocato più di un sussulto in sede europea. E a confermare questo effetto delle minacce di Washington c’è un altro dato su cui riflettere: l’aumento dell’importazione di soia americana dall’Europa. 

Come scrive Italia Oggi, “secondo i dati diffusi ieri dalla Commissione Ue, nel mese di luglio le importazioni di soia americana da parte dei paesi Ue sono aumentate del 283% rispetto allo stesso mese dell’ anno scorso (da 92mila a 360 mila tonnellate). Un’ impennata destinata ad aumentare, come rivelano alcune fonti europee, in virtù di un accordo commerciale siglato ufficialmente alla Casa Bianca due mesi fa, ma già operativo nelle settimane precedenti”.

Il patto sulla soia è uno degli accordi conclusi da Trump e Jean-Claude Juncker a luglio durante il loro vertice alla Casa Bianca. Un incontro in cui il risultato è stato che il presidente degli Stati Uniti ha rinunciato a imporre dazi all’Unione europea in cambio di maggiori acquisti da parte dell’Europa di prodotti americani. E così la minaccia di una guerra commerciale ha fatto sì che Bruxelles chinasse il capo. Del resto, gli interessi tedeschi in ballo erano enormi. E quest’Europa, che rappresenta in larga parte gli interessi commerciali del Paesi dell’Europa centrale e settentrionale, non poteva non prendersi cura dei rischi dell’industria tedesca.
Una vittoria politica

A giudicare da quanto avvenuto, per Trump si è trattato di una doppia vittoria. Da un punto di vista commerciale, ha guadagnato un mercato ricco come quello europeo. Ma da un punto di vista politico, anche interno, la mossa è stata particolarmente utile.

I coltivatori di soia del Midwest rappresentano una delle colonne portanti dell’elettorato repubblicano. La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti ha bloccato l’export di soia americana verso Pechino, che invece ne richiedeva in quantità molto elevate grazie alla crescita degli allevamenti intensivi di maiali. Xi Jinping ha imposto il blocco dell’import di soia. E questo ha prodotto una grave perdita all’economia americana. Da qui l’ accordo con Juncker, in cui in sostanza l’Europa ha sostituito la Cina nel mercato della soia per evitare di subire i dazi. 
I rischi per l’Italia

Tutti contenti? Forse statunitensi e tedeschi. Perché invece gli italiani non sembrano cantare vittoria. Come ricorda sempre Italia Oggi, “l’Italia è il primo produttore europeo di soia, con circa il 50% della produzione Ue (1,1 milioni di tonnellate l’ anno), davanti alla Francia. La nostra autosufficienza, tuttavia, non va oltre il 20% del fabbisogno, e rende necessario un import robusto e crescente per la zootecnia, che ha già messo in allarme la Coldiretti”. Come segnalato da Roberto Moncalvo, già prima dell’accordo tra Juncker e Trump l’importazione di soia americana in Italia era aumentato del 31%.