Su Assia Bibi e altri martiri di oggi...
di Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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Ha il volto di fanciullo dallo sguardo cupo e perso nel vuoto, avrà nemmeno 9 anni e con tutta probabilità non capisce nulla di quella caotica protesta per le strade del suo paese, il Pakistan, che gli fa aggrottare le sopracciglia. Tiene energicamente in mano un cartello con una grossa scritta: a differenza di quelli ostentati dai grandi non è in lingua urdu ma in inglese. Ci sono scritte soltanto due lapidarie, terrificanti parole “Hang Assia”: impiccate Assia. Un messaggio volutamente in lingua internazionale perché potesse essere catturato dai fotoreporter, come ha fatto Aamir Qureshi che lo ha immortalato per AFP. E’ questa la risposta dei musulmani pakistani integralisti al rinvio del pronunciamento dei giudici sulla condanna a morte della donna cristiana Assia Naurin Bibi, 47 anni, di cui 8 trascorsi in carcere, alcuni dei quali in isolamento ed in condizioni igieniche disumane, accusata di blasfemia per un bicchiere d’acqua e la difesa della sua fede.
Lunedì 8 ottobre la Suprema Corte di Islamabad, dopo aver ascoltato l’ultimo appello dei suoi avvocati difensori, ha aggiornato l’udienza per il verdetto a data da definire. I giudici avrebbero già emesso il verdetto finale ma hanno altresì ritenuto necessario tenerlo per ora nascosto senza comunicare quando lo renderanno pubblico. Ciò ha fatto infuriare gli estremisti che si aspettavano, dopo otto lunghi anni, l’impiccagione immediata. Venerdì scorso, 12 ottobre, diverse migliaia di fondamentalisti islamici si sono riversati per strada in gran numero a Lahore, ma anche in altre città del paese come Karachi e Rawalpindi, per una manifestazione organizzata dal partito anti-blasfemia Tehreek-e-Labaik Pakistan (TLP). La richiesta una sola: impiccate Assia. Una sentenza di popolo che ricorda tanto quel “crocifiggilo” pronunciato dai Giudei davanti a Ponzio Pilato contro Gesù. E, proprio come il Messia dei Cristiani cui è devota, la bracciante agricola pakistana è finita sotto processo e rischia la morte solo per una frase, pronunciata in un diverbio con un’altra lavoratrice musulmana: «Non ho intenzione di convertirmi. Credo nella mia religione e in Gesù Cristo, che morì sulla croce per i peccati dell’umanità. Che cosa ha mai fatto il tuo profeta Maometto per salvare l’umanità? E perché dovrei essere io che mi converto al posto tuo?». Purtroppo di questa vergognosa e tremenda mobilitazione di massa per l’impiccagione di una donna che ha soltanto difeso la sua fede ha scritto con risalto solo l’agenzia d’informazione Russia Today, il Washington Post ed il mensile Tempi…
CONDANNATI DALLA LEGGE, GIUSTIZIATI DAL POPOLO
La protesta degli islamici integralisti pakistani a Rawalpindi © AFP / Aamir Qureshi
Mentre sull’isola di Lesbo, nell’occidentale Grecia, viene abbattuta una croce eretta dagli abitanti per non infastidire i migranti di altre religioni, su richiesta degli operatori di una Ong, mentre in Italia si replicano le autocensure contro i simboli del Natale e della Cristianità, nel resto del mondo i cristiani vengono perseguitati anche attraverso la legge con processi che spesso hanno ben poco di regolare. Uno dei casi più eclatanti è appunto quello della pakistana ma ce ne sono altri di cui parleremo in ulteriori articoli. Se in Africa e nelle aree mediorientali straziate dalle guerre civili sono all’ordine del giorno uccisioni e massacri di cristiani ad opera di organizzazioni terroristiche come Isis o Boko Haram, in alcuni paesi del Medioriente ma soprattutto nelle nazioni islamiche della penisola Indiana e del Far East le persecuzioni avvengono addirittura nel nome della legge. In Pakistan vige una delle più terribili applicazioni della Sharia contro gli infedeli o chi si macchia di blasfemia verso l’Islam o il Profeta: impiccagione anche in assenza di prove specifiche. Basta, come nel caso di Assia Bibi, che qualcuno denunci un episodio di blasfemia e scatta il processo che, se l’accusa viene ritenuta minimamente fondata, può portare alla condanna a morte. Fino ad ora nessuna condanna capitale per blasfemia è mai giunta a reale applicazione; forse anche per questo, dinnanzi agli integralisti sunniti pakistani, l’impiccagione della donna cristiana reclusa ha un’importanza esemplare: è infatti l’unica ad aver visto la sua condanna confermata in Appello. Ma come spiegherò nei prossimi paragrafi in vari casi le pene capitali non sono state eseguite perché imputati o condannati sono stati illegalmente giustiziati in precedenza da fanatici religiosi. Quindi le lungaggini e i rinvii della giustizia sembrano diventare propizi ad una premorienza dei reclusi nel braccio della morte che evita alle autorità politiche di esporsi alle condanne internazionali. Non va dimenticato infatti che sulla testa di Bibi pende anche una pesante taglia…
LA TAZZA D’ACQUA CHE PUO’ COSTARE LA MORTE
I guai della donna iniziano il 14 giugno 2009 nei campi di un paesino del Punjab dove è intenta a raccogliere bacche come bracciante agricola a giornata. Secondo l’autobiografia scritta da lei stessa “Blasfemia: memoria di un condannato a morte per una tazza d’acqua” tutto comincia quando si avvicina al pozzo per dissetarsi vista la gran calura. Un’altra lavoratrice musulmana la vede e le grida: “Non bere quell’acqua, è haram (proibito)!” La stessa si rivolge poi alle altre donne islamiche presenti nel campo dicendo che Bibi aveva sporcato la tazza per attingere al pozzo: “Ora l’acqua non è pura e non possiamo più berla! Grazie a lei!”. A quel punto inizia un concitato diverbio religioso in cui Assia viene accusata di essere “una cristiana ripugnante” e le viene intimato di convertirsi all’Islam. E’ in quel momento che lei replica con le frasi che gli valgono la denuncia per blasfemia: «Non ho intenzione di convertirmi. Credo nella mia religione e in Gesù Cristo, che morì sulla croce per i peccati dell’umanità. Che cosa ha mai fatto il tuo profeta Maometto per salvare l’umanità? E perché dovrei essere io che mi converto al posto tuo?». A quel punto una delle musulmane le sputa addosso, un’altra la spinge. Poi lo riferiscono agli uomini che corrono a denunciarla alle autorità. Viene così picchiata, chiusa in uno stanzino, stuprata e infine arrestata pochi giorni dopo nel villaggio di Ittanwalai, nonostante contro di lei non ci sia nessuna prova. Viene poi condotta nel carcere di Sheikhupura dove comincia il suo calvario giudiziario, in minima parte alleviato dall’assistenza legale garantita dall’ong Masihi Foundation (Mf) che fu la prima a denunciare le terribili condizioni di detenzione della donna. La stessa Bibi narra che dovette invocare spesso e intensamente il conforto di Gesù Cristo per trovare un po’ di pace almeno interiore: «In primo luogo vivevo frustrazione, rabbia, aggressività. Poi, grazie alla fede, dopo aver digiunato e pregato, le cose sono cambiate in me: ho già perdonato chi mi ha accusato di blasfemia – confidò Assia – Questo è un capitolo della mia vita che voglio dimenticare». Ma il suo perdono non fu sufficiente perché iniziò il lungo iter giudiziario.
IL CALVARIO GIUDIZIARIO E L’OMICIDIO DEL GOVERNATORE
L’11 novembre 2010, oltre un anno dopo l’arresto, giunge la prima sentenza in cui il giudice di Nankana Sahib, Naveed Iqbal, esclude «totalmente» la possibilità che Assia Bibi sia accusata ingiustamente, aggiungendo inoltre che «non esistono circostanze attenuanti» per lei. A nulla è valsa l’attenzione dei media e l’invito alla grazia di Papa Benedetto XVI: la famiglia non può far altro che presentare ricorso all’Alta Corte di Lahore. Nel frattempo, come riferì in un articolo Marco Tosatti su La Stampa il 26 febbraio 2012, circolarono indiscrezioni sul fatto che Qari Salam, l’uomo che aveva denunciato Assia Bibi di blasfemia, si sarebbe pentito di aver sporto la denuncia perché basata su pregiudizi personali ed emozioni religiose esasperate di alcune donne del villaggio. Costui avrebbe quindi pensato di non portare avanti l’accusa ma si sarebbe scontrato con le intimidazioni da parte di organizzazioni fondamentaliste islamiche. Pressioni da non sottovalutare visto che nel frattempo gli integralisti avevano colpito a morte.
Il governatore del Punjab, Salmaan Taseer, che si era recato a trovare Asia Bibi in carcere ed era impegnato nella revisione delle norme sulla blasfemia, viene ucciso il 4 gennaio 2011 a Islamabad da una delle sue guardie del corpo. Due mesi dopo, anche il ministro per le Minoranze religiose Shahbaz Bhatti, cattolico, è assassinato da estremisti islamici. Per questioni di sicurezza Bibi è trasferita dal carcere di Sheikhupura a quello femminile di Multan. Per i familiari diviene così quasi impossibile vederla spesso, dato che le due località distano sei ore di auto. Il 16 ottobre 2014, dopo quasi quattro anni dalla presentazione del ricorso avverso alla sentenza di primo grado, l’Alta Corte di Lahore conferma la pena capitale per la donna. Ma il 22 giugno 2015 la Corte Suprema sospende l’esecuzione della condanna in attesa di un verdetto definitivo.
L’APPELLO DELL’IMAM E LA TAGLIA MILIONARIA
«“Giustiziate al più presto la blasfema Asia Bibi e non piegatevi alla pressione internazionale». L’appello è stato lanciato il 3 marzo in Pakistan dall’imam Abdul Aziz, a capo dell’ultra estremista Moschea rossa di Islamabad, a pochi giorni dall’impiccagione di Mumtaz Qadri, la guardia del corpo che uccise il governatore musulmano del Punjab, Salman Taseer, proprio perché difese Asia Bibi denunciando la “legge nera” sulla blasfemia» a scriverlo è Leone Grotti, il 9 marzo 2016 sul mensile Tempi. E la reazione dei musulmani integralisti, aizzati dal partito anti-blasfemia Tehreek-e-Labaik Pakistan (TLP), non si fa attendere come racconta Lucia Capuzzi il 28 marzo 2016 su Avvenire: «“Impiccate Asia Bibi”. Il grido risuona da due giorni appena fuori dalla “zona rossa”, il centro di Islamabad dove sono concentrate le sedi delle istituzioni pachistane. Almeno 30mila manifestanti, secondo fonti locali, arrivati dalla città-gemella Rawalpindi, resistono, imperterriti, allo sbarramento militare. E cercano di “sfondarlo”, per portare la protesta proprio di fronte al Parlamento. Il corteo, organizzato dai gruppi fondamentalisti islamici Sunni Tehreek (St) e Tehreek-i-Labbaik Ya Rasool (Saw), chiede la “riabilitazione” di Mumtaz Qadri, messo a morte il 29 febbraio scorso. L’esecuzione di quest’ultimo è stato un duro colpo per gli estremisti, che lo considerano un “martire”».
Da singolo caso giudiziario la vicenda ha quindi assunto i contorni di una vera persecuzione religiosa tanto che sulla testa di Bibi i fondamentalisti pongono una taglia di 50 milioni di rupie (circa 430 mila euro). Da quel momento inizia per la donna una carcerazione assai pericolosa: «Solo suo marito può vederla in prigione e le è stato consigliato di cucinarsi da sola il cibo per evitare che venga avvelenata. Tutte le guardie responsabili della sua sicurezza sono state vagliate dall’intelligence per escludere gli estremisti» riferirono ai giornali gli attivisti dell’Ong che seguiva il suo caso. A distanza di due anni ora la storia si ripete: mentre la Suprema Corte si è riservata di rivelare il contenuto del verdetto in risposta alla richiesta difensiva di assoluzione ecco subito le proteste di miliaia di fanatici integralisti nelle città pakistane. E l’accresscersi delle tensioni rende sempre più reale il pericolo che qualcuno cerchi di ucciderla in cella.
UCCISI IN CARCERE PRIMA DELLA PENA CAPITALE
«In Pakistan, la pena capitale è stata estesa anche ad alcune circostanze previste dalla Sharia, come rapporti sessuali extraconiugali e blasfemia – si legge in un dettagliato rapporto di Nessuno tocchi Caino – La legge contro la blasfemia è stata introdotta dal generale Mohammad Zia-ul-Haq nel 1985 e prevede la pena di morte per chi offende il Profeta Maometto, altri profeti o le sacre scritture. In base all’Articolo 295-C del Codice Penale pakistano, “Chiunque con le parole, sia pronunciate che scritte, o con rappresentazione visibile o qualsiasi attribuzione, allusione, insinuazione, direttamente o indirettamente, offende il sacro nome del Profeta Muhammad (pace a Lui), deve essere punito con la morte o il carcere a vita, ed è anche passibile di multa”. Dai tempi di Zia a oggi molte centinaia di persone sono state incriminate in base alla legge sulla blasfemia. Nessuno è stato giustiziato e molte condanne per blasfemia sono state poi respinte in appello. Ma decine di persone in attesa del processo o assolte dalle accuse sono state massacrate da fanatici religiosi – evidenzia l’organizzazione umanitaria che lotta contro la pena di morte nel mondo riferendo anche degli avvocati perseguitati ed attaccati anche dai giudici e riportando alcuni inquietanti dati – Al 25 settembre 2014, almeno 48 persone accusate di blasfemia sono state uccise in via extragiudiziale, di cui sette nelle carceri o all’uscita dei tribunali, secondo il gruppo pakistano per i diritti umani Life for All. Non solo la comunità cristiana, anche la minoranza musulmana sciita è stata perseguitata per anni dagli estremisti sunniti. Membri della piccola setta Ahmadi, considerati traditori dell’Islam perché venerano un altro profeta oltre a Maometto, sono stati vittime di attentati suicidi, sequestri e altri attacchi. La legge sulla blasfemia, oltre che contro le minoranze religiose, è spesso usata da alcuni pachistani per regolare i conti in dispute sulla proprietà. Normalmente, le prove nei casi di blasfemia sono scarse, a parte le dichiarazioni rese da chi accusa un altro».
Secondo l’Economist sono ben 62 le persone uccise dal 1990 come conseguenza delle accuse di blasfemia senza la necessità di un’esecuzione formale, secondo Avvenire sono 65 le vittime tra imputati, avvocati e persino giudici assassinati. Tra le aggressioni più sconcertanti c’è quella avvenuta in un ateneo riguardante un giovane universitario linciato dai compagni (vedi link youtube a fondo pagina). Non va dimenticato che la vita umana in Pakistan ha un valore molto relativo: secondo un rapporto di Amnesty Internazional del 2017 con Iran, Arabia Saudita e Iraq è tra i quattro paesi che dopo la Cina eseguono l’84 % delle pene capitali del mondo intero.
Ora quindi Assia attende di conoscere il verdetto che potrebbe essere di assoluzione con contestuale condanna all’esilio come già anticipato dai familiari, di condanna a morte con esecuzione della pena oppure, tenuto segreto per mesi o anni, affinchè cali l’attenzione internazionale sulla vicenda: lasciando la donna in carcere per tempo illimitato in attesa che muoia per mano di qualcuno, per qualche misterioso malore o di morte naturale. La sua drammatica storia di violazione dei diritti umani e di sofferenze in nome di Cristo è una dei grandi esempi della follia del fondamentalismo islamico che, nel terzo Millennio dove all’Onu si discute di ogni bazzecola sui diritti umani, esige la vittima sacrificale a prescindere dalla fondatezza e gravità delle accuse; a volte, come nel caso di Bibi, solo per esibirla come trofeo di una superiorità religiosa sancita dalla Sharia e dalla teocrazia imperante nel paese. Una legge sanguinaria per cui anche un fanciullo innocente può essere portato in piazza a chiedere l’impiccagione di una donna che ha solo posto un quesito ingenuo, trasparente quanto dirompente: Che cosa ha mai fatto il tuo profeta Maometto per salvare l’umanità?
Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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