di Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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Bernardo Provenzano, condannato a 9 ergastoli per omicidi, stragi ed attentati dinamitardi, non meritava il carcere duro fino alla morte. Il profeta Maometto non può essere accusato di pedofilia “per pace religiosa” e perché non ci sono “riscontri oggettivi o storicamente fondati”. Nell’arco di una settimana la Corte Europea per i Diriti Umani (Cedu) è riuscita ad emettere due sentenze che hanno subito suscitato reazioni sdegnate ma soprattutto palesano una volontà di interpretazione giuridica che travalica la realtà dei fatti e odora di negazionismo storico. Già perché definire “trattamento inumano o degradante” la carcerazione del 41bis, che non prescrive torture bensì un regime ferreo di isolamento e garantisce cure sanitarie più attente che agli altri detenuti, oppure negare la circostanza che sono proprio gli aneddoti sulla vita di Maometto raccolti nella Sunna, il libro sacro delle leggi islamiche (Sharia) dopo il Corano, a narrare del suo matrimonio con la piccola Aisha di 6 anni, deflorata quando ne aveva soltanto 9, rappresentano due forzature di quel buonismo giuridico dilagante che nega pure l’evidenza per difendere anche l’indifendibile. Ma vediamo nel dettagllio i due casi che hanno portato alla condanna dell’Italia per la durezza contro Provenzano e di una studiosa austriaca per l’azzardo di accreditare come storicizzata la pedofilia di Maometto comprovata da innumerevoli fonti.
LA CONDANNA DELL’ITALIA PER IL BOSS STRAGISTA
La Corte europea dei Diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per avere rinnovato il regime carcerario del 41 bis a Bernardo Provenzano, dal 23 marzo del 2016 fino alla morte del boss mafioso. Secondo la Corte, il ministero della Giustizia ha violato l’articolo 3 della Convenzione, riguardante la proibizione di trattamenti inumani o degradanti. Allo stesso tempo, la Corte ha stabilito che non c’è stata violazione del medesimo articolo 3 in merito alle condizioni della detenzione. Prima di lasciare spazio ai numerosi commenti politici fioccati dopo tale pronunciamento è bene ricostruire l’accaduto cominciando dalla carta d’identità del capo dei capi: Bernardo Provenzano, detto Binnu u’ Tratturi (Bernardo il trattore, per la violenza con cui falciava le vite dei suoi nemici), Zu Binnu (Zio Binnu) e Il ragioniere (Corleone, 31 gennaio 1933 – Milano, 13 luglio 2016), è stato un mafioso italiano, membro di Cosa nostra e considerato il capo dell’organizzazione a partire dal 1995 fino al suo arresto, avvenuto nel 2006. Arrestato l’11 aprile 2006 in una masseria a Corleone, era ricercato da oltre quarant’anni, dal 10 settembre 1963. Provenzano è stato condannato in contumacia, perché latitante, a 9 ergastoli in vari processi per omicidi e stragi. Nel 1995 viene condannato a 4 ergastoli nei differenti processi per gli omicidi del tenente colonnello Giuseppe Russo, dei commissari Beppe Montana e Antonino Cassarà, di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina, del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giuliano, e del professor Paolo Giaccone. Nel 1997 viene condannato a 2 ergastoli per la strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie e la scorta, e per l’omicidio del giudice Cesare Terranova. Nel 1999 Provenzano venne condannato all’ergastolo in contumacia nel processo contro i responsabili della strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque dei suoi uomini di scorta. Nel 2000 subì un’ulteriore condanna all’ergastolo per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma. Nel 2002 la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò Provenzano in contumacia all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici. Nel 2009 ricevette un altro ergastolo insieme con Salvatore Riina per la strage di viale Lazio.
IL CARCERE DURO PER L’ERGASTOLANO
«Il 23 maggio 2013 la trasmissione televisiva Servizio pubblico mandò in onda un video che ritrae Provenzano nel carcere di Parma durante un colloquio con la compagna e il figlio minore, il 15 dicembre 2012 – scrive Wikipedia citando numerose fonti – Nel video l’ex boss appare fisicamente irriconoscibile, affaticato e mentalmente confuso, tanto da non riuscire a tenere in mano correttamente la cornetta del citofono per parlare con il figlio e nemmeno a spiegargli con chiarezza l’origine di un’evidente contusione al capo: prima dichiara di essere stato vittima di percosse, poi di essere caduto accidentalmente. Il 26 luglio dell’anno seguente la procura di Palermo diede il via libera alla revoca del regime di 41-bis a cui Provenzano era sottoposto, imputandola a condizioni mediche». A causa dell’aggravarsi delle stesse, il 9 aprile 2014 venne ricoverato all’Ospedale San Paolo di Milano, proveniente dal centro clinico degli istituti penitenziari di Parma. Nell’estate 2015 la Cassazione riconfermò il regime di 41 bis presso la camera di massima sicurezza dell’ospedale milanese, respingendo l’istanza dei legali di Provenzano di spostarlo nel reparto riservato ai detenuti ordinari, in regime di detenzione domiciliare. Motivazione di questa decisione fu la tutela del diritto alla salute del detenuto, ritenendo la Corte Suprema che l’esposizione alla promiscuità dell’altro reparto (peraltro non attrezzato ad assicuragli un’assistenza sanitaria efficace come quella di cui godeva nella camera di massima sicurezza) l’avrebbe messo a “rischio sopravvivenza”.
Secondo l’interpretazione dei giudici della Cassazione, quindi, la conferma del 41bis era ritenuta una garanzia per il detenuto e non un atto inumano o degradante. Anche perché nelle misure restrittive di tale disposizione detentiva non c’è davvero nulla di disumano se rapportato ai crimini efferati per i quali viene applicato. Ecco cosa prevede il 41bis: isolamento nei confronti degli altri detenuti: il detenuto è situato in una camera di pernottamento singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere. L’ora d’aria è limitata a due ore al giorno e avviene anch’essa in isolamento. Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con gli altri poliziotti penitenziari. Limitazione dei colloqui con i familiari per quantità (massimo uno al mese), per qualità (impedito contatto fisico da un vetro divisorio) e per durata. Solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti. Visto di censura della posta in uscita e in entrata. Limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti (penne, quaderni, macchine fotografiche, bottiglie, ecc.) che possono essere ricevuti dall’esterno. Esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati.
LE REAZIONI ALLA SENTENZA DELLA CORTE EUROPEA
Ebbene secondo i giudici di Strasburgo questo reiterato isolamento sarebbe stato inumano e degradante in quanto Provenzano era malato e probabilmente sarebbe stato meglio a casa sua, vicino all’affetto dei familiari e degli amici, magari anche di qualche boss latitante cui esprimere le ultime volontà sulla sorte di qualche pentito. «I comportamenti inumani – attacca il vicepremier e leader del M5S Luigi Di Maio – erano quelli di Provenzano. Il 41bis è stato ed è uno strumento fondamentale per debellare la mafia e non si tocca. Con la mafia nessuna pietà». A fargli eco, il ministro e vicepremier Matteo Salvini: «La Corte Europea di Strasburgo ha condannato l’Italia perché tenne in galera col carcere duro il signor Provenzano, condannato a 20 ergastoli per decine di omicidi, fino alla sua morte. Ennesima dimostrazione dell’inutilità di questo ennesimo baraccone europeo. Per l’Italia decidono gli Italiani, non altri». «Il 41 bis non si tocca, sia chiaro» sottolinea quindi il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Ovviamente l’avvocato Rosalba Digregorio, legale del capomafia, esprime invece soddisfazione. «Noi non ci siamo rivolti alla Corte di Strasburgo per avere una misura risarcitoria, insomma per chiedere soldi, come fanno tanti detenuti. A me la decisione in questi termini sta bene perché riconosce che noi non abbiamo fatto una battaglia inutile ma in linea con il diritto è importante». In realtà la richiesta risarcitoria, pari a 150mila euro, era stata presentata ma anche rigettata dai giudici, la cui sentenza ha suscitato lo sdegno dei familiari delle vittime: «Da Strasburgo neanche quando sono morti ci risparmiano di menzionarli, e ci ricordano i nostri aguzzini, caso mai cercassimo di dimenticarli. Dove era Strasburgo dei diritti dell’uomo la notte del 27 maggio 1993 quando Provenzano ha mandato i suoi uomini a Firenze ad ammazzarci per far annullare il 41 bis, giusto sulla carta bollata?» Lo afferma, in una nota, Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili.
L’ASSOLUZIONE DI MAOMETTO DALL’ACCUSA DI PEDOFILIA
E’ davvero curioso notare quale acribica attenzione ai diritti umani esercita la Corte Europea nel prendere le difese di personalità controverse non solo del recente passato come Provenzano ma anche dell’antichità come il profeta dell’Islam. La sentenza con cui i giudici Cedu rigettano la richiesta di annullamento di una condanna avanzata da una donna austriaca ha tutto il tenore di una riabilitazione postuma di Maometto con la contestuale assoluzione dall’aberrante accusa di pedofilia. Un’accusa che ha rilevanza soltanto morale in quanto è bene rammentare che in molti paesi musulmani il matrimonio con le spose bambine non è soltanto consentito ma additirrura consigliato: qualcuno sostiene proprio in virtù dell’esempio del profeta con la piccola Aisha. Ma veniamo al caso giudiziario che risale al 2009. In Austria durante il seminario “Rudimenti dell’Islam”, una relatrice si sofferma a trattare l’argomento sensibile del matrimonio di Maometto con Aisha, figlia di Abu Bakr, una bambina di 6 anni, matrimonio consumato quando la bambina aveva 9 anni, secondo la studiosa e molteplici fonti ufficiali che analizzeremo in seguito. Secondo i testimoni presenti alla lezione, la signora E.S. avrebbe detto “gli piaceva farlo con le bambine” e “Come lo chiameremmo, se non un caso di pedofilia?”. Le affermazioni non sonostate gradite da qualcuno in sala che l’ha denunciata e nel 2011 è stata condannata da un Tribunale penale austriaco a pagare una multa di 480 euro, più le spese legali. La donna ha fatto ricorso invocando il proprio diritto alla libertà di espressione, ritenendo di aver “dato un contributo al dibattito pubblico” ed asserendo inoltre che “i gruppi religiosi devono poter tollerare critiche nei loro confronti”. Ma anche la Corte Suprema ha ribadito la condanna e pertanto alla relatrice non è rimasta altra soluzione che rivolgersi speranzosa alla Corte Europea dei Diritti Umani, che si è pronunciata giovedì 25 ottobre. Secondo la Cedu di Strasburgo i commenti della signora non sono oggettivi, mancano di riscontri storici obiettivi e non mirano a promuovere un dibattito pubblico ma soprattutto, contrariamente a quel che sostiene lei stessa, “possono essere intesi solo come miranti a dimostrare che Maometto non sia degno di devozione” e sono basati su fatti che “mirano a denigrare l’islam”. Da qui il rigetto del ricorso che ritiene pertanto legittima la sentenza della Suprema Corte austriaca nella quale, tra le motivazioni della multa, viene sentenziato che “il diritto di libertà di espressione deve rapportarsi con il diritto degli altri a veder tutelato il proprio sentimento religioso e serve il legittimo scopo di preservare la pace religiosa in Austria”.
LE FONTI STORICHE SU AISHA NELLA SUNNA
Sorvolando sulla considerazione dei giudici austriaci per cui Maometto va difeso onde evitare una guerra religiosa col rischio di qualche attentato (Charles Hebdo insegna), secondo la Corte Europea dei Dirittti Umani nelle dichiarazioni della studiosa austriaca mancano soprattutto “riscontri oggettivi o storicamente fondati”. Un’affermazione che cozza apertamente con tutte le cognizioni musulmane in merito alla vicenda della piccola Aisha, una delle mogli di Maometto. Ecco come la vicenda risulta narrata da fonti ritenute tanto storiche quanto ufficiali dagli stessi islamici. La storia del matrimonio tra il profeta e la bambina è narrata in numerosi ʾaḥādīth: si tratta degli aneddoti di alcune righe sulla vita del profeta dell’islam Maometto (Muhammad), che hanno un significato molto più importante perché sono parte costitutiva della cosiddetta Sunna, la seconda fonte della Legge islamica (Sharīʿa) dopo lo stesso Corano. Esistono milioni di ʾaḥādīth, classificati per isnād (catena di trasmissione) ed affidabilità. La collezione della totalità dei singoli ʾaḥādīth costituisce appunto la Sunna. Secondo attestazioni di diversi ḥadīth, in particolare quelli del libro Ṣaḥīḥ di Bukhari, Āisha aveva 6 anni in occasione del suo matrimonio formale e 9 anni al momento della prima consumazione e fu con il profeta fino alla sua morte nel 632, mentre secondo qualche altro hadith Aisha aveva 7 anni quando contrasse il matrimonio e 10 quando lo consumò. Secondo la maggior parte delle fonti, all’età di sei anni sarebbe stata data in sposa a Maometto che aveva circa 50 anni, divenendo la terza moglie e la favorita del profeta della religione islamica anche se non gli diede figli. Una fonte la vuole invece sposata a 10 anni con consumazione a 15 anche se, con ogni probabilità, l’età di dieci anni deve essere riferita alla consumazione del matrimonio, non alla stipula del contratto nuziale tra Abū Bakr (tutore della figlia) e Maometto. Si ritiene che siccome Āisha fosse ancora troppo giovane quando il contratto matrimoniale era stato perfezionato, il matrimonio fu consumato alcuni anni dopo, quando la piccola avrebbe avuto nove o dieci anni, ma secondo il giornalista e studioso islamico Magdi Cristiano Allam, il profeta la tenne lontana da casa per alcuni anni perché dopo la stipula del contratto matrimoniale la fanciullina avrebbe perso tutti i capelli a causa di una malattia.
LA CEDU LEGITTIMO’ L’USO DI GESU’ PER LE PUBBLICITA’
Ecco quindi che la sensibilità religiosa dei giudici della Cedu è stata tale da giungere al negazionismo di fonti storiche, talmente consolidate da ispirare ed incentivare la pratica dei matrimoni con spose bambine tra gli islamici. Ma analoga attenzione su tematiche di fede la Corte non la manifestò nei mesi scorsi in merito ad una vicenda che riguardava il Messia dei Cristiani. I magistrati di Strasburgo avevano difeso l’uso dei simboli religiosi nelle pubblicità e condannato la Lituania che aveva multato un’azienda che si era servita di Gesù e Maria per vendere vestiti. Secondo i giudici, la multa inflitta per aver “offeso la morale pubblica” ha violato il diritto alla libertà d’espressione. Nella sentenza di Strasburgo si legge che la Corte ritiene che “la libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica”. Essa, inoltre, “si estende a idee che scioccano, offendono o disturbano”. Basta che quelle idee, anche se suffragate da riscontri oggettivi e storicamente fondati, non tocchino Maometto… Senza bisogno della Sharia, per cui oggi la cristiana Asia Bibi in Pakistan rischia l’impiccagione, anche in Europa vige la legge della blasfermia, ma solo contro l’Islam.
Fabio Giuseppe Carlo Carisio
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