Il rapporto tra le istituzioni finanziarie e le aziende del settore militare è da tempo oggetto di
attenzione da parte della società civile internazionale ed in particolare delle associazioni che si
prefiggono un controllo attivo sulla produzione e sul commercio dei sistemi militari e delle armi di
piccolo calibro per promuovere politiche di disarmo o anche solo di maggior trasparenza sulle
attività dell’industria militare o, più semplicemente, per prevenire esportazioni di armi che
possano esseri utilizzate per la repressione interna, l’aggressione internazionale o contribuire
all’instabilità regionale.
Le crescenti interconnessioni tra le industrie degli armamenti – le cui cento principali aziende
hanno registrato nel 2012 vendite di sistemi militari per circa 395 miliardi di dollari, cifra che
equivale al prodotto interno lordo dei 72 Paesi più poveri del mondo – e i gruppi bancari e
finanziari preoccupano ampi strati della società civile internazionale sia per l’opacità che
caratterizza questi settori, le cui operazioni sono spesso coperte dal segreto militare e bancario,
sia per l’incidenza dei fenomeni corruttivi: uno studio dello Stockholm International Peace
Research Institute (SIPRI) riporta che il commercio degli armamenti, pur rappresentando solo una
piccola percentuale di tutto il commercio mondiale, comprende circa il 40% di tutta la corruzione
globale, imponendo così un pesante fardello sia ai paesi fornitori che ai paesi acquirenti e
danneggiando le stesse istituzioni democratiche.
Il quadro internazionale
Queste interconnessioni indicano l’ampliarsi di quel “complesso militare-industriale” riguardo al
quale il presidente americano Dwight D. Eisenhower metteva in guardia gli Stati Uniti già negli anni
Cinquanta e che oggi, in regime di globalizzazione, va sempre più configurandosi come un
“complesso militare-finanziario-industriale internazionale”. Alla sua espansione stanno
contribuendo in modo crescente i recenti processi di privatizzazione e internazionalizzazione delle
maggiori imprese militari occidentali e il ruolo sempre più preponderante dei gruppi bancari e
finanziari sulle attività del mondo industriale e in particolare delle aziende, come quelle del settore
militare, che necessitano di ampi e costanti investimenti per la ricerca e lo sviluppo di nuovi
sistemi e tecnologie.
Tutto ciò sta avendo notevoli ripercussioni sia sugli attori statali (governi, rappresentanze
politiche, ecc.) per quanto concerne l’effettiva possibilità di determinare in modo autonomo e
incondizionato le proprie politiche riguardo ai sistemi per la difesa e di implementare dei criteri
limitativi sulle esportazioni di armamenti, sia sulla capacità degli attori non statali (associazioni e
movimenti della società civile, rappresentanze dei lavoratori ecc.) di incidere sulle politiche
nazionali di produzione ed esportazione di armamenti.
Sono questioni che riguardano da vicino soprattutto i paesi dell’Unione europea e, in particolare,
l’Italia. Come evidenzia un recente documento del Comitato economico e sociale europeo, la
necessità per le industrie del settore degli armamenti di minimizzare i costi di progettazione e
sviluppo dei propri sistemi militari e, più di recente, di far fronte alla riduzione degli stanziamenti
disponibili per i budget militari a seguito della crisi economico-finanziaria “sta trasformando alcuni
ministri della Difesa in promotori delle esportazioni esplicitamente riconosciuti”. In questo
contesto, gli sforzi tesi ad attuare una politica estera e di sicurezza comune, ridefinendo anche il
ruolo e la funzione dell’industria europea della difesa, rischiano di essere sopraffatti da logiche di
tipo industriale e finanziario, dalla necessità cioè delle industrie militari da un lato di mantenersi
concorrenziali in un mercato globale degli armamenti sempre più competitivo e dall’altro di dover
rispondere ai propri azionisti e finanziatori privati più che ai rappresentanti politici
democraticamente eletti.
Le campagne internazionali e le attività finanziarie nell’industria militare
Alle storiche iniziative, promosse soprattutto da movimenti religiosi, di boicottaggio delle attività a
sostegno della produzione di armi, tabacco, prodotti alcolici e pornografici, sono subentrate a
partire dagli anni Ottanta diverse campagne più specificamente dirette verso le istituzioni bancarie
che finanziano la produzione di sistemi d’arma e il loro commercio.
Negli anni recenti sono state soprattutto di tre tipi le iniziative internazionali che hanno posto
l’attenzione sulle attività finanziarie a sostegno del settore degli armamenti: la prima, promossa
soprattutto dall’ong belga Netwerk Vlaanderen (oggi FairFin) e dalla sezione olandese di IKV Pax
Christi ha diffuso diversi rapporti sulle istituzioni finanziarie coinvolte nella produzione di bombe a
grappolo (cluster bombs); la seconda, promossa dalla International Campaign to Abolish Nuclear
Weapons (ICAN) ha diffuso due rapporti sulle attività delle istituzioni finanziarie pubbliche e
private a sostegno delle industrie coinvolte nella produzione, manutenzione e modernizzazione
delle armi nucleari; la terza, promossa da un ampio gruppo di associazioni di paesi europei, ha reso
noto rapporti e informazioni sia sulle attività delle Agenzie di Credito a favore dell’esportazione di
sistemi militari, sia sui gruppi bancari internazionali e nazionali che forniscono servizi
all’esportazione di armamenti.
Le campagne nei confronti delle istituzioni finanziarie coinvolte nella produzione di ordigni
nucleari e di bombe a grappolo si caratterizzano innanzitutto per rivolgere la loro attenzione verso
specifici settori della produzione di armamenti, quelli cioè dagli effetti indiscriminati e devastanti
come gli ordigni nucleari o particolarmente brutali come le bombe a grappolo. Sono sistemi di
armamento verso cui la società civile internazionale mostra da tempo una forte e ampia sensibilità
che spesso però il mondo bancario tende a minimizzare definendo questi sistemi come
“controversi”: si tratta di fatto – e come tali andrebbero definititi – di armi di distruzione di massa
la cui proliferazione è vietata da trattati internazionali (le bombe nucleari) o esplicitamente messe
al bando, come le munizioni a grappolo.
Entrambe queste campagne hanno un triplice merito: innanzitutto hanno saputo identificare le
industrie in qualche modo coinvolte nella produzione di questi sistemi militari; in secondo luogo
hanno rivelato, grazie soprattutto alle preziose informazioni fornite dalla società di ricerche
Profundo, i tipi di finanziamento e di servizi offerti dai maggiori gruppi bancari internazionali alle
industrie produttrici di questi armamenti; in terzo luogo, hanno saputo promuovere specifiche
azioni di pressione nei confronti degli istituti bancari per chiedere di porre fine ai finanziamenti e
ai servizi a sostegno della produzione di questi sistemi.
Non vanno però sottovalutati i limiti e i problemi di queste campagne: circoscrivere l’attenzione a
specifiche tipologie di armamento come gli ordigni nucleari e le bombe a grappolo può infatti
indurre a considerare in qualche modo meno rilevanti – se non addirittura a legittimare – le
operazioni finanziarie collegate alla produzione e commercializzazione delle armi convenzionali e
delle armi di piccolo calibro che sono quelle maggiormente impiegate nei conflitti attuali. Ma
soprattutto, porre il centro di interesse sulle attività di partecipazione e di finanziamento, diretto o
indiretto, dei gruppi bancari alle aziende produttrici di questi sistemi militari espone queste
campagne ad una critica sostanziale: quella di incidere su un settore la cui produzione non
riguarda, tranne alcuni casi specifici, solamente – e talvolta nemmeno principalmente – i sistemi
militari ma che realizza soprattutto sistemi civili. [Tra le aziende identificate da queste campagne
figurano, ad esempio, la Boeing (solo un terzo dei sistemi che vende è di tipo militare), la RollsRoyce (all’incirca un quarto) o il gruppo europeo EADS (poco più di un quinto)]. In questo senso, se
è certamente necessaria la richiesta alle istituzioni bancarie che finanziano queste aziende di
escludere tutte le operazioni che riguardano la produzione di armi di distruzione di massa o dagli
effetti indiscriminati, è invece meno efficace la semplice richiesta di “disinvestire” dalle aziende a
produzione militare e civile: occorrerebbe, piuttosto, promuovere azioni di disinvestimento mirate
allo specifico settore degli ordigni nucleari e delle bombe a grappolo – o anche al più generale
settore militare – per promuovere gli investimenti nel settore civile di queste aziende.
Le campagne nazionali e la responsabilità sociale delle banche
Queste due campagne, però, hanno fornito un importante contributo di informazioni anche alle
associazioni che chiedono ai gruppi bancari di definire criteri più stringenti di responsabilità sociale
d’impresa per il settore degli armamenti convenzionali e soprattutto di migliorare la trasparenza
per le operazioni di finanziamento e di servizi alla produzione e alla commercializzazione di sistemi
militari e delle armi di piccolo calibro. Pur mettendo in atto campagne soprattutto a livello
nazionale anche queste iniziative stanno ottenendo risultati importanti soprattutto per quanto
riguarda l’implementazione da parte dei gruppi bancari con sede nell’Unione europea di direttive
atte a regolamentare le operazioni con un settore, quello dell’industria militare che, sebbene
abbia come principali acquirenti i ministeri della difesa, ricava ampi profitti dalla vendita di
armamenti a paesi in zone di conflitto, in cui si verificano costanti violazioni dei diritti umani e forti
limitazione delle libertà democratiche e che, pur presentando bassi indici di sviluppo umano e
ampi strati di povertà tra la popolazione, impiegano ampie risorse nella spesa militare. Da diversi
anni sono infatti i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, della Penisola araba e del
Subcontinente indiano i principali destinatari dei sistemi militari esportati dai paesi dell’Unione
europea.
In questo contesto vanno segnalate le campagne promosse dalle già menzionate associazioni
belghe Netwerk Vlaanderen (oggi FairFin) e olandesi IKV Pax Christi presso le banche dei rispettivi
paesi, quelle dirette verso le banche con sede in Spagna promosse dalla Commissione Giustizia e
Pace di Barcellona insieme al Centro Studi per la Pace J. M. Delàs, all’associazione SETEM che
promuove la finanza etica e all’Osservatorio sul Debito nella Globalizzazione (ODG), quelle in
Francia promosse dall’associazione Amis de la Terre (Amici della Terra), in Germania
dall’associazione Urgewald e dalla campagna Facing Finance.
Ma soprattutto è da segnalare l’attività della Campagna di pressione alle “banche armate” che,
promossa dal 2000 dalle riviste “Missione Oggi” dei missionari saveriani, “Nigrizia” dei missionari
comboniani e “Mosaico di pace” dell’associazione Pax Christi, è stata sostenuta da numerose
associazioni della società civile italiana attente ai temi della finanza responsabile e del disarmo.
Grazie alle iniziative di questa campagna tutti i maggiori gruppi bancari italiani hanno emanato
direttive più rigorose per quanto riguarda gli specifici settori del finanziamento all’industria
militare e soprattutto per le operazioni a sostegno delle esportazioni di armamenti italiani: alcuni
istituti bancari hanno deciso di escludere totalmente dalla propria operatività queste operazioni
(tra questi Monte dei Paschi di Siena, IntesaSanpaolo, Banca Popolare di Milano, Banco Popolare,
Credito Valtellinese, ecc.), altri hanno deciso di limitare fortemente e di rendere trasparenti le
proprie operazioni nel settore (tra questi soprattutto UBI Banca e Banca Popolare dell'Emilia
Romagna), altre ancora di regolamentarle in modo più stringente (tra queste UniCredit e Crédit
Agricole) o di circoscriverle solo ad alcuni paesi alleati (tra queste la banca BNL). Ciò ha
inevitabilmente comportato una maggiore attività nel settore da parte di gruppi bancari esteri
(soprattutto BNP Paribas e Deutsche Bank) favoriti anche dalla minor trasparenza su queste
operazioni nelle rispettive legislazioni nazionali.
Va però notato che anche in Italia, a partire dall’ultimo governo Berlusconi, la trasparenza in
questo settore è stata fortemente intaccata: la sezione della relazione predisposta dal Ministero
dell’Economia e delle Finanze risulta infatti mancante del voluminoso “Riepilogo in dettaglio
suddiviso per Istituti di Credito” presente nelle Relazioni governative fin dall’entrata in vigore della
legge n. 185 che dal 1990 regolamenta l’esportazione di sistemi militari italiani. Una mancanza,
mai giustificata al Parlamento, che ha comportato la sottrazione di informazioni di primaria
importanza non solo per verificare l’attuazione delle direttive emanate dalle banche italiane ma
soprattutto per implementare forme di pressione puntuali e precise anche sulle banche estere.
Questa sottrazione di informazioni non è certo frutto di una dimenticanza: sono state infatti
numerose le richieste da parte della Campagna “banche armate” ai governi che si sono succeduti
di ripristinare quella sezione della Relazione. E non va dimenticato che proprio le attività della
campagna e le conseguenti direttive assunte dagli istituti bancari nazionali sono state oggetto
delle reiterate lamentele della potente Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la
Sicurezza (AIAD) che ha ripetutamente esplicitato le proprie rimostranze per l’assunzione da parte
dei gruppi bancari nazionali di direttive limitative nei confronti delle industrie del settore militare.
Segno evidente che le campagne della società civile, se ben dirette e documentate, possono
incidere anche in un settore quanto mai opaco come quello dell’industria degli armamenti che non
solo movimenta miliardi di euro, ma che soprattutto dovrebbe rispondere alla domanda di pace e
di sicurezza delle popolazioni più che alle logiche del profitto e del mercato.
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sabato 6 aprile 2019
LA FINANZA E IL SETTORE DEGLI ARMAMENTI
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