domenica 4 ottobre 2020

La Turchia: uno “stato cinese”?


“Erdogan is turning Turkey into a Chinese Client State” (Erdogan sta trasformando la Turchia in uno stato satellite cinese), così titola un recente articolo pubblicato da Foreign Policy.

Si parla molto di Turchia in questo momento a causa della disputa territoriale con la Grecia e Cipro che vede Erdogan protagonista nel Mediterraneo Orientale.
Nonostante una crisi economica sempre più grave (che sta provocando un’importante perdita di consenso interno), nonostante un sempre più evidente isolamento della Turchia sia in ambito NATO che nel mondo musulmano (pochi giorni fa la Lega Araba ha votato una mozione che intima alla Turchia di ritirare le proprie truppe da tutti i paesi musulmani, Libia, Siria ed Iraq), Erdogan sembra non fare un solo passo indietro (il ritiro della nave da ricerca Oruç Reis, salutato da alcuni come segno distensivo, non è che tecnico, la nave ritornerà a fare prospezioni molto presto) ed appare molto sicuro di sé, ed allo stesso tempo certo della debolezza e dell’incertezza dei suoi avversari nel teatro mediterraneo
Vogliamo quindi riprendere alcuni elementi citati nel suddetto articolo ed aggiungervene altri per fornire una visione più completa possibile dei rapporti tra Turchia e Cina,così da potercontribuire a spiegare la situazione attuale ed a prevedere le mosse future di questi due stati.
Per molti anni Erdogan ha energicamente condannato il trattamento inumano degli Uiguri (che sono una popolazione Musulmana eturcofona) da parte del regime cinese chiamandolo senza mezzi termini “genocidio” nel 2009; per anni la Turchia è stato un porto sicuro per gli Uiguri che fuggivano il regime cinese.
Nel 2016 avviene un cambiamento inaspettato: le autorità turche arrestano ed estradano in Cina Abdulkadir Yapcan, un attivista Uiguro di primo piano che viveva da tempo nel paese.
L’anno successivo la Turchia e la Cina firmano un accordo di estradizione anche per fatti che sono reato in uno solo dei due paesi.
Nel 2019 moltissimi Uiguri vengono arrestati in Turchia e deportati.
Anche le condanne verbali di Erdogan e dei media governativi nei confronti di Pechino spariscono quasi completamente dal panorama giornalistico e diplomatico
Come spiegare un cambiamento del genere?
In un momento di grande difficoltà economica, la Cina ha offerto il proprio aiuto alla Turchia, e questo comporta automaticamente l’approvazione di Ankara alle azioni cinesi ed il silenzio davanti a certe pratiche per le quali Pechino non tollera intromissioni e contestazioni.
Effettivamente, a partire dal 2016, la collaborazione tra Cina e Turchia si espande esponenzialmente, tanto che negli ultimi 4 anni sono stati firmati 10 accordi bilaterali. Ma c’è di più.
Attualmente la Cina è il secondo più grande importatore di prodotti turchi dopo la Russia: il volume degli scambi commerciali nel 2018 è stato di 23 miliardi di dollari, di cui 20 miliardi di importazioni da parte della Cina, marcando un deficit commerciale cinese di ben 17 miliardi, tutto a vantaggio della Turchia.
Numerosi Imprenditori cinesi hanno investito in Turchia circa 3 miliardi di dollari soprattutto in infrastrutture nel periodo 2016-2018, ed è previsto il raddoppio di tale somma entro la fine del 2020.
Nel 2018 la Cina ha proclamato “l’anno del turismo turco”, spingendo i propri cittadini a visitare la Turchia; nel 2018 quasi 400.000 turisti cinesi hanno visitato il paese, un aumento del 60% rispetto all’anno precedente. Prima che la pandemia colpisse il settore turistico era anche previsto il raddoppio dei turisti cinesi entro la fine di quest’anno.
Quando il valore della lira turca è precipitato del 40% nel 2018 la Commercial Bank of China (di proprietà dello Stato) ha concesso alla Turchia prestiti per un valore di 3,6 miliardi di dollari, destinati a progetti energetici e nel campo dei trasporti.
Nel 2019, dopo che le elezioni municipali in Turchia avevano evidenziato un preoccupante calo della popolarità di Erdogan (il cui partito perse il controllo di molte delle città principali), la Banca Centrale cinese trasferì 1 miliardo di dollari in contanti alla sua consorella turca.

Quest’anno l’economia turca, già in recessione, è stata ulteriormente affondata dalla crisi pandemica. Subito il partito comunista cinese è accorso ancora una volta in aiuto di Erdogan: a partire da giugno le compagnie turche sono state autorizzate ad usare la valuta cinese per le transazioni commerciali, consentendo loro un più agevole accesso alla liquidità cinese.
Huawei, ormai sempre più in difficoltà in Occidente a causa dei suoi legami con il regime cinese, è invece incontrastata in Turchia: la porzione di mercato di Huawei è passata dal 3% nel 2017 al 30% nel 2019.
Un’altra importante società di telecomunicazioni cinese, ZTE, ha acquisito il 48% delle quote di Netas, il più importante produttore turco di hardware nel campo delle telecomunicazioni, il quale si sta occupando tra l’altro delle installazioni presso il nuovo aeroporto di Istanbul e della digitalizzazione della banca dati nazionale del ministero della sanità.
Potremmo chiederci come mai il regime cinese abbia deciso di essere così generoso con la Turchia di Erdogan. La risposta si trova probabilmente nel grande progetto economico-strategico cinese, la nuova Via della Seta, che vede nella Turchia uno dei suoi punti nevralgici.
Si tratta di una collaborazione cominciata prima del 2016, ma che è diventata sempre più stretta col passare del tempo.
La Turchia ha già completato la ferrovia che collega l’est del paese con Baku, in Azerbaijan, dove si connette a sua volta al sistema di trasporti che parte dalla Cina.
Nel 2015 un consorzio cinese ha acquistato il 65% delle azioni della società che gestisce il terzo più grande terminal per container in Turchia, Kumport, a Istanbul.
A gennaio di quest’anno sempre un consorzio cinese ha acquisito il 51% delle quote del ponte Yavuz Sultan Selim che collega Europa ed Asia attraverso il Bosforo; il consorzio italo-turco che lo possedeva voleva rivedere la propria partecipazione considerandolo non abbastanza redditizio.
Sempre quest’anno la China’s Export and Credit Insurance Corporation ha promesso alla Turchia fino a 5 miliardi per finanziare altri progetti legati alla Via della Seta.
Anche la cooperazione militare è stata oggetto di legami sempre più profondi: il missile balistico turco Bora, basato sul missile cinese B-611, ed utilizzato recentemente in operazioni contro il PKK, è uno dei risultati di questa cooperazione, così come lo è stata la partecipazione di ufficiali cinesi alle esercitazioni militari turche “Efeso” nel 2018.
È chiaro che l’aiuto cinese ha dato ad Erdogan l’immagine di un presidente capace di attirare importanti investimenti stranieri e portare avanti grandi progetti, elementi molto importanti per un uomo politico in crisi di consenso; il regime cinese ha fornito anche, materialmente, il denaro necessario a non far collassare l’economia turca.
In questo modo Erdogan non ha dovuto rivolgersi ai propri partner occidentali o ad istituzioni a guida americana, come il Fondo Monetario Internazionale, che richiederebbero serie riforme e cambiamenti in cambio di prestiti, riforme che Erdogan non può realizzare senza perdere il controllo totale che ha sul paese.
Ma quali vantaggi per il regime cinese?
La Cina acquisisce una testa di ponte sul Mediterraneo (peraltro perfettamente collegata alla madrepatria da una moderna rete di trasporti) ed una capacità di proiezione di forza verso l’Europa e l’Africa. Se avete letto la nostra analisi sugli sviluppi militari cinesi saprete che le infrastrutture costruite con fondi cinesi nell’ambito di questi progetti economici sono realizzate secondo standard militari, consentendone un doppio uso civile/militare.
Il regime cinese conquista inoltre un alleato nella NATO, potendone quindi indirettamente influenzare l’azione (o inazione).
Per finire, entrambe le nazioni sono spinte da ideologie di rivalsa e di recupero di un glorioso passato, la grande Cina Imperiale e l’Impero Ottomano, sogni che non possono realizzarsi nell’attuale contesto internazionale basato su istituzioni create dall’Occidente e guidate dagli USA.

In questa ottica devono essere viste le azioni turche degli ultimi anni, azioni aggressive ed impavide, in Iraq, in Siria, in Libia ed ora nell’Egeo.
La Turchia è oggi una media potenza che sogna la grandezza con alle sue spalle una grande potenza che ne ha compresa la rilevanza strategica.
Non sappiamo in che misura le azioni di Erdogan siano sue idee personali oppure siano dettate dall’alleato cinese, ma ciò che sappiamo è che la Cina sosterrà la Turchia finché i progetti turchi saranno in linea con i piani cinesi.
Per certo la disgregazione della NATO è un obiettivo russo tanto quanto cinese ed è ciò che stiamo vedendo materializzarsi sotto i nostri occhi.
Nonostante un’apparente solitudine, Erdogan si trova quindi in una posizione di forza grazie al sostegno economico cinese che gli ha permesso e gli permette di mantenere il controllo del paese nonostante anni di serie difficoltà economiche e sociali.
Oggi i paesi europei non possono rispondere con forza alle azioni turche; imporre delle sanzioni ed escludere le banche turche dai mercati finanziari internazionali costituisce un enorme rischio per le banche europee (esposte per più di 100 miliardi di dollari sul mercato turco) e quindi per la tenuta stessa dell’Eurozona. Si rischia inoltre di rompere il delicato equilibrio riguardo ai milioni di migranti presenti sul suolo turco, desiderosi di salpare verso l’Europa.
Anche l’amministrazione americana sembra non voler prendere di petto la sfida lanciata dalla Turchia, forse anche grazie all’ottimo rapporto personale che Erdogan è riuscito a stabilire con il Presidente Trump.Erdogan dovrebbe però fare attenzione a non spingersi troppo oltre nel suo confronto muscolare con i paesi occidentali: in caso di guerra aperta il sostegno cinese non è scontato, trattandosi di un rapporto di interesse e non di un’alleanza e non avendo oggi la Cina una efficiente meccanismo militare di proiezione di forza.
Come Erdogan ha tradito gli Uiguri, allo stesso modo potrebbe essere a sua volta lasciato solo nell’ora più buia dal partito comunista cinese, suo alleato di convenienza in questi ultimi cinque anni.


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